Una sopravvivenza fuori del comune.
Letteratura e serietà

La rete amplifica un problema che nei suoi termini generali è riassumibile in una formula universalmente valida: poiché ci si fida più del proprio intuito che di quello degli altri, quando questo intuito ha potuto fare poca esperienza ci si fida di chi ci dà ragione.

Gli ultimi anni sembrano aver mostrato con forza apparentemente incontrastabile quanto sia cambiato il ruolo della letteratura nella nostra vita quotidiana, specie in quella del pubblico più giovane. Ormai il suo spazio è limitato. Non che trent’anni fa la letteratura non subisse il peso dei suoi concorrenti, non solo dei fumetti ma anche dei videogiochi, da Space Invaders e Asteroids di fine anni Settanta a Super Mario Bros. della metà degli anni Ottanta, fino alle varie generazioni di Play Station (la prima è del 1994) e di altre console, per non parlare dei cartoni animati e dei telefilm americani, ora oggetto di indispensabili studi accademici, ma all’epoca in grado di produrre una ricezione che assumeva le dimensioni di un fenomeno di massa (da Happy Days a Friends, passando per Saranno famosi e Beverly Hills 90210). Il fatto che in qualche caso fumetti e telefilm siano diventati a loro volta oggetto di rappresentazione letteraria potrebbe essere letto come una conferma delle risorse della letteratura che sa reagire alle avversità e, per così dire, conquistare il suo nemico, ma è meglio rimanere prudenti.

Oggi, si dice, è cambiato tutto: nulla sarà più come prima. E lo si ripete in ogni istante, confermando in tal modo l’inoppugnabile fondatezza delle intuizioni di Eraclito. Una ventina di anni fa, vivi ancora alcuni degli scrittori e registi della generazione nata degli anni Venti del Novecento, nelle interviste che sui quotidiani ricapitolavano la loro carriera capitava di sentir citare con gioia «Il Vittorioso», come poi da altri interlocutori «Il Corriere dei piccoli» e vari gioielli destinati all’infanzia: nessuno dubitava che all’epoca si sapesse distinguerli dalla poesia di Pascoli, che occupava le mattinate in classe suscitando oscuri interrogativi sulle predilezioni del poeta. Le distrazioni quindi non mancavano, fossero riviste illustrate o più tardi telefilm, ma erano riconosciute per quello che erano e, nonostante la generale riprovazione dei genitori, nelle giornate dei ragazzi convivevano con i libri.

Ora ciò che sembra in discussione è appunto questa convivenza. Nelle ultime righe degli articoli di chi indaga sulla sopravvivenza della letteratura – contrastando per un paio di pagine in modo agguerrito gli argomenti della deriva digitale – arriva un po’ inattesa una domanda: e se questa non fosse proprio la soluzione migliore? Ossia, e se il fascino dell’alternativa, quella del darsi in pasto ai videogiochi, non avesse davvero la sua piena ragion d’essere? In altre parole: non avrei forse fatto meglio a divertirmi anch’io in questo modo? Perché devo sbattermi così tanto per sostenere le ragioni della letteratura, solo per obbligo professionale?

Il fatto che la domanda sorga, ben al di là delle ragioni della road not taken, potrebbe essere un indizio che l’autore si è divertito poco, e che la letteratura è rimasta per lui un impegno di studio più che una pratica soddisfacente. Di qui il rimpianto per chi invece ha speso le sue ore all’aperto giocando a calcio o inseguendo un cane. Si tratta di un sentimento comprensibile. Il fatto, però, è che prima o poi anche chi se ne stava tanto all’aperto doveva tornare a casa: lo dico per esperienza; e ad attenderlo trovava i libri e i quaderni lasciati chiusi per buona parte del pomeriggio. Raramente la disposizione alla lettura era così intensa come dopo quelle ore trascorse a giocare a calcio sull’asfalto; la stanchezza muscolare con cui ci si sedeva ancora accaldati davanti ai libri si accompagnava misteriosamente a un entusiasmo che non si era spento nel gioco ma che durava ancora, mutato in altra forma, in un’attenzione sorpresa e ricettiva.

Oggi chi torna a casa, accanto ai libri trova per lo più ciò che lo ha accompagnato nelle sue uscite pomeridiane, ossia lo smartphone, le storie di Instagram, che incidono nella modalità di comunicazione con una lettura e ancor più con una scrittura sbrigative. La rapidità istantanea con la quale un utente ottiene da un motore di ricerca la disponibilità di una massa di contenuti tendenzialmente graditi incide sull’attenzione in misura anche maggiore: ci si abitua a seguire solo ciò che ci piace. Dedurre però da questo che i libri, su qualsiasi supporto si presentino, non possano più essere riconosciuti per ciò che sono mi sembra discutibile. Per quanto il loro posto sia cambiato, i libri di finzione non hanno smesso di offrire al lettore la figurazione più articolata di un’esistenza alternativa, mentre il cinema investe in produzioni affollate di supereroi e le serie tv talvolta non si negano, nello splendore delle immagini e in memorabili prove d’attore, script abbastanza discutibili (lo dico per chi sostiene che le serie tv segnino ormai il nostro destino). Penso ad esempio alle recenti tre serie di successo originali CBC Television – Netflix tradotte in Italia con il titolo Chiamatemi Anna, dall’originale Anne with an “e”, vale a dire l’ultima riproposizione di Anna dai capelli rossi dal libro di Lucy Maud Montgomery, Anne of Green Gables. Vorrei soffermarmi in particolare sulla seconda stagione, la meno riuscita: ricostruzione accurata, interpreti lodevoli e “buchi” di sceneggiatura non indifferenti. Faccio un esempio, uno fra i tanti: due malviventi rubano i soldi delle famiglie di Avanlea, il paese in cui è ambientata la storia. I ladri fuggono a piedi, poi litigano fra loro e uno dei due finisce in un pozzo in costruzione. La squadra degli uomini del paese, uscita in breve a cavallo a cercarli, trova il delinquente caduto nel pozzo e rinuncia a inseguire il fuggitivo che, ripeto, sta attraversando il bosco a piedi, tenendo sotto braccio la borsa di pelle con il denaro di tutti. Perché si fermano? Si fanno bastare il complice? Possono fare a meno del denaro? Il sole è ancora alto. Rientrando commentano l’accaduto sostenendo che senza quei soldi il periodo sarà più duro. E farsi un giro in più? Niente. Neanche un’indagine.

Tornando al punto, per quale ragione si è persa la fiducia, non si riesce più a tollerare la coesistenza di contenuti narrativi diversi? Non intendo la loro commistione, ma al contrario la loro semplice successione nel tempo, soprattutto in quello pomeridiano. È davanti a questa coesistenza che la ricezione si affina; la competenza narrativa in media è cresciuta: di qualsiasi mezzo digitale si disponga, non si fa altro che seguire storie. Il fenomeno non dovrebbe dunque preoccuparci più di tanto, invece ci si preoccupa perché la letteratura, più che una pratica di lettura, è diventata soprattutto un oggetto di studio in seri percorsi formativi sempre più costosi e destinati a non essere ricompensati in proporzione, né dal punto di vista finanziario, né da quello simbolico.

La serietà dilaga. Impressiona l’antidoto che volenterosamente quanto sbrigativamente qualche genitore oppone all’ostinata dipendenza digitale:  il prodotto editoriale di massa (ma con un segno di distinzione), la narrazione che occhieggia alla cultura alta, o nei contenuti (di così alto valore storico o morale da apparire indiscutibili), o nella forma, che porta con sé l’ormai quasi inascoltabile: «però è scritto bene, si legge d’un fiato», una complicata riformulazione del vecchio ricatto dei film “carini”, o dal contenuto importante. Oggi non sembra tanto in voga dare ragione a Nanni Moretti, ma qui ce l’aveva eccome. Il midcult ha fatto danni la cui portata non è facile da valutare. Il genitore ben intenzionato, con una solennità che non ha mai usato per Proust, regala uno di questi volumi al giovane dipendente dalla tecnologia, dà un’occhiata alla pagina di giornale che gliel’ha suggerito e finalmente può tornare alle sue occupazioni, certo di aver fatto il proprio dovere. Ora, grazie al corposo romanzo, anche suo figlio «farà i conti con la storia». Davvero non lo invidio.

2.

La rete amplifica un problema che nei suoi termini generali è riassumibile in una formula universalmente valida: poiché ci si fida più del proprio intuito che di quello degli altri, quando questo intuito ha potuto fare poca esperienza ci si fida di chi ci dà ragione. Lo si osserva ovunque, non solo nell’impiegato che in libreria prende maldestramente in mano il grosso volume messo vicino alla cassa, ma anche in chi, dal lato opposto della questione, dopo aver speso tanti anni nello studio si fida del primo che gli racconta cosa sia stato studiare poco e o perdere il proprio tempo dietro occupazioni in apparenza più soddisfacenti ma in buona parte sterili. Di chi ad esempio ha passato il pomeriggio a togliere con un temperino la plastica che avvolgeva un manico di scopa. Raccontare con tono brillantemente distaccato piccole, inconcludenti avventure balneari oggi sembra infatti apprezzato soprattutto da parte di chi non si è fermato alla sola università, ma – anche in quel caso – «ha proseguito gli studi». Per non parlare dei film commedia poco riusciti degli anni Settanta e Ottanta, ora oggetto di rivisitazioni camp in eleganti articoli poco impegnativi: cosa non si fa per allontanarsi da ciò che per troppi anni è stato un peso.

Il problema è proprio quello della letteratura come oggetto di studio, più che come pratica di lettura. Gli articoli di chi ha superato il più alto traguardo formativo sembrano polarizzarsi in due direzioni, quella del tributo a un gergo rumorosamente impostato (ma poco garantito da una scienza della letteratura o da una scienza dei testi il cui paradigma è oggi meno saldo), oppure da una lettura che deve concepirsi come “esercizio di ammirazione” per il proprio oggetto, sia esso un autore o un libro, e che non ammette dunque opinioni marcate, tranne che per aspetti marginali o per osservazioni minutamente filologiche. L’esercizio di ammirazione non è il risultato di una soluzione formale “saggistica” rispetto all’articolo scritto nel gergo tecnico, quanto l’esito della ricerca di un equilibrio fra la lettura che possa ancora destare l’apprezzamento delle riviste accademiche, inquadrata magari in ampie categorie tematiche o storico-letterarie, e l’esigenza di un’espressione personale che non può riuscire fino in fondo proprio perché è troppo scopertamente minacciata dal timore di non essere presa sul serio e quindi, di fatto, è autosabotata.

Il problema ha origine extraletteraria. La questione, infatti, si fa più seria quando lo studio della letteratura diventa fonte di sostentamento: sopravvivere studiando con un progetto di ricerca è difficile, figuriamoci senza. Così il progetto, per riuscire degno di considerazione finanziaria, più che rivolgersi a qualcosa di serio deve mostrare nell’impianto e nel metodo tutti i tratti espressivi del rigore e della serietà, anche quando appunto il suo oggetto rischia di apparire discutibile. La serietà non riguarda quindi la letteratura, ma la letteratura come oggetto di studio e ancor di più, naturalmente, la sopravvivenza: purtroppo la stagione odierna spinge a confondere i piani. In questa prospettiva riesce più difficile prendere sul serio la propria vita, le notti dormite male, le veglie alle cinque di mattina alla finestra, mentre l’alba tarda a venire. Gli autobus ancora vuoti. Il parco deserto.

In forza di queste considerazioni anche discutere di argomenti letterari in modo serrato può nuocere: prendere una posizione marcata, anche minima – da parte di chi è già noto, ma non abbastanza da poterselo permettere senza timore – fa correre qualche rischio di reputazione. Inoltre rischia anche di nuocere a un mercato editoriale esso stesso in crisi e quindi sensibilissimo alle opinioni che possano influenzare in negativo gli acquisti. Se non ne andasse di mezzo la sopravvivenza, in un modo o nell’altro, se si trattasse – come in effetti si tratta – solo di opinioni letterarie, se ne potrebbe discutere. Non che la discussione sia tutto, ma il secondo Novecento e tutto sommato perfino i primi Duemila sono stati teatro di polemiche più o meno feconde; poi la discussione si è dissolta progressivamente nell’informazione.

Il fatto che la letteratura sopravviva come oggetto di studio, o come argomento scolastico è di per sé sintomo di una crisi. Forse, però, è ora di recuperare un po’ di fiducia in qualcosa che va al di là dello scriptorium, delle “macchine verbali”, e anche al di là di un percorso professionale che somiglia pericolosamente a quello della tarda Scolastica per tornare poi nello stesso scriptorium come dopo una partita di calcio. C’è quindi qualcosa da fare, prima di scoprire quale sarà il destino della scrittura: recuperare un po’ di fiducia nella coesistenza quotidiana di elementi diversi. Non parlo tanto della pagina ma, se si può dire, della vita. Neanche la letteratura si salva da sola.