7.
Non c’è dubbio che la sensibilità romantica introduca una significativa innovazione nella rappresentazione del legame personaggio-finestra, specie per il soggetto femminile. Per la prima volta si guarda decisamente fuori. Nelle società tradizionali e patriarcali la donna da bene non si mostrava, nemmeno alla finestra; di qui le stanze chiuse della Vergine, massimo simbolo di purezza e castità. Una serenata doveva provocare l’apparizione, dalle munite torri vengono srotolati capelli per l’arrampicata. Impudico è guardare giù ai maschi o esporsi, come viceversa fanno solo le prostitute da sempre offerte in vetrina, ai loro sguardi saettanti dal basso; si ricordi, per esempio, in pieno Novecento, i drammi andalusi di Garcia Lorca, con cavalieri che passano e ripassano nella strada polverosa, sotto imposte inaccessibili ma chiaramente vibranti di desiderio e tentazione, fino alla trasgressione e alla tragedia.
Certo la Signora alla finestra di Füssli, dipinto più o meno nel primo decennio del Diciannovesimo secolo, sembra molto di sé compresa, rivolgersi soprattutto alla luna. Non è detto però che giù nel giardino non si trovi un qualche spasimante. Comunque la luna romantica, un po’ velata e schermata dal fogliame, candisce il tornito braccio mollemente rilasciato sul davanzale, colpisce in pieno il volto da noi torto e la veste che fascia il petto florido. Attorno tonalità scure del tendaggio, del panneggio e del giaciglio. Rêverie e sensualità dominano comunque l’effusione che dalla protagonista fuoriesce verso la notte, per finestra.
La donna alla finestra di Friederich, circa un decennio dopo quella di Füssli, appare già più borghese e rassicurante, ma non meno chiusa in sé. In piedi, a figura intera dentro la veste a campana, completamente voltata e appoggiata al davanzale, è sempre il sentimento a protendersi nel verde oltre la bassa finestrella. Che viene attraversato da un pennone, ben chiaro nel celeste stagliato sulla grande parte soprastante. Una vocazione di viaggio d’avventura per mare verso paesi lontani, a contrasto con la blandizia claustrofobica del nido. “Da uomo libero, tu amerai sempre il mare! / E’ il tuo specchio il mare! / Tu contempli l’anima / nell’infinito svolgersi dell’onda / e non è meno amaro l’abisso del tuo spirito”, così Baudelaire nella prima quartina de L’homme et la mer. e forse ancor più chi è costretto a rimanere a terra, come le donne, invece che a lottare con esso da implacabile fratello.
Il desiderio di fuga e di libertà si accompagnano spesso nella narrazione sul femminile alla paura di metterlo in pratica: Eveline, l’eroina dell’omonima racconto di Joyce inserito ne I dublinesi, arriva fino alla stazione di North Wall dove, al di là della banchina può vedere la sagoma bucherellata di luce della nave diretta a Buenos Aires, da prendere con l’innamorato. Eppure, nonostante i posti già prenotati e il soffocamento per la vita di tutti i giorni, non riesce a staccarsi dal parapetto, con “tutti gli oceani del mondo tumultuanti intorno al suo cuore”, la faccia inespressiva e il corpo bloccato “come un animale senza scampo”. Con implacabile circolarità il testo torna allora al capoverso iniziale:
Stava seduta vicino alla finestra, a guardare le ombre della sera che calavano sul viale. Con la testa appoggiata contro le tendine, aveva nelle narici l’odore del cretonne polveroso. Era stanca.
8.
Anche gli artisti delle avanguardie storiche hanno mantenuto il motivo della finestra, adeguandolo alle proprie poetiche. Infatti se, come sosteneva Ortega Y Gasset, “l’opera d’arte è un’isola immaginaria che fluttua, circondata da ogni parte dalla realtà”, rappresentata dalla parete, tutto si complica nella finzione di continuare a ritenere naturalisticamente vero ciò che si vede nel quadro, nella finestra che è il quadro (Alberti), nella finestra dentro il quadro. Per esempio continuando il recente topos della romantica donna sognante, Dalì l’ha immersa in un blu generale di mare, di stanza, di vesti e capelli d’una ragazza di spalle tipici di un’atmosfera già surrealista. La ragazza sogna ad occhi aperti, la finestra pare il varco d’uscita dell’interiore, come una cappa di camino che sfa in fumo lo pseudo-realismo esterno catalano, la stanza stessa e la figura; ciò nel 1925, senza nessuna delle immagini esplicitamente oniriche, bizzarre e mutanti , stravaganti e inquietanti del Surrealismo maturo. Boccioni invece in Visione simultanee (1911) presenta un duplice volto femminile che strapiomba in vortici blu verso il movimento di una strada letteralmente sommossa e ondosa come da terremoto, con strette facciate a mazzi, alte e ululanti. La serie delle vetrate di Delaunay, del tipo Le finestre simultanee sulla città (1912), levano la figura umana che guarda fuori, limitandosi a sezionare ed astrarre i molteplici colori da cattedrale.
Con Matisse viene a definitiva chiarificazione l’utilizzo ormai secolare del motivo considerato: la finestra quale metafora della visione dell’artista. Ne L’atelier sotto il tetto del 1903 stanno un cavalletto, un tavolino e una cassa dentro lo spazio scuro e basso a celletta d’api; sul fondo una finestra con alberi luminosi in discreta lontananza. Non appare più alcun ritrattato, né di fronte né di spalle. Non appare nemmeno l’artista, solo la tipica mansarda boéhmien ed il suo implicito sguardo, che punta proprio verso la finestra. Assodato questo l’arte d’avanguardia più tipica del Novecento, con opere acute e problematiche, muove in avanti di una casella sulla scacchiera delle poetiche, entrando nel regno autonomo del significante.
Ugualmente viene a maturazione il legame esterno-interno, cosicché la consapevolezza offre campo alle agudezas e all’intellettualismo. Magritte incastona nell’orbita d’una casa gialla l’intero edificio, con le sue cinque finestre (Elogio della dialettica 1936), in un gioco di scatole cinesi ed irreversibilità delle due dimensioni. La finestra, centro della visione, diventa protagonista per forza di sineddoche. Ci si chiedeva, davanti alle sue enigmatiche dimore notturne, cosa ci fosse negli interni illuminati: dentro una casa c’è una casa, una casa, una casa.
La poesia aveva già cominciato il suo percorso di liberazione dalla referenzialità con la teoria di Mallarmé e i suoi sabotaggi sintattici e grafici. Il linguista ginevrino De Saussure aveva inserito in più ampia architettura (Corso di linguistica generale) tali intuizioni separando langue e parole, affermando di conseguenza l’arbitrarietà del segno.
Se si vuol tornare al nostro tema in ambito d’arte novecentesca possono andare benissimo due pittori di grande tecnica e discreta affinità: De Chirico e Magritte. Ne Il poeta ed il pittore del 1975 il primo citava una sua opera di sessanta anni prima, Il poeta e il filosofo, nella quale un manichino di spalle contempla una tela-lavagna posta accanto alla finestra (con scorcio metafisico di edifici) perfettamente ignorata. Nell’opera tarda un altro manichino, più manichino ancora, guarda verso una finestra aperta su una piazza metafisica in prospettiva, che è in verità una celebre tela di De Chirico; la finestrella sulla destra con solo cielo dello stesso colore della tela-finta finestra risulta ugualmente trascurabile. È quindi inutile che l’artista guardi fuori, perché ciò che serve all’arte si trova nell’arte stessa; anzi chiunque creda di guardare la realtà, vede sempre una mediazione artistica. Domina il gioco di specchi e di rimandi in una strada che corre parallela a quella di città o di campagna, interamente tappezzata di tele. L’atelier dell’artista di Matisse viene introvertito e murato, popolato di creature artificiali.
Infatti se, come sosteneva Ortega y Gasset, “l’opera d’arte è un’isola immaginaria che fluttua, circondata da ogni parte dalla realtà”, rappresentata dalla parete, tutto si complica nella finzione di continuare a ritenere naturalisticamente vero ciò che si vede nel quadro, nella finestra che è il quadro (Alberti), nella finestra dentro il quadro. Anche Magritte ha riflettuto a lungo sui concetti di vero e falso, arte e realtà, con opere come Condizione umana (1933) o Telescopio (1963) in cui quadri evidenziati dal cavalletto vengono posti davanti a porte o finestre, mostrando una perfetta continuità tra paesaggio esterno e paesaggio dipinto, una loro reversibilità e sostituibilità. Insomma anche quando rende un paesaggio un quadro resta un quadro. Magritte fa così della meta-arte disvelando la finzionalità dell’opera, scoprendone la struttura; ma pure, vertiginosamente, mettendo in dubbio l’essenza della realtà stessa.
9.
Già si è considerata talvolta la predilezione dell’artista a guardare dentro di sé piuttosto che fuori: il vetro della finestra come specchio. Nel primo Novecento il caso patente dell’Espressionismo. Thomas Harrison parla di “individualismo qualitativo”, frutto estremo del romanticismo e delle filosofie dell’io: “Così è proprio la nullità oggettiva a fare da fondamento alla pienezza. E la completezza soggettiva, a sua volta, ristabilisce il valore dell’essere oggettivo e storico.” Bisogna allora invertire il vettore degli sguardi, partendo da fuori. Così più volte Savinio ha dipinto stanze vuote, dove si sente traccia d’uomini, magari dell’artista assopito, alla cui finestra si affaccia curiosa ed ironica una divinità, un reperto di classicità che il fratello soleva abbandonare in piazze atelier. Il sogno passa volante dietro i vetri, sosta, penetra come un miasma, invade i sensi e il cervello, li trascina via con sé. Una benedizione, una maledizione ossessiva; la finestra un velo leggero, leggermente colorato.
Le stanze vuote di Gianfranco Ferroni sono ormai del tutto prive di risonanze metafisiche. Appaiono spoglia quotidianità, squallida e scontata; eppure nel vuoto d’umanità qualcosa resta con cui far immedesimare il pubblico: lo sguardo presupposto dell’autore. Autore scomparso dalla propria opera come nel noveau roman, che sembra identificarsi talvolta con l’occhio inquirente di un detective; nelle stanze vuote, lungo la prospettiva del parquet imbrattato di colore, forse si è consumato un crimine. Contro l’opera o l’artista in forma di suicidio? Magari dietro la porta il cadavere di una donna, nello sgabuzzino, orrendamente squartato, sogghigna un critico.
Un autoritratto del 1991 su cartoncino mostra il consueto grigio corpuscolare d’una stanza vuota, il mezzo busto dietro una tavola e perfettamente inquadrato da una portafinestra: un destinato alla sedia elettrica in ora di visita. E spessissimo solo un cavalletto nudo o gli oggetti minimi dell’arte in nature morte morandiane, laddove l’autore è appunto evaporato o segregato in un reclusorio in cui appare sì finalmente la finestra ma del tutto muta a visitazioni oniriche.
Semmai il Novecento cinge d’assedio la casa dell’artista, il quale più che osservare viene osservato; non tanto da fantastici esseri d’immaginazione quanto da minuti controllori della società. S’incrina la torre d’avorio sotto i colpi di maglio della storia, l’armonia tra interno ed esterno è da tempo perduta, l’individualità si omogenizza al resto. Ne Il mese della vendemmia (1959) Magritte gremisce una finestra aperta di un compatto e anonimo muro fatto da uomini in giacca, cravatta e bombetta, perfettamente identici. L’artista non vede più il mondo, ma in compenso è scrutato da occhi fissi e vuoti, minacciosi nella loro identica ordinarietà. Magritte, che ugualmente vestiva al modo più borghese, si riflette nella finestra umanizzata, che non restituisce ormai un’anima eccezionale, bensì il volto della folla. Impenetrabile.
10.
La paura di essere murati in casa e morire d’asfissia spinge l’artista fuori dal riparo dell’osservazione. Entrare nel mondo coincide però anche con un perdersi nel mondo,cosicché si assiste a una specie di sdoppiamento, con l’artista che guarda nell’altrui finestra. Al voyeurismo d’interni di Hitchcock (La finestra sul cortile) corrisponde quello dal basso dell’artista autoesiliato. La donna proibita viene ritratta da fuori come Maia e Celestina al balcone di Goya o le Galiziane alla finestra di Murillo. Campana vaga per la città di Genova accendendosi di desiderio attorno alle matrone esposte: “O Siciliana proterva opulente matrona / a le finestre ventose del vico marinaro / nel seno della città percossa di suoni di navi e di carri / classica mediterranea femina dei porti”. Come i tanti innamorati dei romanzi e del cinema che spiano sospirando nell’ombra la siluetta femminile ritagliata ingannevolmente, come bambolina su carta, nel rettangolo illuminato.
La notte è compagna del poeta che intravede e immagina la vita degli altri. Ancora Campana, con sguardo più ampio: “E poi più quieti i rumori dentro la notte serena: / vedevo alle finestre lucenti come le stelle / passare le ombre de le famiglie marine”. Ne Le camere per turisti (1945) Hopper mostra un disimpegno dietro i vetri a piano terra, una finestra su tre accesa al primo piano lasciando correre la fantasia ricostruttiva e romanzesca. Una misteriosa luce magrittiana arriva anche dall’esterno a confermare lo sdoppiamento dell’artista, un po’ simile al personaggio di Melville che cambia vita restando nella medesima strada o a Jekyll e Hyde che camminano nell’ombra e alzano gli occhi al chiarore verdastro su nel laboratorio del dottore.
Le donne, che già erano acute ed intense osservatrici dell’esterno, ora nude e cineree (Mattino in città 1944), ora compostamente esposte ai raggi vivificatrici (Sole mattutino 1952), diventano pure le naturali protagoniste dello scrutatore esterno hopperiano, quale la bionda e sbracciata segretaria di Ufficio a New York (1962), su cui la luce artificiale piove come in un set cinematografico o in un palco di teatro. Donne che restituiscono lo sguardo su un vetro nero, impiombato di notte, dove si presume si stia affissando il rapace scrutare dell’artista: figura di tre quarti, perfettamente abbigliata in rosso con cappello, che da un divanetto si volge alla vasta lavagna costituita dalla Finestra d’albergo (1956).
Uno specialista dell’erotismo da finestra è Balthus. Le sue acerbe fanciulle, spesso nude, sono dotate di specchio autoscopico almeno quanto si affacciano alla finestra, di certo per afferrare fugaci riflessi del proprio ego. Maschi attempati come Humbert Humbert o freschi filarini che l’artista assolutamente espunge dal suo campo di gioco. A sottolineare il legame reciproco con l’esterno e con l’artista disperso nel mondo L’attente (1995-2001), sdraiata sotto la finestra da cui si protende un cane. E soprattutto La camera (1952-54), in cui strana nanetta pronuba spalanca di schianto un tendaggio, cosicché il corpo nudo e spezzato su una poltrona dell’esile bambola si offre al getto dorato della finestra, allo stupore di un gatto appollaiato e allo spionaggio dell’artista.
Dal tradizionale oggetto di desiderio con cui solo fugacemente rapportarsi, realtà esterna custodita per interni, la donna, consueto legame dell’artista con il mondo, si passa, nel celeberrimo Nottambuli (1942), ad una piccola scena cristallizzata in acquario. In una notte totale e solitaria risplende come un’isola alla deriva la vetrata del bar; l’avventore di spalle, il lavoratore piegato ed unico a mostrare un atteggiamento comunicativo, la coppia, incapsulata nei propri io, che si sfiora distrattamente le dita sul bancone. Il mondo sta dentro una scatola illuminata, un teatrino minimo da studio, un vetrino paralizzato da ricostruire in trama e psicologie da parte d’un artista sciolto nell’indistinzione delle ombre.
11.
A concludere la simbolica di una crisi novecentesca del vedere e del rappresentare, due opposti e convergenti usi della finestra: la barriera e il tunnel. Già in Autoritratto in fondo al tavolo (1991) si era vista la testa di Gianfranco Ferroni perfettamente sezionata dal battente di una portafinestra in apparenza del tutto irremovibile dentro una cella. E Balthus serra la finestra per rendere più densa, quasi irrespirabile, l’aria della stanza riempita dall’essudazione del corpo adolescente (Nudo con la chitarra 1983-6); dal suo profumo da dopo bagno come ne La camera turca (1963-6). Qui le imposte moresche serrate rafforzano il gesto della figurina femminile che si occhieggia in uno specchietto, tenuto a distanza nella mano sinistra: patente esempio di introversione.
Nel 1920 Marcel Duchampe crea Fresh widow, una portafinestra in legno blu con otto riquadri neri; si tratta propriamente di un ready made ricostruito di grande bellezza intransitiva che rende una volta per sempre cieca la visione dell’artista. Un’ipostatizzazione a partire dal nome che gioca con il termine inglese french window, la finestra alla francese, ovvero la portafinestra, vedova della realtà esterna. Qui davvero lo strumento della visione, come la scrittura, il significante, si accampa come unico protagonista a dire solo se stesso.
Magritte, nei suoi giochi di raddoppiamento, opera in fondo la medesima sostituzione. Un dipinto quale La condizione umana (1933) monta su un cavalletto, davanti alla finestra, un pezzo di paesaggio in continuità con quello per così dire vero. Si potrebbe pensare ad una trasposizione, rinforzata dall’intelletto, dell’idea antica di un’arte che rende la realtà, ma sembra più probabile il farsi avanti, ironico e felpato, della sostituzione letterale di parti del mondo con fondali dipinti. Ciò naturalmente insinua dubbi anche sul cosiddetto vero paesaggio, o sulla città autentica (la torre e i palazzi nella composizione urbana di Le passeggiate di Euclide 1955) in cui pensiamo di vivere.
La finestra, la visione e la vita murate, vengono rese con ben altra forza drammatica da Bacon. La stanza d’albergo si trasforma in carcere non solo metaforico, con una branda su cui rannicchiarsi perfettamente vestiti, le imposte che diventano sbarre (Studio per un ritratto 1953). Lo sguardo, inchiodato dentro orbite scavate, è la parte sempre meno significativa del volto sfigurato, inutile come una funzione non più esercitabile, dove prevale invece la bocca aperta, con la dentatura in evidenza, che sprigiona il grido bestiale. Un ambiente del tutto acconcio al suicidio di quest’uomo d’affari, come dell’artista, Pavese o Weinenger che sia, senza scampo nella propria prigione.
Opposto allo spazio sigillato sta il transito della doppia finestra. Permette ad Hopper (Ufficio in una piccola città 1953) di inquadrare l’impiegato in mezze maniche, seduto al posto di lavoro, dentro a una doppia cornice di cemento assolato. In pausa guarda di fronte a sé l’ultimo piano e il tetto di un altro palazzo ed è nel contempo osservato dalla finestra laterale senza vetri, stipiti, persiane. Infilato in una curvatura ad angolo tra le aperture, dentro il cielo terso e in posizione dominante, pare una serena divinità del controllo.
Statica e mossa al contempo l’atmosfera de L’enigma della partenza (1914) di De Chirico. Sulla sinistra di chi guarda il bianco porticato metafisico, al centro una piazza trasversale con statua di schiena, a destra l’edificio che ci interessa: nella prima apertura lo sguardo penetra, attraversa e fuoriesce su un veliero; nella finestra del piano superiore la sagoma di un omino di spalle ritagliata su cielo verde. Simboli d’immobilità e di viaggio si accostano – la statua, la nave -, con un osservatore compartecipe dei due mondi, affacciato ad una finestra e trapassato dall’altra, posta in parallelo nella stanza da cui noi guardiamo.
Ci si avvicina a un mancato controllo della visione, schizofrenico se paranoica era la chiusura della finestra murata. Così ne Il belvedere di Escher l’altana tricupolata da cui s’affaccia la donna rinascimentale e sui cui appoggia la scala una delle varie altre figurine in costume, è sbilenca ed ingannevolmente posata sugli impossibili pilastrini, secchi come zampe d’insetto. Attraverso ci passano gli sguardi, il vento che viene o va verso le montagne di sfondo, draghi, picche e gonfaloni, la follia che spalanca le imposte, che volando le fa sbattere e brucia le stanze.
FINALE
Comincio a dubitare allora dello sky line di fronte a me, che s’appanna e sembra nebbieggiare. Forse è una incisione su vetro o un mio diagramma mentale. Qualcosa nel buio della stanza mi attrae come un risucchio: basterebbe retrocedere e mettersi a misurare lo spazio per lungo e per largo a passi precisi. E così per ore e ore rendendo infallibile il compasso delle gambe, mentre nel frattempo il pensiero si fa lucido e chiare le determinazioni per la cena e tutte le operazioni in serie per arrivarci che frazionano e infilano il tempo. Eppure ancora un barlume mi attira di sotto, nel giardino pubblico quattro piani sotto: un movimento tra le foglie cadute che è anche un luccichio. Mi sforzo di intravedere dietro la cancellata e i tronchi scuri se si tratti di un piccolo animale, un gatto con una medaglietta nel collare per esempio; poi però sul marciapiedi passa una figura veloce in bici, infagottata e incappucciata, alzando gocce sui raggi delle ruote. È già andata, ma ha fatto in tempo a distrarmi e anche nel giardino tutto sembra adesso morto. Socchiudo la finestra per far entrare un po’ d’aria fresca, la mia immagine si protende nel vuoto sul vetro di destra, sembra che rinasca.
[3 – fine]