Agion Oros, il Santo Monte
Ho viaggiato per il Monte Athos, percorrendo antichi sentieri, salendo migliaia di scalini, accompagnato dal canto degli uccelli in una natura non toccata per migliaia di anni, e visitato sette monasteri, sempre ospitato dai santi monaci, sprofondando in spazi e in tempi remoti. Ma è stato anche, per me, ritornare al passato, alle stagioni nell’isola da cui viene la mia famiglia, al sottofondo del frangersi delle onde sugli scogli, al camminare in salita come un devoto lungo una via Crucis sul monte di quell’isola dove in cima era un santuario, al mio andare, fin da sempre, per mare.
Luglio 2018. Un misto di impazienza e di eccitazione mentre aspetto con altri passeggeri di imbarcarmi sul Micro Aghia Anna. Ouranopolis è l’ultimo avamposto greco prima di entrare nel territorio indipendente del Monte Athos, sulla penisola più orientale della Calcidica, nella Macedonia centrale, che ospita 20 monasteri in una natura incontaminata. All’estremità della penisola, il Monte Athos, con i suoi 2030 metri di altitudine, è una presenza imponente. Il capitano del piccolo traghetto è in attesa delle guardie della polizia greca che dovranno controllare i nostri passaporti e il diamonitirion, il visto di entrata e permesso di soggiorno al Monte. Una lunga attesa e infine ci imbarchiamo.
Salpiamo, lasciandoci dietro turisti e chi è in vacanza, ristoranti, negozi, automobili. Dopo soste per scaricare merci e passeggeri, arriviamo al porticciolo da cui si sale alla skita Aghia Anna, una comunità composta da numerose celle, in cui vivono in eremitaggio uno o due monaci, disposte intorno alla chiesa e addossate al Santo Monte. Siamo solo in quattro a sbarcare, tre pellegrini, me incluso, e un monaco.
Ci aspetta un cammino in salita di più di 1100 scalini, tutti lastricati, segnato da piccole cappelle votive, con riproduzioni di icone e lumini ad olio, e fontane scolpite nella pietra. Il monaco, evidentemente abituato, ci precede distanziandoci e scompare in un attimo dalla nostra vista. Le numerose curve a gomito impongono ai muli e agli asini, spronati dal continuo parlare dei mulattieri, di affrontarle con grande attenzione per evitare di scivolare o rimanere agganciati con i carichi sporgenti alla vegetazione di erica arborea che costeggia fitta il cammino. Nessun altro suono che quello degli zoccoli dei muli, dei richiami dei mulattieri albanesi, del frusciare del vento tra le foglie degli alberi, e delle voci di altri pellegrini che scendono al porto che ho appena lasciato. Sotto un cielo perfettamente limpido il mare luccicante e la cima del Monte che incombe su di me, circondata dalle nuvole. Raggiungiamo la skita. Sulla spianata antistante la chiesa il monaco cerimoniere ci accoglie: raki, il liquore di anice, lukum, i gommosi dolci balcanici spolverati di zucchero a velo, e acqua fresca. A picco, sotto la spianata, il molo del porticciolo, una striscia sulla superficie blu cobalto del mare.
Eccomi diventato un umile pellegrino. Ho solo un piccolo zaino con me, niente altro. Da questo momento dipenderò per ogni necessità dall’accoglienza e dalla benevolenza dei monaci, non ci sono negozi, non si può volere né comprare nulla, solo quanto viene offerto. Sono invitato a mangiare un rapido pasto di lenticchie, cetrioli e pomodori insieme agli altri due pellegrini. Poi mi aggiro esplorando. Solo il suono portato dal vento delle zappe che rompono le zolle, delle voci di chi lavora e dei pellegrini che vanno su per i sentieri scoscesi. Profumi di alloro e di mirto. Orti e uliveti ordinati e ben curati, e fiori intorno alla chiesa, e là dove la mano dei monaci non arriva, uno sfondo di dense foreste di querce, castagni, tigli e neri pini marittimi. Una flora sempreverde di tipo mediterraneo, olmi, cipressi, olivi selvatici, lentisco, alloro, erica arborea, ricopre le pendici più basse della penisola e del Monte.
Nel pomeriggio un monaco ci porta in venerazione della Santa di cui la skita conserva il piede ricoperto d’argento, che tutti baciano dopo aver baciato le icone. Molto misticismo. Aghia Anna protegge l’utero delle donne e favorisce la gravidanza. Una cintura benedetta e a lei consacrata, comprata su richiesta della mia insegnante di greco, ha compiuto il miracolo di farla rimanere incinta. Alla bambina è stato dato nome Anna.
Mi viene assegnata una stanza a tre letti, che divido con gli altri due pellegrini. Cena, e poi ci spostiamo tutti a contemplare il tramonto. All’orizzonte il cielo e il mare si confondono ed è come tornare al mio navigare in mare aperto con la prua rivolta ad occidente, a quel momento in cui con l’equipaggio c’era una pausa silenziosa per guardare il sole che come una sfera infuocata affondava nell’acqua.
Il giorno seguente ripercorro in discesa il cammino fatto e mi fermo al porto ad aspettare il traghetto che mi porterà in un’altra skita, verso l’estremità della penisola, più a sud. Le acque sono limpide e ricche di pesci, solo i monaci possono pescarvi. Un santo padre è appena rientrato dal mare, copre barca e attrezzi con vecchie tele cerate, e mi mostra quello che ha preso, calamari e piccoli pesci in due grandi taniche di plastica a cui è stata tolta la parte superiore. Poi carica il mulo, vi monta prestamente, e si avvia su per i 1100 scalini.
Il traghetto ora mi lascia su una banchina addossata al Monte. La salita è ripida e disagevole, un sentiero di rocce e terra battuta, con pietre messe in sorta di scalini per le parti più ripide. Sono solo e cammino. Respiro. Ancora icone e lumini ad olio che segnano il percorso, e arrivo alla skita, gruppo di celle e di cappelle intorno alla chiesa principale, che hanno tetti coperti da lastre di scisto. In basso, e sempre, il mare. Sulla costa scoscesa, le celle aggrappate alle rocce sono accessibili da stretti sentieri, o tramite scale e corde sospese sul vuoto. Chiunque vi abiti è totalmente isolato dal mondo, in contemplazione degli elementi, del sole, del tramonto, e forse di Dio. Il senso di isolamento, il silenzio interrotto solo da un battere di ali, o dal garrire della bandiera greca, è totale. Qui, a Kavsokalivian tutto è molto spartano, l’accoglienza, il cibo, il grande stanzone dove dormirò con altri, e così anche la colazione al risveglio la mattina dopo.
Appena si fa giorno intraprendo con cautela, in discesa, il sentiero per tornare al porto. Ora che il mio permesso sta per scadere voglio rimanere ancora sul Monte, e devo andare a chiedere di prolungare il visto. Cinque o sei muli, un monaco con quella che sembra una valigia per la posta, e altri pellegrini. Al porto, e al di là del porto, la costa rocciosa si inabissa subitamente a picco per decine, se non centinaia di metri, e qui l’acqua profonda è di un blu molto scuro. Un’aria pura. Aspiro il salmastro che viene dalle rocce scaldate dal sole. Solo a Kayes sede amministrativa c’è un piccolo unico caffè. Entro e ordino un ellenikos, e la bougatsa, il dolce ripieno di crema che si mangia a colazione.
Riprendo il cammino. Iviron si eleva severo, quasi fortificato contro ogni incursione. Risalgo un viale pavimentato da larghe pietre lisce fino alla maestosa entrata principale del secondo più antico monastero del Monte Athos, fondato sulla costa orientale nel 976, dopo il monastero della Grande Lavra, del 963. All’arrivo, come sempre, acqua, lukum e liquore di anice. Attendo con altri pellegrini in una grande sala dagli alti soffitti a cassettoni che arrivi il monaco addetto ad accoglierci.
Mi viene assegnata una confortevole stanza. Un letto, una sedia, un piccolo scrittoio, una nicchia con una icona. Scriveva nel 1927 Robert Byron in The Station. Athos: treasures and men: “La terra è sotto di noi. Sdraiati nella sala degli ospiti di Iviron, ci sentiamo su un diverso piano di esistenza, quasi fossimo tornati a quel regnum misterioso e immateriale da cui lo spirito s’è liberato col Rinascimento. Come è avvenuto che questo frammento di una vita che dominò tutta la costa greca sia rimasto inalterato dal tempo della sua fondazione?”. Mi aggiro per il corridoio provando qualcosa di simile e scopro una piccola biblioteca accogliente, riservata ai pellegrini, con divani di legno coperti di cuscini ricamati. Ma la grande biblioteca di Iviron, forse la più ricca del monte Athos, possiede più di mille preziosi antichi manoscritti, molti in georgiano. Iviron significa infatti “degli Iberi”, nome con cui si indicavano i georgiani che fondarono il monastero.
Dopo la liturgia del vespro, battendo ritmicamente con un martello di legno su una lunga tavola sagomata, appesa fuori della porta della sala da pranzo, un monaco chiama alla cena. Si entra e in piedi si aspetta che arrivi il decano. La cena è quasi sontuosa in confronto con quanto avuto nei giorni precedenti. La sala lunghissima è fittamente affrescata, e arredata con tavoli di marmo spesso otto o dieci centimetri, accoppiati per il lato corto, per quindici, venti metri o più, e disposti a ferro di cavallo. I monaci sono seduti a destra del decano che si trova a capotavola, mentre uno di loro, in piedi davanti a un leggio, recita a voce alta le Sacre scritture. Ci si serve in silenzio di pietanze che sono già sui tavoli. Uova, profumato formaggio di capra, poco ma sufficiente. Pomodori raccolti nell’orto, da tagliare e condire con olio verde e cipolla. Un piccolo bicchiere di vino molto buono e, per finire, una fetta di melone bianco. Poi di colpo la lettura termina e ci si deve alzare. Il decano, elegantissimo in una tunica nera, forse di seta, barba bianca, eloquio che penso sia ricercato e diplomatico, intona una preghiera di ringraziamento e di conclusione, per poi guidare in processione una trentina di monaci fuori della sala tenendo nella destra un alto bastone con un pomello di argento affusolato e finemente lavorato. Il tutto è durato forse una mezzora. I pellegrini si spargono nella stessa corte di cui parla Byron nel suo libro, e che ha un prezioso fonte battesimale al centro. Si va a letto presto. La liturgia è alle 3:30 del mattino.
Nella poca luce della corte è il canto dei monaci con formule ripetute, mi sembra, all’infinito che mi guida alla cappella. Solo la luce delle candele illumina l’interno. Prima di entrare, e dopo ripetuti segni di croce, tutti toccano e baciano le icone. Non è effigie del santo l’icona per i greci ortodossi, ma il santo stesso, “come quando la stella della sera appare in cielo, e non avrebbe senso dire che è solo apparenza della stella della sera e non la vera stella della sera”, dice, a proposito dell’icona, un mistico russo. Non dunque sua effigie, semplice macchia di luce splendente, ma la stella stessa. Seduto in uno scranno seguo quanto fanno gli altri pellegrini. Il monaco officiante passa col turibolo e con l’incenso per benedirci tutti. Ci si inchina profondamente. Poi, verso la fine della liturgia, i fedeli ortodossi si mettono in fila per ricevere pane lievitato e benedetto. Esco quasi frastornato dai canti, dalla luce fioca, dal denso profumo dell’incenso. Fuori è ancora buio, torno nella mia stanza, e mi addormento.
L’entrata della Grande Lavra è stretta e tortuosa a difesa di possibili aggressioni. All’interno una chiesa, le cui porte sono difese da due imponenti cipressi, là piantati quando il monastero fu fondato da San Atanasio e da Eutimio di Dafni, “due magnifiche porte di legno in stile turco barocco, dipinte in oro, bruno scuro, giallo senape, arancione e azzurro cupo, in cui profondi intagli rappresentano le aquile della Chiesa ortodossa”, scriveva Byron. Mi viene assegnato un letto in una grande camerata con le finestre che guardano sugli orti accuratamente coltivati. Sempre, in lontananza, il mare.
Sono ora con cinque pellegrini greci: un muratore, due imprenditori, un professore di economia all’università di Londra e un pensionato, tutti amici dall’infanzia. Si danno appuntamento qui sul Monte Santo ogni anno, provenendo da luoghi e vite distanti. E adesso che si sono ritrovati, parlano moltissimo e di tutto, ridono, scherzano, ma subito, anche, mi includono nel gruppo, mi offrono la loro compagnia. Da ora in poi non mi abbandoneranno più e io mi affido, seguendoli in un luogo dopo l’altro. Monastero di Karakallou, monastero di Stavronikitas, monastero di Pantokrator, condividiamo liturgie serali e mattutine, condividiamo i pasti che i monaci ci offrono, le camerate che ci vengono assegnate.
A Stavronikitas, la liturgia serale è nella piccola cappella dedicata a San Demetrio. Due monaci la seguono in profonda meditazione ma stando fuori, seduti addossati al muro esterno, come se solo il contatto fisico con quel luogo sacro bastasse. C’è un’eclisse, mangiamo fichi d’India e rimaniamo a guardare la luna fino a tarda notte, fino a quando ci viene intimato di fare silenzio.
La mattina dopo ritorno a Salonicco per poi volare a Roma. All’inizio, quando ho deciso di venire al Monte con mia unica risorsa uno zaino di sei chili, era una mia sfida personale per provare a viaggiare con mezzi ridotti. Dopo avervi passato sei notti ho imparato che venire qui al Monte è una lezione di umiltà. Non ero più solo nel mio viaggio, ma accompagnato dall’ospitalità dei monaci, dalle liturgie a cui ho assistito e dalla generosità degli altri pellegrini.
[Testo tradotto dall’inglese e adattato da Barbara Fiore]