«…camminavo e non camminavo…»
(Protevangelion Jacobi 18, 2)
Nell’occhio della tartaruga è riflesso il volto sorridente di una bambina i cui occhi restano nell’oscurità. L’altra statua sorride, ma gli occhi non si vedono perché sono stati sbriciolati dalla pioggia e dalla luce. Da una finestra il volto dei vicini, da una porta di legno cani e uccelli furiosi. Lo sguardo della bambina è nell’occhio del diavolo insetto. Bocche di cani spalancate contro lo spiraglio, sfarfallamento disperato di uccelli.
“Il coniglio e l’alveare hanno spaventato mia figlia”. Scheletro di coniglio nella gabbia di filo di ferro e piccolo nido di vespe tra le costole smangiate dello scheletrino. “Domani arriverà anche la mamma.”
“…l’idea che tutti e due si guadagnassero da vivere come artisti di strada facendo le statuine viventi, imbellettati di bianco da capo a piedi, e che il primo incontro e il seguente corteggiamento fossero dunque avvenuti così, ambedue incatenati dal voto di obbedienza all’immobilità e al silenzio nel mezzo di una qualsiasi piazza più o meno gremita di passanti, voto cui ogni adepto a tale officio si lega; un fronteggiarsi cioè di pose di statuina vivente da un lato all’altro della piazza del mercato di Waltzwaltz, lungo diagonali di sguardi sempre più ravvicinate, poiché ogni impercettibile movimento avvicinava sempre più uno all’altra i due artisti di strada… anni dopo lei avrebbe saputo che qualcosa di simile accade prima del tango, le occhiate silenziose con cui gli uomini invitano a danzare le donne sedute dall’altro lato del salone (e non poté allora fare a meno di figurarsi il tango come un’impossibile coreografia di incastri statici, forme saettanti l’una nell’altra come attraverso gli spazi impossibili che dividono gli orbitali degli atomi, un incollanarsi di paralisi che più ancora della musica erano fonte, nel loro stesso arresto, fonte silenziosa, immobile, esoterica, del ritmo), perché così era stato per loro, cui il biancore della biacca di cui erano coperti conferiva un che tra lo spettrale e lo sponsalico, e che avevano teso la prima flebile ragna di traverso alla piazza così, con gli occhi, la più universale di tutte le unioni, un occhio che vede un altro occhio che vede etc., la più primordiale origine di ogni furore e rapimento, un occhio che guarda un occhio, rapimento qui però, non si dimentichi mai, pietrificato: due basilischi, allora, due meduse che si incontrano nel mezzo di un metafisico deserto per mostri e che per potersi accoppiare devono un passo dopo l’altro sbriciolare le statue in cui si sono reciprocamente imprigionate, e così anche loro, vestiti guarda caso quasi come due sposini, di sguardo in sguardo avevano cominciato un moto di avvicinamento a rallentatore inceppato, un qualcosa di vagamente eleatico, la freccia che non tocca mai il bersaglio perché è sempre in ogni istante immobile etc., mentre piovevano sempre più fitte le monetine dei passanti che credevano fosse tutta una recita messa in piedi per loro, per i turisti di Waltzwaltz, mentre per le due statuine, se poteva all’inizio essersi trattato anche per loro di un gioco, una buffa caricatura di un incontro amoroso, uno di quegli impromtus che sono la linfa dell’arte di strada, man mano che si avvicinavano l’uno all’altra lo era sempre meno, un gioco…
Paralizzato in cielo, un colpo di fulmine disegnato col gesso viene slavato via dalle ultime gocce di pioggia.
Per la cerimonia nuziale poi, tenutasi nel tendone della famiglia circense di lei (cerimonia cui, diciamolo subito, aveva fatto seguito una toccante riconciliazione tra la sposa e il di lei fratello, che si era quasi rotto un piede dopo che lei, che all’epoca era una diavolessa volante, per fargli comprendere l’implacabilità della propria vocazione per l’arte della statuina vivente s’era lasciata dondolare a testa in giù perfettamente immobile, corpo e membra rigidi come cartapesta, dondolando così sul trapezio come una grossa bambola e – ecco la necessità oggi di una riconciliazione –– senza afferrarlo (il fratello) alla fine di un volteggio ––– il fratello ignorava o aveva voluto ignorare, nella lite furibonda che ne era seguita e che aveva portato alla definitiva rottura della neoadepta statuina con la famiglia circense –––– ah, anzi, ah! l’orrore, già, l’orrore dell’arte vera- no cruda- mente di strada (la putrida: la lercia: la cruda appunto, e infeudata del piscio di mastini e gattacci, e quasi polita dal secolare fluire di quello) della statuina vivente, sì, sì, gridava il fratello zoppettandole intorno sul piede ancora sano, sì perché l’acrobata lo trovi per strada ma anche al circo (e così anche l’equilibrista, soggiungevano subito tutti i circhicoli accorsi in blocco come nella scena risolutiva di un cartone animato educativo, nominando se stessi mano a mano che sentivano, quasi anima pronta all’ascesi, di essere chiamati in causa: e il pagliaccio, e il mangiaspade, e il domatore, e il cavallerizzo, e il giocoliere, e il lanciatore di coltelli…): ma non la statuina vivente, quella al circo non c’è, che se ne fa un circo di una statuina vivente ––––– bah! quel o qual barbaro invisibile confine (i biechi confini dei pezzenti, che tra tutti i confini sono poi quelli che più grondano sangue) che separa lo spettacolo circense, ne recinge per così dire l’alma segatura a respingere e quasi scacciare con tanto di spadone angelico la giocoleria dei miserabili, eccolo dunque il confine che divarica quella terra di nessuno tra l’acrobazia e l’elemosina, ora varcato dal corpo folletto della diavolessa volante emerita, come per vibrante traslazione quantica, ZAC ZAC, qui poi lì, qui e lì, quilìquilìquilìquilìquilìquilìquilìquilìquilìquilìquilì, fino a che CLAC, il voto alla carriera di statuina venne indissolubilmente pronunciato ovvero come usa tra quei senzadio mimato, mimato nell’attentato a fratel diavolo e rimimato di bel nuovo subito dopo l’incidente, davanti al fratel diavolo accasciato nella segatura, la gamba tutta ammaccata, lei in piedi col ditino in finta pietrificazione contro la boccuccia che pareva di ceramica, nella posa universale dei bibelot angioletti combinaguai –––––– il fratello aveva voluto ignorare che la paralisi che si manifesta negli adepti dell’arte della statuina una volta la vocazione sia germinata ha la stesso impeto di una pulsione erotica – “come se il corpo fosse vittima di un’erezione”, aveva cercato di spiegargli un collega diavolo qualche giorno più tardi, credendo di accelerare la consolazione con gli schematismi di una diagnosi psicosomatica: ed era invece stato preso a ceffoni – e aveva continuato a urlare contro la sorella), per la cerimonia nuziale dicevamo è impossibile non immaginare il sacerdote girato verso l’altare a occhi chiusi che conta “Un due tre… stella!” poi di colpo pìrola con un saltello verso la navata/tendone (appesa a una fune, una scimmia fissa una tortora infilatasi da un qualche spiracolo nel telone del cetaceo e ora, almeno per un po’, di quella tenda prigioniera) scoprendo gli occhi, il sacerdote: la tunica e i paramenti che per inerzia lo avvolgono brevemente festeggiando il gioco monello, e ad ogni nuova conta e giravolta sacerdotale i due sposi così letteralmente identici alle figurine di zucchero in cima alla torta gli appaiono, al sacerdote, sempre più vicini all’altare, anche se sempre immobili, il sole pomeridiano che già scioglie le testoline di marzapane che nessuno mangerà più… Un due tre… baciala!
Una vera statuina vivente si muove solo quando tutti sono girati. Guardarla sempre è il modo più sicuro di ucciderla, o di diventare a propria volta statuina. Gli unici che la possono vedere quando si muove sono i bambini, recita il segreto catechismo delle statuine.
(In un’altra versione del mito, chiamiamolo così – ché le storie degli dèi nascono senza dubbio alcuno tra i pezzenti, né si creda qui venga adombrata una qualche teoria di redenzione né dato che siamo in tema catasterizzazione sociale: no: ma ciononostante tant’è: il primo germe del racconto divino è sempre nel cicalare paraspettrale e pipistrellare di chi morendo di fame sta perdendo la ragione, è da lì piaccia o non piaccia che rotola il primo granello di polvere che col tempo incisterà in ziggurat, in olimpo, in valhalla – secondo un’altra versione del mito i due sposi sono non due statuine viventi ma due esseri fatati che un oscuro incantatore aveva imprigionato in un carillon –– ed ecco subito formicolare divergenze, eresie, scismi e guerre di religione sulla presenza o meno di uno specchietto applicato nel cielo interno del carillon a moltiplicare le rigide giravolte dei due prigionieri, specchio in cui altri volle riconoscere la vera prigione dei due esseri fatati, fittissima rete invisibile di riflessi in cui i due incauti erano stati fatti cadere, chissà poi perché, dall’incantatore senza un volto né un passato né forse un corpo a meno di non considerare corpo le cinematografiche e disneyanamente crudeli e arroncigliute mani che avevano richiuso per sempre il carillon, e via di seguito con altri concili ecumenici e non, bolle e scomuniche di antipapi barboni in pullulante lotta microbica perché fosse stabilito, una volta per tutte, vuoi il colore della stagnola che ricopriva (dogma presso che universalmente condiviso) l’interno della scatolina del carillon, vuoi il senso della rotazione delle due statuine prigioniere, vuoi soprattutto (piccoli roghi di calabroni accendevano l’estate di fiammule verdine, ed erano gli eretici che arrostivano sibilando e sfriggendo fuori dai loro esoscheletri) la natura della melodia emessa dal carillon: se infernale o salvifica, se ripetibile o inattingibile (la tremenda furia meloclasta che si abbatté allora sulla Seestern Symphonie di Mahler, le cui ascendenze tardoantiche del peraltro (a dispetto dei meloclasti o dei loro spettri) tutt’oggi fischiettatissimo secondo tema del Trio del quarto movimento, mistici che nell’estasi si mozzano le orecchie e le offrono a––– ma torniamo a noi, dovunque si possa tornare o addirittura se mai ci sia poi stato da che mondo è mondo un tornare…)
Quasi ogni giorno andavano dal signore del furgone bianco. Ho detto andavano? Giù la maschera (o su, se già era giù): andavamo. Quasi ogni giorno andavamo dal Signore del Furgone Bianco. Lo chiamavamo così perché, forse cinese o comunque centroasiatico, ogni volta che avevamo provato a farci dire il suo nome ci era sembrato che rispondesse con un nome sempre diverso (ma di questo non so con certezza, può anche essere che questo del nome incomprensibile del Signore del Furgone Bianco fosse solo uno scherzo tra me e mia figlia – le burle che non si creano perché scenda una maschera sopra il buio che passa tra noi e i nostri figli!, e che il silenzio scoperchierebbe irrimediabilmente), a volte molto lungo e difficile da ripetere, altre talmente breve da sembrare più un grido, un suono che mai e poi mai potrebbe essere un nome, ma forse invece del proprio nome stava dicendo i nomi delle piante in vendita, foglioline puntute e bisbigli di boscaglie mongole che dondolavano attraverso il buio del furgone, pungendogli talvolta le guance, il dorso della mano. Il furgone bianco arrivava sempre molto presto la mattina e si metteva vicino al piccolo parco poco fuori dal centro, accanto al marciapiede. Il parco era vicino alla nuova caserma di polizia (una caserma che mi sembrava assurdamente grande per un paesino come Briwen, e che sapevo costruita molto velocemente, ad una velocità quasi demoniaca, come in quei racconti del terrore in cui nel giro di una notte gli abitanti di una qualche città svizzera o jugoslava si ritrovano proprio in mezzo alla piazza centrale un palazzo che il giorno prima non c’era, con stucchi, balconi, affreschi e grotteschi e tutta una silente cortese servitù, e gli animali–– gli animali: i cani, i cavalli e gli uccelli e perfino le mosche, le mosche che picchiettano contro il sole di vetro dei palazzi costruiti al prezzo dell’anima… di chi? di chi?…) con le colonne e le pareti della caserma che erano arrivate già pronte su camion, come un gioco di costruzioni per giganti). Nel parco giochi c’era anche un recinto per i cani, che per me e mia figlia era come il castello degli orrori o il cuscino per gli incubi. (Nota sul cuscino per gli incubi. Un altro dei nomi in codice tra me e mia figlia (la piccola poesia domestica ovvero semimanicomiale dei termini familiari, che ritorna poi quando ormai la famiglia non esiste più, ormai ramificatasi e putrefattasi in nuovi figli e nuovi gerghi, o prosciugatasi in silenzi altrettanto immaginari e gergali, in altrettanto inermi solitudini, quando la tenda, le gabbie e i trapezi del circo sono ormai poltiglia, stracci sozzi di merda di scimmia, interi sistemi solari ridotti a filamenti di nebulosa che si distendono per milioni di anni luce). Il cuscino degli incubi provocava, come ciascuno astutamente immagina, incubi. Aveva un tessuto ruvido, un po’ come quello di certe vecchie poltrone, e l’imbottitura era un qualche miscuglio muffito di lana e piume. A volte la punta di una piuma superstite riusciva a passare attraverso la federa e pungeva la faccia o il collo di chi dormiva. Era, dicevamo, l’incubo, pronto a infilartisi in un orecchio e a sprofondare nel fango grigio del cervello. Sentivi le irregolarità dell’imbottitura di lana, quasi muscoli induriti di marmotta, e quando usciva una piuma dal fodero pensavi sempre che dentro il cuscino vivesse una popolazione di uccelli, ecco, delle specie di passeri-talpa, perché no, passeritalpa che non sapevano volare ma passavano da un cuscino all’altro, così, scavando gallerie sottili col grufolare delle loro piume spinose. Quando nel dormiveglia ti sentivi pizzicare la guancia passavi una mano sulla federa, cercando la punta della piuma. Non era facile perché la federa era molto lunga –– volevo dire molto ruvida –– e quando poi trovata la piuma la tiravi fuori dal corpo del cuscino, fumosa viscera d’incubo, era quasi sempre una piuma bianca, ma a volte era invece molto lunga e nera, lucida, una vera penna, quasi come gli scrittori antichi, ma quando anche tu provavi nel dormiveglia a scrivere, la penna non lasciava nessun segno, tu provavi nel dormiveglia a scrivere sulla federa perché pensavi che i disegni sulla federa fossero stati fatti con le piume dei merlitalpa che fischiettavano in sordina attraverso la foresta la federa… e iniziavi a sprofondare nell’incubo che ti era stato riservato. Quando le piume escono dal cuscino devi prenderle subito, perché è l’ala di un uccello talpa che cerca di entrarti nelle orecchie o negli occhi per continuare a disegnarci gli incubi cuciti sulla federa del cuscino –– contadini bavaresi, galli, frutta, fiori, cieli bianchi che si sfilacciano…), perché ci veniva sempre un uomo con tre cani molto grossi che correvano su e giù dentro il recinto, abbaiando con i denti scoperti e con le bocche spalancate che pian piano prendevano il colore e le forme di polvere che le loro zampe sollevavano come contro ali nude di farfalla…
Io cercavo di non far capire a mia figlia che i cani facevano paura anche a me. (Uno dei riquadri ricamati del cuscino degli incubi aveva la figura di un cacciatore, un falco sul braccio e un cane seduto ai suoi piedi, e io lo chiamavo il Fante di Cani, e i cani erano neri e lucidi proprio come le penne degli uccelli-talpa, e i loro denti piccoli e bianchi pizzicavano come le punte delle piume, solo che mi affondavano nella carne, ed era così che avevo capito che gli incubi venivano dalle ali degli uccelli-talpa. Ogni volta che tiravo fuori dal cuscino un’altra penna nera, pregavo che fosse l’ultima. Aprire il cuscino con una forbice? No, gli allocchitalpa mi sarebbero scivolati addosso tutti insieme e mi avrebbero scavato le viscere fino a riempirle di piume e di denti di cane. Il falco e il cacciatore mi proteggevano finché ero sveglio, ma bastava il primo velo di sonno per scompigliarne i contorni. [VALMARANA: (sbucando importuno quasi stereotipo jack-in-the-box) Nessuno ha mai pensato di usare i gatti per andare a caccia: a parte i Fenici, naturalmente: i Fenici pensano sempre a tutto. (exit)]) L’uomo del furgone bianco parcheggiava ogni mattina davanti al piccolo parco, e se c’erano anche i cani venivano tutti e tre ad abbaiare, come se il furgone li avesse fatti ridiventare lupi, mastini da guerra di eserciti medievali. Poi l’uomo del furgone bianco iniziava a disporre i piccoli vasi con le piante, e quello era il momento più bello, sia per me che per mia figlia, e mia figlia diceva sempre che al buio, chiuse dentro il furgone, le piante uscivano dai vasi e strisciavano sulle pareti del furgone, lente come ombre (no, non lo diceva, non diceva “lente come ombre”: ma stendeva i suoi teneri artigli infantili lungo le immaginarie pareti del furgone, cercando di imitare il serpere notturno di un’edera carnivora), e solo quando l’uomo del furgone bianco apriva la porta scorrevole tutta scrostata le piante si risistemavano nei vasi, ed era per questo che ci voleva tanto tempo per posizionare tutte le piantine sugli espositori, perché bisognava aspettare che si risistemassero nei vasi, e a volte le piante facevano confusione e per esempio volevano andare tutte nello stesso vaso, così finivano per ammucchiarsi tutte una sopra l’altra come un gomitolo verde e toccava districarle stando attenti a non rovinarle. Quando poi nessuno le guardava, nel buio del furgone, ricominciava il girovagare vegetale. Appena volti le spalle, tutto diventa diverso da com’è. La legge di mia figlia.
Le nostre preferite erano appunto le piante carnivore, che il Signore del Furgone Bianco tirava sempre fuori per ultime. (Quando dormivo nel cuscino degli incubi, gli incubi erano quasi sempre molto affollati, e a volte l’incubo era semplicemente la visione di una massa infinita di figure disparatissime, talmente incastrate l’una nell’altra da avere al massimo la possibilità di girare a destra e sinistra sguardi furiosi, di lanciare grida strozzate di odio o frustrazione. In quei sogni, i giocatori di carte, che non mancavano mai, erano sempre impegnati in contorsioni che sembravano dolorosissime, nel tentativo di posare una carta su un tavolo escherianamente incastonato tra mucchi di corpi, o almeno di riuscire a girare il collo quel tanto da arrivare a capire di che carta si trattasse, e capitava che solo a girare il collo un giocatore si ritrovasse in bocca il cazzo di un vecchio impegnato in tutt’altro. Altre volte il sogno iniziava in una grande stanza vuota, molto luminosa, e questo era quando gli uccelli-talpa tardavano a infilare le loro ali nelle mie orecchie, ma ad un certo punto succedeva sempre che dalla porta, dalle finestre, da botole sul soffitto o nel pavimento iniziavano a sbucare le persone, sempre di più, ammassandosi intorno e sopra di me fino a che la camera non era letteralmente imbottita di corpi tremebondi, proprio come fossimo grumi di lana marcia dentro un cuscino, mentre dalle botole e dalle finestre si intravedevano altre figure che spingevano per entrare anche solo con un dito. Le ali degli uccelli-talpa frugavano le mie orecchie come lame di carta, e nel sonno sentivo sempre, o mi sembrava di sentire, i ferri da calza delle vecchiette di Briwen che ticchettavano come ossa rotte o denti che tremano, ma anche i miei denti battevano quando finalmente riaprivo gli occhi piante carnivore, occhi piante carnivore [VALMARANA: (sgomitando tra la folla dell’incubo, con urgenza) Gli occhi non hanno denti ma le mandibole della muscipula sembrano vuote palpebre. (exit)]) Aveva piante carnivore di tre tipi: con i denti, con i fili, con i tubi. Ogni volta chiedevamo all’uomo del furgone quali, nelle piante carnivore, erano i fiori, e ogni volta lui ci rispondeva, Mangiano mosche. Era sempre un po’ sudato per aver dovuto sistemare la giungla in miniatura che si portava nel furgone.
A volte quando veniva notte lei diventava triste, allora io la prendevo in braccio e le bisbigliavo, “Non preoccuparti scimmietta, domani arriva anche la mamma.” Le facevo indossare un frac come fosse una vestaglia da notte e lei quasi spariva in quella floscia pelle di rondine gigante, la tenevo un po’ in braccio e le raccontavo la favola degli sposini del carillon, una favola che non finiva mai e in cui non accadeva quasi mai nulla, gli sposini del carillon erano due statuine imprigionate in un carillon da un mago cattivo che si faceva chiamare Presidente e rideva con occhi di bambola messicana. Non c’erano che loro, i due sposini e il Presidente… Certo, ogni volta c’erano nuovi personaggi e nuove storie, ma l’unica storia, in realtà, gli unici personaggi erano il Presidente e i due sposini prigionieri nella scatola. “Perché il Presidente li ha imprigionati?” “Secoli fa, quando i Gatti di Schwarzschwarz navigavano su canoe egiziane e fenicie…” “Chi è la mamma del Presidente?” “In un regno lontano in cui le città erano piccoli laghi collegati da cascate azzurre e le case sbuffi di schiuma che restavano in aria per pochi secondi, come farfalle che sfaldano…” “Il Presidente non ha una sposina?” “In un vecchio luna park, ogni sera un ragazzo andava al tirassegno tenuto da un uomo che il ragazzo voleva uccidere…” “Gli occhi del Presidente brillano al buio come quelli dei gatti?” “Un giorno un ragazzo si svegliò su un treno diretto verso Jakarta…”
E poi la scatola, la scatola di latta in cui il Presidente coltivava un rarissimo esemplare di Hedera merula, “comunemente” (datane la rarità, tale da far sconfinare la pianta nei territori delle creature fantastiche, virgolettiamo –– l’essere una creatura fantastica talvolta non dipende che dalla percentuale di probabilità che si hanno, ovvero hanno coloro che tracciano, talvolta all’interno del corpo stesso della bestia, i confini tra reale e immaginario, le probabilità che costoro hanno di imbattersi nella creatura stessa al di fuori del foglio su cui la stanno disegnando, ovvero: in certi suoi fatati caratteri) nota col nome di “Fior del merlo”. Taluni dei frutti della merula si manifestano in forma di precoci (ovvero non invernali: si tratta pur sempre di un’edera) bacche polipeduncolate tossiche per qualsiasi essere vivente, forse destinate a creature che oggi non esistono più –– o non esistono ancora… da un certo punto di vista ogni veleno, ogni ostacolo è una specie di segnale stradale per nuove direzioni del vivente, come gli insetticidi non sono in fondo che stazioni per lo sviluppo di più invulnerabili e fantascientifici calabroni ––– principi romani che si assuefacevano lentamente al veleno… ––– ––. Al sopraggiungere dell’arido inverno di Schwarzschwarz, i peduncoli seccano così come le bacche, intatti microscopici scrigni vagamente cilindrici che soffiando il vento tremulano come ance o altre volte come rebbi di slogati carillon, mandando flebilissime melodie come di lontani xilofoni da guerra – la guerra delle farfalle paventata dal pavidissimo Lapin nel suo Cuniculum – o fanfare di microscopici fischietti, oboi semiallucinatori che alternativamente ci strappano e precipitano dal/nel dormiveglia…
Avvelenati dalla merula, i due sposini erano rimasti intrappolati nella scatolina di latta del Presidente. La fluorescenza delle radici in decomposizione illuminava l’interno della scatolina anche quando era chiusa, e così i due sposini – questa era una parte non secondaria dell’incantesimo del Presidente – erano perseguitati e dalle tremanti e dubitativamente allucinatorie sarabande della merula che traballava nel taschino del Presidente, e dai loro stessi riflessi deformati dalle pieghe della latta nonché spettrificati dalla putredine vegetale: tanto che le due statuine di carillon finiscono (questo dice la fiaba, questo sussurra la fiaba agli occhi spalancati di mia figlia, liquidi e profondi come pozzi notturni in cui la fiaba sputa tutto un catarroso terrore da megera, ma io non posso tacere e non posso smettere di raccontare la fiaba, perché anche questo vuole l’incantesimo del crudele ovvero disperato Presidente: che chi racconta la sua fiaba non possa fermarsi, non importa quanto folli di terrore si facciano gli occhi della bambina sempre più rintanantesi nel frac, la fiaba va raccontata perché è la fiaba l’unica realtà, il resto non sono che riflessi fosforescenti sulle pareti di latta di ciò che ci ostiniamo a chiamare realtà e che invece non è che racconto ovvero uno dei racconti, uno dei tanti precari inni imperiali della merula, ad ogni soffio di vento evapora una civiltà –– una maledizione talmente crudele ovvero disperata che il solo raccontarne il contenuto a una bambina col frac –– ma torniamo a noi, ovvero a quel deformato noi che la latta del Presidente, la latta dell’Architetto–––– ma ora davvero sto parlando troppo.)
Il veleno della merula, in altri termini, è di natura sia visiva che uditiva ovvero, per chi abbia seguito almeno un paio delle Lezioni di Grammatica per la Popolazione e i suoi Pargoli tenute settimanalmente dal Circolo Linguistico di Waltzwaltz nel distretto di Briwen, ovvero insomma è un veleno linguistico che sfrutta le connessioni che nel cervello umano sono preposte alla decifrazione di un qualsiasi codice, invertendo per così dire la sequenza temporale solo in apparenza necessaria di visione/auscultazione del messaggio e poi sua decifrazione, facendo ovverosia cioè pertanto precedere la decifrazione alla ricezione del messaggio, prima decifri il messaggio poi, forse, lo ricevi, cosa che poi appunto in realtà avviene sempre, e il segreto di ogni virus purosangue è tutto qui, bambina mia, capisci? Il segreto è che tutti noi siamo da sempre infetti… Altrimenti non ci potremmo ammalare mai.
La sposina col frac imparava la fiaba tremando, gli occhi due pozzi sempre più profondi e freddi dietro cui riposavano inaridite gore gemelle…
Capisci, quindi, capisci adesso? Se incontrerai uno sposino anzi quando incontrerai uno sposino perché sei la bambina più bella del mondo e per forza lo incontrerai, ma se lo incontrerai promettimi che starai attentissima, che il Presidente non arrivi con la sua latta e vi chiuda dentro il carillon d’edera, capirai che è il Presidente perché quando i fiori si aprono e si chiudono si sente come un nido di uccelli sottoterra… Non farti imbrogliare, quelli sono solo i petali del fiore carillon che si schiudono e si srotolano, la musica è un petalo che si schiude dopo uno scatto contro la latta o il legno della pianta, sono petali sottili come bacchettine… Devi stare attenta, il Presidente entra nelle fiabe e cattura i bambini, lui fa così, lui fa andare tutto all’indietro, stai attenta, tu prima leggi la fiaba e dopo la fiaba succede, e quindi è solo dopo che ti accorgi di essere tu la fiaba, ma quando te ne accorgi la latta si sta già chiudendo intorno a te e… ZAC!
La sposina col frac camminava nel bosco dentro la serra di latta dentro la tasca del panciotto del Presidente seduto nello scompartimento di un treno diretto verso Venezia verso Jakarta, tutti i treni vanno a Jakarta, tutta Jakarta non è che un ammucchiamento di treni come tante processionarie, un nido setoso e urticante di treni caduto da un ramo infetto, treni ancora mollicci per la lontananza dalla realtà, l’aspetto molliccio degli esseri appena venuti al mondo, e poi tutto il resto della loro verminosa esistenza di “treni” a cercare di nuovo la seta del nido, fino a che tutti insieme ammucchiati e morti e marciti non hanno formato Jakarta e il luna park di Schwarzschwarz. È la stazione ad uscire dal treno, non viceversa.
Dov’era finito lo sposino? Il bosco di edera nella serra di latta era troppo grande per poterlo mai ritrovare; la latta rifletteva il frac della sposina sfaldandone i contorni come dietro onde fossili: contro la latta stregata del Presidente non sembrava più una bellissima bambina ma un ghigno di coboldo, e un rumore di lamiera si mescolava al veleno dei carillon vegetali. La sposina girava sul suo piedistallo, pensando che se fosse riuscita a restare perfettamente immobile lo sposino sarebbe arrivato e sarebbe salito con lei sul piedistallo per salarla o morire con lei. Venire accettati alla tortura. La bambina col frac scappava dai suoi riflessi nella latta che la trasformavano in sposina incantata, ma ormai la fiaba era stata raccontata.
Ti tortura la troia?
Sono una puttanina perché vuoi
Averla quando vuoi ma
Pur di averla non l’hai
Ti tortura la troia? 😉
Sì, e ti torturerà
Cainare per i fauni
Morire contro i muri…
“È la tua testa… Ma cosa cazzo–– Beh chi se ne frega tu dovevi fare otto settenari… No, non volevo, no–– ascolta, ascoltami… Sì; no; no; no. Sì. No no no no no no no no no no è che è scandaloso, non ha avuto–– non ha avuto nemmeno il coraggio di chiedertelo. Di chiedermelo. Ma… come dici, paura? Hai detto paura? Hai detto una cosa scandalosissima. Hai detto–– No, no, no ascoltami bene. Ascol–– Tu e il tuo compagnetto di là continuate a origliare quello che stiamo dicendo, va bene? Ecco. Cosa credi? Ah, ora sarei io che–– Ma che cazzo stai dicendo, guarda che siete dietro di me è ovvio che vi sento, ma sei scema? Origliando. Sì: sì. Sei tu che–– No ma p–– No ma poi origliare, come se, cioè mica sono segreti di stato. Sì ma poi fosse vero. Cosa? Cosa? Guarda, meglio se è una cazzata come quella dell’origliare no davvero meglio se davvero no meglio che stai zitta. Sbagliatissima una cosa del genere. Mi urta. No era una domanda che avevo fatto io. Lei stava rispondendo. Ma quando sarebbe successa ’sta cosa. Ah ecco, forse era una domanda indiretta, giusto? Diciamo, ecco. Cioè retorica, scusa. E non ho neanche stampato–– No ma tu hai poi trovato no ma quella cosa del fauno cosa vuol dire? Era da fare, io non l’ho neanche cercato, anzi non l’ho trovato poi l’ho stampato ma non so neanche se–– chi se ne frega. Chi se ne frega, davvero. Il mio numero preferito? Il mio numero preferito. Il mio numero preferito è prendi nota il mio numero preferito è questo: psi-co-pa-ti-ca. Sei andata o no dallo psichiatra? La prossima seduta penso che la farai in ospedale. Certo. È probabile. Schizofrenica. Addirittura. Sai che paura, schizofrenica di merda. Sì ecco brava vuol dire che in un’altra vita dovevi essere un fauno. Psico––– scusa ma cosa stai facendo, cosa stai, ma cosa stai, no, lasciami––”
Prot. n. (…omissis…)/XX
Al/-la Sig./-ra (…omissis…)
Genitore/-rice dell’/-gli/-le alunno/-a/-i/-e Sarahs (…omissis…)
Cl.se/-i (…omissis…) Sez.ne/-i (…omissis…)
Og.to: convocaz. per mot. discipl./scarso prof.to/as.nze
La S.V. è invitata a prendere contatto urgentemente con il/la prof./-ssa (…omissis…) il giorno (…omissis…) dalle ore (…omissis…) alle ore (…omissis…) per comunicaz. discipl. rig.rdanti il comport.to/scarso prof.to/as.nze di/-ei/-elle suo/-a/-i/-e figlio/-a/-i/-e.
“No, otto–– otto settenari, no era un esercizio–– No no i settenari erano giusti ma vede, Dio–– La bestemmia–– Insomma chi bestemmia si danna, ecco, lo sanno anche i sassi, no, è vero, ha ragone i settenari sono importanti, importantissimi, ma chi bestemmia, lo sa cos’è la dannazione, no? no perché anche se non ci credi è così, i terremoti vengono anche se non ci credi che la terra è rotonda, questi ragazzi e soprattutto queste ragazze perché è di una ragazza e di una figlia e di una, cosa volevo dire? che stiamo parlando… ecco dicevo loro crescono senza valori, io per esempio non per dire ma nel mio piccolo io ho un figlio che mi fa una paura che, ma una–– quindi so cosa state passando, io sono spaventata cosa vuole che le dica ecco ma non dobbiamo arrenderci o almeno io proprio non mi arrendo, mio figlio mi fa paura sì ma non bestemmia e non si danna e non fa queste cose non scrive di torture e quelle altre cose che iniziano con la T, piè veloce e baracca briscola, lei, lei mi ha capito, vero? però ecco, mamma qui e il piercing, no, non dico sua figlia, dico mamma lì e sempre sul cellulare, alla fine come donna le viene una malattia anche se lei è un uomo, certo, no, no ma no ma mamma ma no che fanno bene, e io allora gliel’ho sequestrato, ma che serve, che serve, mi capisce vero, dobbiamo dialogare in qualche modo e trovare quella linea di confine o finiremo per darci la giacca sui piedi, cioè…” (colpo di karate a salve sul tavolo, a rimarcare l’auspicata linea di confine).
“No ma lei è sulla musica, sempre musica, e Mahler e Mozart e padre e figlio, ha questa fissa di Leopold, tutte quelle cose cioè quelle ricerche sulla Sonata dei Giocattoli, tutte quelle… i possibili autori, è un po’ il suo pallino, come dire, e allora ho pensato…”
“No ma la ragazza è educata, solo mi dispiace che parla, parla sempre, poi no in zona di massima non è una ragazza che fa del male, potrebbe fare tutt’altro, nel senso–– ha capito? La disponibilità qui è massima, perché intanto sono anch’io una mamma, e allora è una brava ragazza, partiamo dal carattere sì perché io ho questa brutta o bella o non so bene cosa sia, cioè di vedere innanzitutto il carattere e lei è una ragazza che apparentemente è qui e poi è là e va bene non fa niente ma poi devo dire la verità è ricettiva e ha capacità sulla lingua–– aspetti che vedo il cognome, abbiamo detto, non vorrei aver sb… No no, giusto, lei, sì lei, sta sempre nell’angolino là, proprio quello là, e fa la sua parte però devo dire la verità poi il risultato me lo dà, stamattina gli ho dato–– no sul profilo cioè il profitto quindi non ci sono… abbiamo un, mi faccia vedere… abbiamo detto… a livello comportamentale se lei facesse un piccolo salto in avanti nel distaccarsi quando è il momento però ecco però quando vado a fare un’analisi globale lei… o no? Eh, lo vede che anch’io li conosco bene e alla fine faccio anche la psicologa, anzi le direi di più proporrei per l’anno prossimo vede ho introdotto una nuova certificazione direttamente da Schwarzschwarz, c’è questo Istituto… in pratica da lì loro potrebbero portare come risultato finale–– magari però ne parli lei con lei con sua–– però il fatto è che noi abbiamo due canali, ecco, piccola lezioncina, mi scusi, malformazione professionale, due canali, il produttivo e il ricettivo, il produttivo lei ce l’ha, ma la lingua? ma io guardi nella lingua vado a scavare proprio a piene mani, con la lingua e nella lingua, almeno io è così che la penso, ma manca la produzione, chiedo scusa la ricezione, o–– cosa avevo–– l’ascolto e il parlare, insomma. I due canali, tutti e due i canali: con la lingua, capisce? Questo mi manca. Se loro ascoltano un discorso fanno fatica a recepire, prego signora si accomodi pure anche lei, niente le dicevo questo, ma il tempo che abbiamo è talmente poco da poter sviluppare–– c’è qualcosa che non va? Non so poi la direzione cioè la dirigenza quello che… di sicuro si troveranno le punte… mi scusi ma sicura che…? Io vi dico vi dicevo e no vi dico infatti, è un peccato che lascino la lingua così, quello che potete fare come genitori è chiedere se magari… perché lei… No perché lei i voti ci sono e anche le capacità perché oggi l’ho sentita e all’inizio era scontrosa con me poi si è resa conto, forse, questo lo dico io con la psicologia, ormai con l’esperienza che ho io guardi, li guardi in faccia e già, io li guardo in faccia ed è come se fossero uno specchio aperto, quindi ecco quella volta secondo me si è resa conto che qui da parte mia c’è tutta la disponibilità di questo mondo, io guardi praticamente li ammazzo di disponibilità, altro che… anche perché ripeto amando io stessa la mia lingua ci ho messo tutta l’anima di questo mondo. Tutta. Non è che sono qui con l’intenzione di dire ma a che pro signora, no? Vuole un fazzoletto per…? No? Com–– Comunque lo possono fare tranquillamente e allora perché non dovrebbero farlo? Insomma lei è una brava ragazza però mi deve dire una cosa, c’è stato un periodo che è cambiato che è successo qualcosa? Le dico… lei era una in grado anche di dire la, di usare la… poi un giorno sono venuta a scuola e non parlava più… ho chiesto ma c’è qualche problema… no no va bene va tutto bene… e invece in realtà qualcosa è scattato. L’ho sentita una volta bestemmiare e questo mi è dispiaciuto molto. Lo dicevo anche prima. Proprio mol–– Qualsiasi cosa tu credi non è bello bestemmiare, lo dovrebbe controllare. In buona fede, per carità, io magari a volte faccio finta di non sentire però la cosa bella sa qual è, è che lei le cose le fa… Cioè percepisce in maniera indiretta… Chi bestemmia si d––”
“…ecco infatti anch’io cioè anche noi abbiamo pensato che poteva essere una specie di cosa indiretta, cioè una specie di maschera questa cosa della ricerca scolastica sulla paternità della Fantasia dei Giocattoli, si dice ben la paternità di un’opera, no? quindi insomma forse lei con questo vuol cercare di, non so, che in me o in trasparenza oltre me vede non un padre ma molti… anche quel tema sulle molte origini, come se fossi un sacco di tela pieno di… non dico la pancia di uno spaventap…”
“…rse un problema tra ragazze, le ho sentite che litigavano per una cosa come… ma forse ho capito male io… E comunque sia detto tra noi ma poi è venuto anche fuori che uno dei versi non era nemmeno un settenario, forse, ci stiamo lavorando, coi settenari non si sa mai quindi la licenza poetica non può essere accolta come diciamo una specie di come si dice di contumacia no volevo dire di attenuante, chiaro no? No, forse non è neanche attenuante, e poi c’è quella cosa delle ginocchia… delle ginocchia incollate, non so se–– cioè, i fauni com’è che le hanno le ginocchia?”
Spett.li sigg.ri (…omissis…),
faccio qui seguito alla conversazione avuta con voi mercoledì della presente settimana. I recenti episodi con compagni e docenti mi spingono come già vi dicevo a riconsiderare le posizioni espresse in altra sede e in un momento, almeno per quel che riguarda lo sviluppo psichico e fisico di Sarahs, davvero assai remoto quantunque, qui nessuno lo nega e anzi viceversa lo affermiamo, delicato.
Sviluppo invece che noi tutti, e voi più di chiunque altro, abbiamo a cuore sia il più possibile fluido e lieto, spontaneo della spontaneità che l’amore degli e dagli e per gli altri soltanto può arricchire e rendere, mi concedano, fertile, che come voi mi insegnate è un altro modo per dire indirizzato. Proprio perché voi desiderate questo, è mio e vostro dovere compiere tutti i passi necessari perché vostra figlia trovi il terreno adatto in cui germogliare e radicarsi, un humus che come Responsabile dello Staff per il Ri-Orientamento Psico-Sociale Spontaneo credo di riconoscere nel Pio Istituto di S. Satiro fondato e diretto con fermo e lungimirante amore di padre da don Giorgio Giorgio; ora, la sezione di Newton, a differenza di quella di Briwen, (…omissis…)
Alla cortese attenzione del Pio Istituto di S. Satiro, sezione di (…omissis…).
Oggetto: Ri-Orientamento Psico-Sociale Spontaneo di Sarahs (…omissis…).
I sottoscritti (…omissis…), spontaneamente e volontariamente, affidano la loro figlia Sarahs (…omissis…) alla custodia e cura del Pio Istituto destinatario della presente redatta in carta semplice.
Attuale professione del padre o di chi ne fa le veci: “Un ex acrobata. Prima ancora era stato ginnasta ma poi aveva mollato…” Aveva fatto fatica anche ad entrare nel circo, perché lì sono tutti interni alla famiglia. Aveva dovuto sposare la ragazza del bancone dei pesci rossi. Non si conoscevano. La notte dormivano ciascuno girato dall’altra parte. Era diverso dalla palestra, c’era odore di segatura e di piscio di elefanti, e quando provava i numeri vedeva sotto di sé le pantere come grandi pozzanghere di petrolio, e ogni volta i clown gli facevano venire in mente un uomo spiaccicato sul terreno, con le budella colorate sparse sulla segatura. Una volta, da bambino, aveva tagliato in due una lumaca con un vecchio rasoio di suo padre, e dal corpo della lumaca erano usciti come dei fili colorati, e lui aveva pianto al pensiero che non sarebbero mai più stati vivi dentro la lumaca, tutti quei fili, e adesso quasi gli veniva da piangere nello stesso modo, quando vedeva i clown, e pensava sempre che fossero enormi lumache tagliate con il rasoio. Se una sbarra era troppo lontana, troppo sottile, troppo scivolosa, lui e gli altri trapezisti la facevano cambiare, e quelli che erano lì da più tempo (anche se “da più tempo” non voleva dire granché, perché quasi tutti erano lì da sempre) erano capaci di usare un saldatore o di cucirsi i vestiti. A volte la ragazza dei pesci rossi non tornava la notte, e lui restava sdraiato a chiedersi quale fosse il modo migliore di comportarsi, se andare a prenderla per i capelli (li teneva a coda di cavallo) o aspettare che tornasse per picchiarla, o riderci su (con lei? da solo? con gli altri acrobati? con tutto il circo?) o renderle pan per focaccia, anche lui a propria volta alzarsi e uscire, ma non sapeva dove e così restava così, le mani intrecciate e la sensazione di aver dimenticato qualcosa di importante, e le budella colorate dei clown scendevano come fili di ragno dal soffitto, e appesi in fondo c’erano i clown, altissimi e smagriti come ombre di africani. Non si conoscevano, lui e la ragazza dei pesci rossi. Bastava soffiare perché lievissimi i clwon si riappiccicassero al soffitto. Dormivano nello stesso letto dandosi le spalle. Il primo giorno che era stato con i trapezisti, aveva provato il (…omissis…), e adesso usava anche il (…omissis…). Nessuno controllava, non era come alle Olimpiadi. Oggi, il circo ormai un ricordo, cammina molto irrigidito, nello specchio opaco della sua pensione, e sulla sua bacheca non c’è nemmeno una coppa, ma la ragazza dei pesci rossi non lo ha abbandonato. Gli piaceva guardare la luce che usciva dagli oblò delle roulotte, e i bambini che cantavano o piangevano, gli piacevano i vecchi cavalli e i muli, e non aveva mai capito perché il circo li avesse con sé. I grossi felini erano tenuti nascosti e solo i domatori potevano avvicinarvisi. Ad ogni passo il pavimento del posto in cui vive fa un fischio. Adesso, dopo anni, sogna ad occhi aperti di essere ancora nella roulotte del circo, e di dondolare avanti e indietro, a volte guarda un mulo fuori dalla finestra, impalato, impagliato, impalato, impagliato, continua a ripetere, e per un attimo gli sembra di capire ma non si ferma per mettere bene a fuoco la cosa, per paura che quella verità non impagli anche lui. Lei non lo aveva abbandonato, nemmeno dopo il secondo incidente.
Attuale professione della madre o di chi ne fa le veci: “Io sono il pupazzo di legno con la pancia a fisarmonica e vivo nel luna park. Mio padre è un gancio di ferro. Mia madre era una truut…” Poi vennero la febbre e il ricovero. Mi alzavo in piedi e dopo un po’ mi rendevo conto di essermi pisciata addosso. Potevo vedere le infermiere attraversare il corridoio. Sapevo che, qualunque fosse la porta in cui stavano entrando, alla fine sarebbero venute da me, è solo che non potevano attraversare subito tutto il corridoio e venire subito da me, dovevano seguire una traiettoria serpentina, come i cavalli degli scacchi, ma poi, alla fine, come la testa del serpente, sarebbero venute da me. Mi ero fatta portare le bamboline di latta che avevo da bambina, e a tutte avevo tolto la testa, e intorno alla mia testa c’erano tanti tubicini, e dentro ogni tubicino c’era una vecchietta vestita da infermiera che lappava il latte da una scodella, e una si chiamava la Vecchietta dello Squalo e l’altra era la Vecchietta Malata di Cuore, e la Vecchietta Malata di Cuore (o Malata di Cuori, come una carta da gioco per chi deve vivere in ospedale e fare la brava bambina) teneva le tre dita della mano sinistra puntate contro il cuore come una madonnina, e a volte girava le tre dita come se il cuore fosse regolato da una piccola manopola nera, e ogni volta che girava la manopola si scuoteva e tremava come se stesse venendo, ma senza il piacere, perché io ero solo una bambina, ed ogni volta la vecchietta era più giovane e più bella e più piccina, e i tubicini di gomma si riempivano come insegne al neon, poi tutto si mescolava insieme, le vecchiette, i gatti, le madonnine, le infermiere, come se, finalmente riunite, queste quattro cose avessero finalmente ritrovato la loro giusta dimensione e il loro giusto posto, e io piangevo per la gratitudine; allora i tubi di neon esplodevano liberando ubique meduse di fuoco ronzante, e a quel punto mi risvegliavo e davanti a me c’erano la mia matrigna che raccoglieva insieme in un fazzoletto le teste di latta delle bambole e le infilava nella borsetta, come i confettini dei buffet, e io le ripetevo Non sgranocchiare le ossa dei maiali, Non sgranocchiare le ossa dei maiali, Non sgranocchiare le ossa dei maiali, allora lei alzava lo sguardo di scatto e io pensavo che avrei voluto baciarle le labbra, e mio padre seduto sulla sponda del letto che mi passava una mano tra i capelli e i tubicini, e fischiettava, e aveva ancora quell’espressione da pupazzo messicano che gli si era installata sulla faccia dopo che si era tagliato contro lo stipite di metallo della finestra. Forse correva per sfondare la finestra e gettarsi di sotto, o forse aveva scambiato il proprio riflesso trasparente per quello di un ladro acrobata e aveva pensato Eccomi di nuovo al circo, questa volta non sbaglierò la presa. Ho letto di un gruppo di persone che vedendo uscire da una porta un africano nudo contro la luce del sole lo hanno scambiato per il diavolo e si sono gettate dalla finestra del trentesimo piano di un grattacielo per, ecco, “salvarsi”. Io non faccio altro che pensare a quello che deve aver visto mio padre per mettersi a correre in quel modo così sgraziato da scivolare e tagliarsi la fronte contro lo stipite. Pensare di poterlo sapere ora da lui è… pensarlo è impensabile. Io dovevo giocare con lui, voglio dire prima che mi mettessero qui; mi avevano praticamente costretta a giocare con lui. La ferita sopra la fronte, appena si è aperta, aveva la forma di una mandorla e era come il terzo occhio degli dèi indiani, e il bianco del cranio mi era quasi sembrato il bianco dell’occhio che si stava aprendo. All’inizio ridevo: uno scherzo del papà; ma poi l’occhio aveva gettato intorno intorno la sua luce di sangue. Forse per diventare dèi bisogna tagliarsi la testa a fino all’osso e ridere come grandi bambole messicane.
“Voi due come vi siete incontrati? È solo una mia curiosità personale, solo perché ogni volta Sarahs ogni volta racconta una storia diversa… Per esempio:”
[VALMARANA: (professorale, prefatorio) Il gioco di Un due tre Stella! come arcaica sopravvivenza infantile della Messa Nera… (exit)]
Pensare è impensabile.
[continua il 29 gennaio]