Ogni anno di più il mio nervosismo per la fase di riavvio tra il primo settembre e l’inizio delle lezioni va crescendo, in proporzione all’aumentare delle riunioni. La redazione di Ptof, Rav, Pdm ne ha esteso visibilmente il dominio. Potrei fare un conto preciso, calendari alla mano, non è solo un’impressione e una lagnanza. È una logica psicotica: più cerchi di controllare e organizzare, più ti accorgi che c’è altro che ancora sfugge, più sei costretto a controllare e organizzare. Lo so che non capita lo stesso in tutte le scuole, che qualcuno procede a braccio o se ne frega. Ma so perché sta capitando nella mia: abbiamo preso sul serio questa logica, convinti che sia volta al bene e al miglioramento.
Eppure, ogni anno di nuovo rientro in classe: e lì istantaneamente il nervosismo passa, tra la storia, la letteratura, i ragazzi e le ragazze. Posso tornare in una classe che già conosco o in una nuova, ma l’esperienza è sempre quella del riprincipiare. Uso questa parola e non altri sinonimi più comuni, perché contiene l’idea del “principiante”, condizione che mi pare sempre felicissima.
Quest’anno non si può dire che questo riprincipiare abbia la stessa felicità del passato, le preoccupazioni sono tante; ma, come scriveva Leopardi, la ragione è piccola, la natura è grande: per quanto la prima possa veder nero, la seconda ti sorprende sempre alle spalle. Come la realtà al di fuori dei calcoli, dei progetti, delle programmazioni. Come l’entrare in classe.
Questa felicità del riprincipiare, del reimmergersi nella realtà, c’entra poco con la scuola in quanto istituzione regolata da organigrammi, orari, curricoli; c’entra poco persino con la didattica e le metodologie, quelle istituzioni immateriali dentro cui precipitiamo il sapere per adeguarlo alle esigenze dell’apprendimento formale. Più che un sapere su ciò che la scuola è o deve o dovrebbe essere, è un’esperienza irrefutabile. Non vorrei nemmeno fare l’elogio dell’ineffabile. In verità sto parlando di una quotidianità, di qualcosa che accade per il semplice fatto di alzarsi dal letto tutte le mattine e di dirigersi verso quello spazio predisposto a questo accadere.
So bene che la scuola è un’istituzione storica e che potrebbe diventare decrepita ed essere superata da contesti e pratiche di apprendimento più giovani e competitivi: le università medievali, che pure avevano fatto concorrenza ai monasteri come centri di cultura, si irrigidirono in un sapere scolastico che le accademie rinascimentali e scientifiche ridussero a relitto storico.
So altrettanto bene che l’apprendimento è un fenomeno vastissimo, connaturato alla vita, che avviene ben oltre i recinti della scuola: quello informale e non formale oggi è onnipresente e gli stessi saperi scolastici potrebbero essere efficacemente digitalizzati, trasmessi via internet, distillati senza vincoli spaziali dalle piattaforme online. L’esperienza dell’entrare in classe – che è mia ma non è un’esperienza solipsistica, perché si dà soltanto per la presenza materiale degli studenti e quella immateriale delle materie che insegno – non ha a che fare né con la scuola, né con la didattica, in fondo. Se, nonostante la fatica e il caotico proliferare di discorsi pronunciati per il bene (e per il male) della scuola, continuo ad aver voglia di fare questo mestiere, è perché al fondo di tutto c’è questo: io entro in classe.