In un articolo pubblicato nel n. 87 della rivista «Sur», a Buenos Aires (dicembre 1941), Jorge Louis Borges commenta con evidente sarcasmo le due versioni cinematografiche del racconto di Stevenson (Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde, 1931, r. Rouben Mamoulian, int. Friedrich March; Dr. Jekyll e Mr. Hyde, 1941, r. Victor Fleming, int. Spencer Tracy). Sostanzialmente rimprovera i due registi, Mamoulian e Fleming, di aver perpetrato degli «errori estetici e morali» nella loro versione (perversione) del testo stevensoniano. Riporto le parole di Borges: «Nel libro, l’identità di Jekyll con Hyde è una sorpresa: l’autore la riserva per la fine del nono capitolo. Il racconto allegorico finge di essere un giallo: non c’è lettore che indovini che Hyde e Jekyll sono la stessa persona; il titolo stesso ci fa postulare che siano due. Nulla di più facile che trasferire al cinema questo procedimento. Immaginiamo qualunque problema poliziesco: due attori che il pubblico riconosce nella trama (George Raft e Spencer Tracy, diciamo) possono usare parole analoghe; possono menzionare fatti che presuppongono un passato comune; uno di essi sorbisce la droga magica e si muta nell’altro. Victor Fleming [il regista] elude ogni sorpresa e ogni mistero: nelle scene iniziali del film, Spencer Tracy inghiotte senza paura il versatile intruglio e si trasforma in Spencer Tracy, con diversa parrucca e fattezze negroidi».
Borges, con la consueta ironia, ci suggerisce quanto detesta la visibilità della trasformazione di Jekyll nel suo doppio Hyde. Avrebbe preferito che le cose si svolgessero in modo più misterioso e allegorico, nel regno dell’allusivo, del non-detto e del non-visto, senza che l’occhio dello spettatore fosse costretto ad assistere al nudo e volgare fatto. Ma ciò che è heimlich, domestico, intimo, contiene anche il suo opposto, ciò che è unheimlich, non familiare, perturbante. Chi vede l’altro da sé, scrutando il suo doppio, lo contiene già, almeno in potenza. Il suo sguardo non vede qualcosa oltre, nel mondo esterno, ma vede qualcosa dentro, nel suo mondo interiore sconvolto. Ad esempio, il protagonista della Lettera di un pazzo di Guy de Maupassant, non vede più se stesso riflesso nello specchio ma soltanto una macchia biancastra. Da questa mancata visibilità nasce la prima impressione d’orrore.
«Mi rizzai, voltandomi così in fretta che per poco non caddi. Ci si vedeva come in pieno giorno, ma io non mi vidi dentro lo specchio! Era chiaro, trasparente, pieno di luce. Io non c’ero dentro, eppure gli stavo davanti. Lo guadavo con occhi spaventati. Non osavo fare un passo, sapendo che c’era lui in mezzo, lui, l’Invisibile che mi nascondeva… A un certo punto cominciai a vedermi in una nebbia in fondo allo specchio, una sorta di nebbia acquosa; e mi parve che quell’acqua scivolasse da sinistra a destra, lentamente, rendendo i miei contorni più nitidi secondo dopo secondo. Era come la fine di un’eclissi. Ciò che mi celava non aveva contorni ma una specie di trasparenza opaca che a poco a poco diventava più limpida».
È nel regno della vista, comunque, che si compie il processo di trasformazione. Quando, da spettatori, osserviamo Friedrich March (Jekyll, nella versione cinematografica di Mamoulian) mutarsi in Hyde e il bellissimo volto dell’attore diventare una faccia negroide e mostruosa, ne restiamo turbati non perché il volto ripugnante sostituisce quello armonioso ma perché nello schermo appare, anche se mutato, lo stesso volto. Non ci sono due attori diversi: il volto di Jekyll – lo scopriamo con orrore – è anche il volto di Hyde. Osservarne la trasformazione è qualcosa che ci inquieta in profondità, perché sentiamo che appartiene tanto a noi quanto a Jekyll quanto all’attore che lo interpreta. Un volto contiene l’altro dentro di sé: il viso di Jeckyll è la maschera, visibile e ipocrita, dell’invisibile e selvaggio Hyde. Nel corso del film i dettagli al riguardo sono sinistri. La visione di Jekyll che si trasforma letteralmente in Hyde davanti ai nostri occhi sprofonda lo spettatore in un incubo. Chi osserva questa scena è il voyeur di una scena proibita. Nessuno, all’interno del film (come all’interno del racconto), sa che il dottore e il mostro sono la stessa persona, ma lo spettatore sì: lui ha visto. Lui, e non gli altri personaggi della storia, conosce il segreto (come in certi film di Hitchcock). Sa che Jekyll è Hyde. E, dopo le prime trasformazioni prevedibili, determinate dall’assunzione cosciente della droga, arriva quella improvvisa, non voluta, incontrollabile – uno dei momenti più intriganti e spiazzanti del film. Osservare i peli che crescono sulle mani del dottore sereno, pronto a sposare l’innocente fidanzata, seduto sulla panchina del parco ad ascoltare il canto degli uccelli, sorprendere il suo volto mentre si muta nel ghigno selvaggio della belva (ogni trasformazione corrompe e invecchia sempre di più i volti dell’attore), ci costringe a vivere uno stato di pànico. Siamo identificati con il protagonista, come se vivessimo all’interno dell’ultimo monologo di Jekyll, della sua confessione finale – quella che leggiamo al termine del racconto di Stevenson.
Il desiderio borgesiano di separare le due figure, pur avendo un suo fascino dal punto di vista narrativo, non ci consentirebbe di entrare, in presa diretta, con tutti i nostri sensi di spettatore e di voyeur, nel dramma del doppio. Separando Jekyll da Hyde, attribuendo a un attore la parte del dottore e a un altro quella del mostro, a venir meno non sarebbe tanto la suspence del racconto quanto la descrizione inquietante del mutamento, l’attesa inorridita di quando Jekyll diventa Hyde. Borges, in fondo, commenta con beffarda ironia il desiderio infantile dello spettatore di essere “sorpreso” e impaurito. Nel momento in cui il mostro ritorna dottore davanti all’amico Lanyon, e i suoi lineamenti orribili, in una metamorfosi rovesciata, ritornano quelli del dottore sconvolto, lo spettatore si ritrova a soffrire in prima persona, a «soffrire» il tema del doppio non come riflessione metafisica ma come brivido dei sensi, emozione dolorosa e partecipe. Alla fine del film, (nelle due versioni la scena è simile), ci troviamo nel laboratorio del dottore. Hyde è riuscito, con la pozione, a trasformarsi ancora una volta in Jekyll, ma l’illusione durerà solo pochi secondi. Mentre il dottore dice ai poliziotti che hanno fatto irruzione nello studio: «Io sono Henry Jekyll… io sono Henry Jekyll», il suo volto muta e, nel crescendo parossistico dell’ultima trasformazione, diventa quello, ormai orribile e disfatto, del mostro. Hyde viene catturato e ucciso. E, quando la morte lo raggiunge, solo allora ritorna possibile, per l’ultima volta, il mutamento conclusivo: lo spirito di Hyde lascia per sempre il corpo di Henry Jekyll, che muore e riposa in pace.
«Gli errori estetici e morali» di cui Borges rimprovera le due versioni del film non sono tanto degli errori quanto delle prospettive originali (e vistose) che ci permettono di accedere, con la passione dei voyeurs, alla realtà concreta che le due polarità – bene e male – sono contenute all’interno dello stesso individuo. Potremmo con Borges, concordare che il tema del «doppio» appare, nelle versioni hollywoodiane, come una banale trasformazione dell’uomo in bestia. Ed è vero che, nei due film, esiste un’evidente quanto commerciale semplificazione della metamorfosi uomo-animale. Ma, se osserviamo un altro film dedicato a Jekyll e Hyde, Le Testament du dr. Cordelier (1959) di Jean Renoir, interpretato da Jean Louis Barrault, notiamo qualcosa di diverso ma di simile. Il film di Renoir lascia intatto l’impianto hollywoodiano della trasformazione, che avviene davanti agli occhi dello spettatore (anche se l’effetto viene limitato al finale del film). Però, diversamente che nei due film precedenti, Barrault non diventa una creatura scimmiesca o mostruosa ma un essere piccolo, luciferino, spavaldo, che indossa un vestito più largo della sua taglia e cammina per le strade agitando il bastone con movimenti sinistri. Affiora un tratto più segreto e meno spettacolare di Hyde: la sua infantile ferocia, la sua capricciosa e onirica “cattiveria”. Qui è innestata nell’andatura stramba, epilettica, convulsa, di Hyde (chiamato, con ironia, Monsieur Opale), nel ghigno del volto, peraltro molto simile a quello del razionale Cordelier, solo leggermente ringiovanito, e non deformato da trucchi vistosi. L’orrore che afferra lo spettatore non è quello, grossolano, della trasformazione dell’uomo in bestia ma quello, più perverso, della metamorfosi di uno psichiatra ipocrita ed elegante in delinquente dall’incontenibile e surreale ferocia, che nell’osservatore suscita un brivido d’orrore.
Mai come in questo caso ci rendiamo conto che il cinema, pur tradendo certe misure narrative del racconto stevensoniano, ne esalta le componenti archetipiche e mette in luce come il “perturbante” non sia un pericolo esterno dal quale mettersi in guardia, ma si annidi profondamente dentro di noi – parte integrante e fondamentale, anche se rimossa – della nostra molteplice personalità. Possiamo difendercene solo guardandolo in viso, esattamente come lo spettatore guarda nello schermo la faccia non rassicurante di Hyde, il suo doppio immaginario. Jekyll scava nella sua ombra come in una terra ignota e scopre l’inaccessibilità dell’inconscio alla coscienza, la lotta dell’animale contro l’uomo cosciente. In Stevenson il mostro, come rivelano le diverse trasposizioni cinematografiche, è la presenza visibile, brutale, malvagia, del fondo ferino della natura umana. Il creatore, il dottore scienziato e sciamano, non modella nessuna materia esterna a sé: non ha la pretesa di creare un essere diverso, un homunculus nuovo, come nella fantasia del sogno faustiano. Il mostro, nel racconto di Stevenson, scaturisce dalla psiche come qualcosa di connaturato ad essa che vuole prendere forma e per il quale l’uomo cosciente può solo provare compassione prima di soccombere alle sue energie negative. Come scrive Stevenson: «Jekyll considerava Hyde, malgrado tutta l’energia vitale di costui, qualcosa non solo di diabolico ma di inorganico. Questo l’offendeva maggiormente, che la melma dell’abisso pretendesse di emettere grida e voci, che la polvere amorfa gesticolasse e peccasse, che una cosa morta e priva di consistenza usurpasse le funzioni della vita».
Una variante della metafora stevensoniana ci è offerta da un celebre film noir, La scala a chiocciola (1940, regia Robert Siodmak.) Emily, una giovane donna sordomuta vive in una vecchia casa di campagna, ospite di una donna malata di cuore. La donna malata abita con i due figli, il tranquillo professor Warren e il malvagio fratello minore. In quella contea accadono delitti misteriosi: c’è un assassino che uccide tutte le donne che hanno qualche infermità fisica. I sospetti, nel film, sono tutti contro il malvagio fratello. Ma, con il procedere della storia, si viene a conoscenza della verità: è l’impassibile professor Warren, emblema di severità e di giustizia, l’assassino. Noi spettatori, che abbiamo creduto ai suoi modi placidi e gentili, ora lo scorgiamo in una luce diversa. Lui guarda Emily allo specchio, si avvicina alla scala. La ragazza, sordomuta, è la vittima prescelta. Lei fugge verso la scala a chiocciola, lui avanza lentamente. La sua faccia bonaria, ora ci appare raccapricciante. Lo sguardo sereno, una maschera dell’impulso omicida. La corporatura tarchiata, una minaccia incombente. Ancora una volta lui è l’altro, Jekyll è Hyde, senza che occorra nessuna trasformazione fisica. E noi, da spettatori attoniti e impotenti, nel buio del cinema, proviamo un oscuro terrore. Solo il colpo di pistola, con cui la madre dell’assassino giustizierà il figlio in fondo alla scala a chiocciola, potrà, anche se momentaneamente, dissiparlo.
Otto Rank, nel suo ormai classico saggio Il doppio, sottolinea che l’operazione psicologica di costruzione di un “sosia-doppio”, è il tentativo di difesa dell’io da pulsioni di autoannientamento. La raffigurazione dell’”altro da sé” sarebbe una strategia per isolare sentimenti distruttivi che, non trovando la loro proiezione in una figura speculare, potrebbero diventare pericolosi per l’integrità dell’io. Il doppio, come immagine separata di sé, è dunque strumento di salvezza, e la salvezza è la possibilità della rappresentazione, la capacità di simbolizzare attraverso l’oggetto rappresentato. Benché carica di valenze persecutorie, aggressive, oppositive, simbiotiche, l’immagine del doppio non si confonde con l’io e ne diventa antagonista necessaria perché l’io compia il suo viaggio di sprofondamento e riemersione dall’abisso delle proprie parti non consce. Si potrebbe pensare a una doppia metafora: lo specchio che rifrange e separa, moltiplicando il mondo interno, opposto allo scudo che concentra e difende, riparando dal mondo esterno. Wilfred Bion teorizza, attraverso la sua esperienza clinica, l’esistenza terapeutica del «gemello immaginario» – figura scissa dell’io e suo doppio necessario. Il «gemello» è il personaggio-maschera in cui desideri rimossi e pulsioni inconsce assumono forma occultati nelle sembianze dell’altro: altro riconosciuto dall’io come identico a sé, sotto le forme apparenti dell’estraneo. Perché somiglianza ed estraneità si avvicinano e si sovrappongono, come nel concetto freudiano di heimlich e unheimlich, e la familiare intimità si trasforma impercettibilmente e facilmente in mistero estraneo e inaccessibile. In ogni uomo, potenzialmente, è racchiuso il contrario di come appare a se stesso e agli occhi del mondo. L’armonia della somiglianza e l’ombra dell’estraneità trovano qui l’evidente confusione e il necessario equilibrio.
Un esempio cinematografico di questa metafora sono le figure di Wilson e di Bannion, nei film di Fritz Lang Furia e Il grande caldo. Entrambi sono personaggi sereni e miti, uomini sposati o tranquilli fidanzati. Ma qualche evento esterno – in Furia un tentativo di linciaggio, ne Il grande caldo l’uccisione della moglie – sono fattori scatenanti che rivelano, nell’individuo più tranquillo, tutta la potenzialità dell’assassino. Infatti sia Wilson che Bannion diventano due vendicatori implacabili. Da uno stato di innocenza si inoltrano nel ruolo dei possibili assassini e si fermano solo nel momento in cui cominciano a fare giustizia. Ancora una volta i concetti di ordine e di disordine diventano complementari. Uno esiste in rapporto con l’altro. E non è mai casuale che un eccesso di ordine nasconda un’inquietudine che finirà per diventare distruttiva. Oppure, al contrario, che uno stato di disordine generi alla fine delle regole. Ogni maschera vede il suo doppio, allo specchio.
Ognuno di noi vede l’altro dentro di noi.