Presiden arsitek/ 25

Cancellare i mostri nella luce, attraverso la luce.

di in: Presiden arsitek

«Ogni termine astratto dischiude in potenza il germoglio di una malattia mentale. Ogni nuova scienza è una futura follia, qualsiasi strada che abbia un lato perennemente in ombra, non visibile, è o può diventare la linea di un “labirinto”» (dal Manuale di “costruzione”, ms. y 128 conservato presso la Biblioteca XVI del distretto equatoriale di Waltzwaltz).

I primi disegni di labirinti altro non sono che raffigurazioni di budella di animali squartati, perquisendo la cui sugna si credeva di poter sorprendere il tracciato del tempo futuro, compendiato in trippesche convoluzioni… (Perché l’essere umano ha potuto concepire un’idea tanto bizzarra? Leggere il futuro nelle budella… Forse vedendo come gli animali sanno prevedere le catastrofi? E così dipanandone le viscere, si auspicava la decifrazione di ciò che si apparecchia, il futuro come immane gomitolo di entraglie nel ventre azzurro del cosmo… E allora tutto stava solo nel capire in quale punto affondare il pugnale per agguantare il (o i) bandolo(/i). C’è di più, c’è di peggio. Che la scrittura si sia coagulata ad imitazione di un intestino, di un iperelastico stomaco estroflesso? Apri la pancia di un animale: le budella sono il racconto del futuro, e ciò che trovi dentro le budella è tra i prototipi principe di ogni racconto, ciò che uno ha mangiato rivela i luoghi in cui si è trovato a passare etc. e le parole non sono forse una forma di masticazione e digestione del mondo o come scrive Aghandhā «le parole sono denti invisibili» di non so più quale cane di quale deità di quale inferno di quale cosmo, e le scritture più antiche procedevano motu bustrofedico, un andirivieni ininterrotto e anguillesco da un bordo all’altro della pagina etc., e per contro le scritture di oggi paiono invece appese sempre ad un solo bordo di pagina, come sottili stendardi paralleli o corde di chitarra o anguille affettate vive nel mercato del pesce di Waltzwaltz… La forma più antica di scrittura aveva forse come oggetto il futuro? Poligenesi primordiale della scrittura: mistico frutto della lettura dei visceri, nei quali si riconosceva un prototipo di macchina del tempo (se solo si fosse potuti ripercorrere all’indietro il cammino nelle budella del lupo o del falco, e venire rivomitati a nuova vita nel mondo dei santi!), e insieme truffaldino archivio del passato, dell’avvenuto commercio, del contratto: ecco profilarsi il muso bestialmente angelico di Satana. La scrittura sacra come risultato di un autoapprendimento della lettura di simboli non umani, imitazione umana del non umano. I miei ghirigori devono sempre avere la forma di un unico meandro. Palazzo delle viscere ēkal tirāni: oscura radice comune di parola e architettura.

Venendo più propriamente ai “labirinti”, la struttura del genere più semplice in assoluto sono i celebri “lettini di ferro” di T–––š B––––k, anche se non si trattava probabilmente di ferro bensì di latta (per ovvie ragioni non esistono testimonianze dirette in merito). Per perdersi nei “labirinti”, in altre parole, è sufficiente anche solo sdraiarsi e dormire: il “labirinto” trascende l’architettura imprigionandola in un riflesso parziale.

Ovvero, spostandoci direttamente nei laboratori: ratti che in seguito all’otturazione di un ben determinato puntolino del loro cervello previa puntura subdurale si ritrovavano a percorrere ghirigori disperatissimi su un piano del tutto sgombro al centro del quale era stato sistemato il protocollare pezzetto di formaggio (Dai caseifici quantistici delle valli centrorientali dell’Impero Austroamazzonico, nuovo migliorato Formaggio da Esperimenti Brušek! Da oggi fino a dieci volte più puzzolente! Adatto anche ai labirinti più cinebrivido, le vostre cavie “non staranno più nella pelle” al pensiero della cuccagna che le attende alla fine dei corridoi! Verificate l’inturgidimento sinaptico dei vostri piccoli assistenti quando avvicinate ai loro nasini un pezzetto del Formaggio da Esperimenti Brušek! Formaggio da Esperimenti Brušek: anche il più consumato dei vostri ratti – il veterano sfuggito ai bisturi di generazioni di assistenti, memento mori per ciascuno di detti assistenti, bestia la cui torturata mente giunge ormai a covare piani di prometeici furti di siringhe e flaconi di veleno – verrà di nuovo punto da una quasi scordata vaghezza! Formaggio da Esperimenti Brušek: presto al bancone di prodotti caseari dei migliori supermercati), si ritrovavano a tracciare su quel piano privo di ostacoli rotte mostruosamente contorte prima di raggiungere infine il quasi carnevalescamente fetido formaggio che era proprio davanti al loro summenzionato nasino, quasi vedessero le svolte ortogonali di un labirinto fantasma dispiegarsi di continuo davanti a loro. E non era infrequente il caso di cavie che, perse in meandri invisibili, finissero per morire di fame. Ogni grande e piccola scoperta nasce non tanto dal caso quanto da un ben preciso sguardo intorno a un dato caso. Ovvero tutte le scoperte sono da sempre disponibili, come puttane sacre che sbadigliano tra i vapori dei bagni turchi di Schwazrschwarz, ma l’essere disponibili è ben diverso dall’aver luogo. Il siero labirintizzante, si chiese in poche parole Brušek, poteva forse essere somministrato a degli umani? E se sì, con quali scopi? Per deformazione diciamo professionale, Brušek aveva immediatamente pensato alle potenzialità ludiche e ricreative del siero, prima che a quelle militari, che gli avrebbero garantito l’accesso a fondi molto più cospicui. E armato delle sue siringhe, sistemate in bell’ordine su un espositore a bretelle, di quelli che una volta indossavano gli inservienti nei cinema o negli stadi per vendere noccioline e sigarette, Brušek vagava per i luna park travestito da stereotipo scienziato pazzo, somministrando per pochi spiccioli e con una teatrale pugnalata subdurale una visita istantanea nel meno domenicale tunnel dell’orrore che possiate immaginarvi.

O ancora, Le tour du monde en 80 jours, film progettato ma mai realizzato da Adra… Durante i sopralluoghi per le riprese estremorientali il regista finì per impantanarsi nel reticolo paravaricoso dei canali di Jakarta. Da questo impantanamento, pronube  sarebbe nato In Indonesia col cuore infranto, risibile nonché ennesimo specimen di quella tabe letteraria rubricabile tra i mille unguenti, rimedi e clisteri dell’infelicissima psiche contemporanea, e che nella fattispecie possiamo chiamare “romanzoterapia”, diffusa pratica di autoguarigione dalla dubbia efficacia e dalla devastante contagiosità, e che inoltre nonostante la mole di opere di cui è responsabile non si costituisce né come genere né come forma, non più di quanto uno sciroppo per la tosse possa aspirare a un proprio scranno nel mappamondo cavo dove i gentiluomini di ogni tempo custodiscono i liquori… Meno ma non troppo meno atrabiliarmente, l’Adra che noi vediamo o per meglio dire che ci viene costantemente e a culo nudo sbattuto in faccia nelle e dalle pagine di Cuore infranto non è che un pallido riflesso dell’Adra primigenio, ovvero quello precedente a tutti i viaggi… Già, ecco il punto, sempre lo stesso: dai viaggi, questo lo si capisce sempre troppo tardi anche se è la cosa più ovvia del mondo e anche se ce lo hanno ripetuto mille e mille volte, dai viaggi non si torna indietro. È come un continuo e sempre più affaticato moulting che infine distrugge l’organismo, con la differenza però che il moulting qui interessa la carne e non l’esoscheletro, siamo pur sempre vertebrati… La colonna vertebrale come residuo della nostra appartenenza agli anellidi… La colonna vertebrale è il nostro antico esoscheletro, inghiottito dalle escrescenze del midollo che col tempo si sono articolate in muscoli, grasso, organi e soprattutto meandri sopra meandri di viscere. Le tour du monde en 80 vertèbres, questo il titolo del film poco prima di sfarsi come fanghiglia tra le dita di Sommariva (frena, frena! non era Adra? non era Adra?). Nell’ultima versione Phileas Fogg avrebbe dovuto, una volta vinta la scommessa, immediatamente ripartire per un nuovo giro, come una lancetta di orologio, e così via un giro dopo l’altro fino a consumarsi a uno stato appena più denso di quello di un’allucinazione preonirica, imparando l’arte del viaggio su ragnatele, artigli di gallina appesi in macellerie cinesi, dietro le figure delle carte da gioco sulle navi da crociera, e catturati nella maledizione di Phileas anche Passepartout e la principessa indiana salvata dal sacrificio solo per farsi sbranare viva dalle rotazioni di Phileas.

(La “prima” collaborazione tra Adra (“prima” ovvero prima a seconda di quale Adra si prenda) e Brušek (mai, au contraire, chiedersi quale Brušek: mai) si era invece svolta nell’ambito dello psychogame Call for the wild, gioco dai notoria- ovvero famigerata- (nell’ambiente, beninteso) -mente nefasti effetti sui tester della fase Charlie. Questi i fatti: rivivendo nella propria rete neurologica o più propriamente nella propria Psyche® (che una Psyche® sia effettivamente una fedele riproduzione digitale di una certa mente è una verità fattuale solo per quelle menti che effettivamente sono equiparabili per rozzezza strutturale a una Psyche® –– in fondo la qualità della prestazione del software Psyche® non è che una questione di (auto)percezione e introspezione del soggetto “clonato” ––– se ci soffermiamo su queste bizantinerie psicosimulative (ricordiamoci sempre che non stiamo parlando che di un banale psychogame) è stato perché in fase processuale la difesa e l’accusa si sono contese il diritto di chiamare o meno i tester “vittime” sulla base delle per quanto grossolane comunque impalpabili autopercezioni di ciascun singolo partecipante) le avventure che respingono il cane Buck a risalire i millenni fino a cancellare da se stesso la in fin dei conti trascurabile parte avuta dall’umanità nello sviluppo della specie canina, e che lo portano (sempre il cane Buck) infine, tornato preumana fera, a squarciare la gola di un pellerossa, ad uccidere un uomo e a diventare per l’Uomo in generale lo spirito stesso del Male ovvero di ciò che sia stato gettato talmente lontano nel tempo e anche dal tempo da non poter far altro che diventare radicalmente nemico all’uomo ovvero un purchessia ridotto e deforme dio per l’uomo, rivivendo (i tester: tramite le rispettive Psyche®) tutto ciò come uomini, gustando grazie al chiamiamolo così hi-fi psichico il calore e il getto traboccante del sangue che sbrodolava lungo il loro apparente muso canino, ritornando in sé e uscendo dal gioco i tester si ritrovavano in misura non indifferente ancora assetati di quel calore liquido lungo la gola, estasi predatorie che quasi li faceva diventare vampiretica- o cannibalistica- mente una propaggine momentanea e usurpatrice del corpo squartato dalle loro stesse fauci, erano, azzannando il pellerossa, per un breve mortale dolcissimo momento una continuazione e forse perfino un organo del pellerossa, una deviazione nella pulsazione del sangue, un radicale e diremo panico prosciugamento della storia della vittima il cui circolo sanguigno è stato spezzato per riversarsi in un altro più forte o semplicemente più assetato circolo, così come il Mississippi verrà prima o poi risucchiato dall’Atchafalaya, Venezia da Waltzwaltz, Jakarta da Schwarzschwarz, e in fondo il racconto non è anche lui un fiume effluente che aspira a diventare il fiume reale? Un intestino che digerisce la realtà filandone nuova carnivora carne… Un cane furioso che azzanna la gola di un guerriero e ne beve il sangue cancellando completamente il passato e il futuro del guerriero, e il macchinario dell’architetto a ben vedere proprio come un cane di latta tornato selvatico prosciuga il cuore del viaggiatore, magari senza berne il sangue ma di certo consumandolo, sì, la macchina di latta dell’architetto permette il viaggio nel tempo semplicemente perché la macchina è la morte stessa… Solo chi è morto viaggia propriamente nel tempo, e quindi i primi viaggiatori, i diciamo così pionieri, dovevano morire, fin dal primo viaggio… Non come macchine però, non come mere Psyche®, bensì come cani ovvero più propriamente come racconti di cani: Jack London, durante il processo questo risultò sempre più spaventosamente chiaro, non era stata un caso. Psyche® non può perfettamente ripetere la mente umana, ma quale cortocircuito avrebbe ptuto creare il cammino di un manichino umano verso il pre-umano? Brušek e Adra avevano visto l’ingresso di un tunnel profondissimo e ignoto, e senza tanto pensarci su ci erano entrati tirandosi dietro come pifferai magici il loro gregge di “cani” furenti… I tester uscivano da Call of the Wild assetati di sangue, come i reduci da una guerra, assetati come l’Atchafalaya ––– araldo acquatico del futuro, del mondo immaginario da cui esigiamo sempre più di essere vampirizzati forse nella speranza di un contagio, di una ulteriore diminuzione e sragnatura nel tessuto della realtà, fino a che il pullulare quantico non entrerà nella nostra vita quotidiana e allora verrà il regno dell’Atchafalaya… Ed eccoli dunque riversarsi, i tester di Call to the Wild, le cui Psyche® perfettamente (o quasi: era appunto quel quasi l’origine della follia irreparabilmente scatenatasi nei tester, ma non perdiamoci in tecnicismi) sovrapponibili a quelle ottimamente simulate di un cane rinselvatichito semplicemente rifiutavano di restituire i comandi alla rete neurale naturale dei soggetti (la cui infinita- o meglio indefinita- mente più raffinata struttura, sempre che di struttura poi si tratti, non è affatto garanzia di una maggiore energia nel controllo–– è anzi più che plausibile, e in questo l’incidente con i tester di Call of the Wild ha avuto se non altro l’effetto di dar vita ad un sempre meno marginale interesse del pubblico nei confronti dei settori delle funzioni militari impegnati nella strisciante ed elusiva guerra pseudoneurale, conflitto nel quale la cosa più difficile è capire se si sta effettivamente combattendo o no, chi siano gli eserciti e chi i generali, come se durante il sonno i soldati sparsi nei mesti e speculari reticoli della prima guerra mondiale (non sembra anche questo il nome di un gioco per bambini? non ha, la pura e semplice idea che possa esserci alcunché di così ridicolo come una guerra mondiale, quella dolce stupidità infantile? è lo stesso che dire una cena mondiale, o una passeggiata mondiale) fossero stati sollevati da uno spettrale burattinaio e scambiati di posto, di abito, di continente, di grado, e al risveglio si ritrovassero come in un sogno, e come sempre nei sogni, incerti sul proprio essere, finalmente immemori, se non salvi––– è anzi più che plausibile che la rete neurale ad un certo insondabile livello desideri abdicare, il tranello è forse in altre parole interno e implicito in quell’insondabile fondo indefinito che sempre tende a tornare nel nulla–– il generalissimo pseudoneurale si frega le mani ghignando, sempre che ancora abbia un corpo o almeno un ghigno. Eccoli riversarsi fuori dalle stanze dei test del gioco assetati di sangue caldo, anche loro ritornati Bestie Primordiali cui tuttavia la canzone del Branco era ignota, ignota la luna e la notte, e non tuttavia la sete di sangue… Tornavano sciamando discordi in quella tremula zona di confine tra la preda e il predatore che è forse all’origine di una linguistica autocoscienza, ovvero dell’aprirsi di un mondo interiore in aperta e atchafalayesca contraddizione con il flusso del mondo esteriore etc., le consuete fregnacce che a noi mesti ma onesti artigiani dello psychogame non interesserebbero poi molto, non almeno finché uno dei tester, condotto fuori dal gioco, gli occhi iniettati di rosso proprio come quelli di un mezzo pastore scozzese mezzo san Bernardo che abbia appena sgozzato alcuni pellerossa, ecco non almeno finché un tizio del genere non si avventi a fauci spalancate sulla gola dell’onesto artigiano, ossia alquanto provvidenzialmente su quella di un suo aiutante…

…quasi Sherwood® e lo psychogame Call of the Wild con la loro origine letteraria volessero additare la potenziale rivolta innescata la prima volta che qualcuno ha inventato una storia ovvero immaginato una creatura inesistente avviando così la germinazione al di là dello specchio di figure in agguato e sempre meno docili ai movimenti dei loro “padroni”… come il turco di Hegel che riconosce nel disegno di un pesce un grave delitto contro l’esistenza, finendo per divinare quello che ora è sempre più sotto gli occhi di tutti: prima o poi il pesce che abbiamo scarabocchiato verrà a chiederci conto dell’averlo noi messo al mondo… e così il desiderio sempre maggiore di farsi risucchiare nel mondo dell’Atchafalaya, di spodestare la carne è solo la disperata astuzia di chi, nell’imminenza della sconfitta, cambia di casacca e passa tra le file nemiche… la speranza di passare per pesci di carta, figure riflesse, in modo da scivolare tra le pratiche da archiviare nel Giorno del Giudizio. Dietro l’apparenza di un romanzo per ragazzi, Call of the Wild, è in effetti il diagramma di una delle possibili apocalissi che ci attendono.

Non esiste frase più radicalmente sovversiva di “C’era una volta…”)

O ancora e infine (per ora), Attraverso il mezzo specchio, unico tentativo da parte di Sommariva di scrivere un romanzo per bambini. (Tutti i tentativi di Sommariva sono sempre unici: mai imbarcarsi due volte sulla stessa rotta, diceva.) Non c’è bisogno di nominare il modello della storia, che come si vedrà funge da mero pretesto (per non dire espediente acchiappaclienti). Né c’è bisogno di aggiungere che il tentativo abortì, questa volta forse per fattori indipendenti dalla volontà di Sommariva, quali ad esempio il raccapriccio degli editori che Sommariva, pronubo Valmarana, era riuscito ad avvicinare. Sembravano non voler capire, quegli editori (così in un quasi vignettistico “senza parole” Sommariva, fulminando con gli occhi Valmarana che glieli aveva presentati) erano le pieghe orrorifiche disseminate da Sommariva qua e là nel racconto. A quali bambini si rivolgeva o voleva rivolgersi Sommariva con quella storia? Era la domanda di ognuno di loro dopo che Sommariva avesse palesato almeno parzialmente la storia. Uno mica resta bambino in eterno: lo stesso dovrebbe succedere ai romanzi, aveva risposto una volta Sommariva, e per un attimo l’editore o il suo assistente era sembrato realmente interessato, valutando se quella risposta insolita potesse valere più del becco di un quattrino. Poi l’editore si era accorto che Sommariva era ubriaco fradicio, e l’aveva congedato.

Con quel «mezzo specchio», così si apriva ogni volta la presentazione del progetto a un nuovo editore, Sommariva aveva voluto intendere che lo specchio da attraversare non era un vero e proprio specchio, ma semplicemente il vetro di una grande finestra all’undicesimo piano di un condominio di uno dei rioni settentrionali di Waltzwaltz. I vetri delle finestre fanno appunto da mezzi specchi: si chiama riflessione parziale. Parte della luce viene riflessa, parte si disperde oltre il vetro, e così noi ci vediamo riflessi nel vetro, ma trasparenti (Valmarana sosteneva che simili dettagli pedagogici fossero ciò che un editore di libri per ragazzi desidera trovare). Una notte la bambina protagonista del romanzo, con sommo orrore dei suoi famigliari, aveva attraversato il mezzo specchio, attratta dall’appartamento che sembrava disegnarsi al di là della finestra e galleggiare così nel vuoto. Era come scivolata attraverso il vetro, nel canonico passaggio dalla realtà alla favola. Ma ecco il primo problema narrativo per Sommariva: l’appartamento riflesso nel vuoto al di là della torre grigia essendo anch’esso semitrasparente, attraversato dal vento, dalla pioggia e dai gabbiani, dai petali di rosa e dalle briciole di pane e dalla polvere della città, dalle foglie morte (l’editore si mordeva le nocche e guardava l’orologio alla parete; Valmarana annuiva, seduto sul divanetto alle spalle di Sommariva, sorridendo consapevole ad ogni nuovo corpuscolo nominato da Sommariva), un simile appartamento, per essere abitato e esplorato, richiedeva che la persona che vi entrasse fosse altrettanto impalpabile: ecco allora che la bambina nello strisciare nell’appartamento dentro il riflesso era stata solo parzialmente risucchiata dal vetro carnivoro, proprio come la luce, lasciando nell’appartamento reale un mostruoso e sospirante pupazzo di sangue sulla natura del quale Sommariva aveva lungamente ponderato: doveva lasciarlo lì accoccolato sotto il davanzale, dove si era accosciato dopo che la bambina era stata scorticata dal vetro stregato, venendo risucchiata nell’appartamento riflesso solo in forma di volatile sacca di pelle (impagabile qui la noticina del solito Valmarana – il quale tanto per cambiare nell’assumersi solennemente l’impegno di portare a pubblicazione Attraverso il mezzo specchio aveva allegato come d’abitudine ulteriori promesse di mari e monti e lune e corpi celesti assortiti a Sommariva, che come ogni disperato amante aveva abboccato anche quella volta, lui stesso del resto preda della proprio medesimo illusionismo, come il cinico lettore ghigna tra sé – a un potenziale editore che, qualora non fosse del tutto convinto dell’opportunità di accogliere nelle proprie collane di narrativa per bambini la fiaba di una bimba scorticata viva da una finestra stregata, avrebbe potuto (l’editore ancora del tutto ipotetico – ma già non poco perplesso – del progetto di Sommariva) soggiungere (suggeriva Valmarana) una «tranquillizzante noticina didascalica di non lieve valenza pedagogica» sulle più celebri raffigurazioni di scorticati, da Michelangelo a Tiziano ai primi trattati di anatomia –– e sobillato così dagli illusionismi (peraltro in questo caso del tutto gratuiti, come dire disinteressata- e spassionata- mente maligni) di Valmarana, si abbandonava, Sommariva, sì, si abbandonava letteralmente per ore ed ore (senza quindi più scrivere una riga), come un’anguilla in amore che scende al mar dei Sargassi, a fantasticherie su questo ipotetico editore, sui suoi atti, parole, opere e (la perfezione è nausea al romanzo) omissioni, sul suo volto e il suo aspetto che conosceva solo per vaghi cenni narrativo-descrittivi di Valmarana che peraltro gli aveva fatto divieto assoluto di contattarlo, l’editore ipotetico cioè nutrito e rimpinzato delle ipotesi sommarivierasche: mai, in alcun modo, cercare di contattarlo, nemmeno telepaticamente. E la fantasia si faceva sangue, e questo editore con ogni probabilità affatto immaginario, parto del contorto amore (e, come ogni vero amore, crudo, e cieco) che parassitizzava la vita dei due (cioè di Sommariva e Valmarana), aveva finito per diventare quasi quasi un personaggio della terrificante e editorialmente inaccettabile fiaba di Sommariva, ed eccone quindi la sagoma imprecisa e narrativamente quanto meno incongrua mescolarsi a quelle degli altri abitanti dell’appartamento riflesso, magari una persona in più, ecco, che vuoi che sia, solo una persona in più rispetto a quelle presenti nell’appartamento reale, sì, il profilo di una testa, il traballare di un’occhiata poco dietro un angolo nell’appartamento riflesso, un ammiccare bianchiccio che aveva finito per attirare l’attenzione della bambina, dopodiché era bastato un piccolo gesto di invito con l’indice perché la bambina venisse risucchiata dal vetro come dalla ventosa di una piovra invisibile)? Oppure il mostriciattolo insanguinato poteva a propria volta avere una serie di avventure parallele nell’appartamento reale (per un certo tempo Sommariva aveva anche ponderato la bontà della seguente idea: dare alla storia la forma narrativa, mai del tutto in disuso nei libri per ragazzi, della biforcazione con intervento del lettore, “Se vuoi sapere quali sono le avventure del pupazzo di sangue nell’appartamento reale vai a p. x, se vuoi seguire le avventure della bambina ovvero di ciò che di lei rimane nel riflesso del vetro della finestra vai a p. y”, e così via, ordinate per il pupazzo di sangue e ascisse per la bambina sventrata, poi individuando i punti sul piano––– già a quella prima biforcazione la fantasia di Sommariva aveva cominciato a moltiplicare le possibili conseguenze delle azioni dei personaggi in un «ramifichìo» – così Valmarana – di storie potenziali che avevano paralizzato la scrittura e infine lo stesso Sommariva, che restò bloccato a letto in una sorta di stato di surriscaldamento cerebrale indotto dalla cieca volontà di processare fino alla fine contemporaneamente tutti i calcolabili se e allora delle azioni della bambina e del pupazzo di sangue –– Valmarana diceva che quando gli andava vicino poteva sentire da dentro la testa di Sommariva la ventola di raffreddamento andare a pieni giri ––– ma del non inane esito di tutto ciò, poi e altrove: contentiamoci per il momento di ritrovare Sommariva di nuovo – per poco, però – in forze, e pronto a rimettersi all’opera)? E se sì, aveva forse lo scopo, il pupazzo di sangue, di liberarsi una volta per tutte della pelle della bambina (allegoria, quella pellicina risucchiata nell’appartamento riflesso, dell’anima? Sommariva tornava a torturarsi tra mille fiabe parallele, mentre il sempre più ipotetico editore che ormai in forma di personaggio si era installato in pianta stabile nell’appartamento riflesso accartocciava tra i propri artigli il guscio semitrasparente della bambina assorbita dal vetro)? O non poteva forse, il mostriciattolo, rivelarsi dopotutto un docile e dolce pupazzo sì di sangue ma pur sempre figlio (ossia naturalmente figlia: ma già, complice lo scorticamento, nella mente ovvero dietro la mente di Sommariva cominciava a profilarsi un oscuro sottotesto di editorialmente ormai del tutto abnorme ermafroditismo alchemico, la femmina nella pellicina catturata nel riflesso, il maschio nel pupazzo di sangue abbandonato nella chiamiamola così realtà…) degli inorriditi genitori? I quali a propria volta che avrebbero fatto? Avrebbero rinchiuso il pupazzo nella camera più remota dell’appartamento cercando di dimenticarlo? Se ne sarebbero presi cura come di un povero cane abbandonato e rinselvatichito? E il pupazzo, non doveva forse e piuttosto fuggire da lì e avere una serie di avventure nel mondo esterno? E che ne doveva essere dell’altra bambina, quella inghiottita nel riflesso del vetro non si sa bene se per una maledizione o infantile curiosità o tutt’e due? Eccola, sottilissima siloetta di cartapecora rinchiusa nell’appartamento sospeso sopra i viali di Waltzwaltz nel quale è stata attratta dal cenno di invito dello stregone che si è insinuato in quell’altro mezzo specchio oltremodo convesso che è la zucca di Sommariva (in un ultimo cervellotico e perciò squisitamente catastrofico tentativo di strapparsi ai viscidi laccioli della camera semitrasparente in cui stava dileguandosi ciò che restava della bambina, Sommariva aveva immaginato che nell’appartamento riflesso il guscio o l’anima o la siloetta o quello che è insomma la bambina trovasse un secondo mezzo specchio, un altro vetro cioè di un’altra finestra in cui di nuovo si riflettesse un terzo ancora più spettrale appartamento, e che la bambina lasciando dietro di sé un secondo fantoccio di sangue sul quale consumarsi in nuovi dubbi narrativi, la bambina venisse di nuovo scorticata dal secondo vetro, e così via di nuovo vetro in nuovo vetro, mezzo riflesso di un mezzo riflesso di un mezzo riflesso… un infinito eleatico e mai definitivo rimpicciolirsi della qualità e della consistenza del riflesso, precipitando in un labirinto di mezzi specchi, in stanze sempre più impalpabili, lasciando dietro di sé una fila di sempre più vaporei pupazzi di sangue, senza mai incontrare nessuno… se non lo stregone che l’aveva catturata all’inizio, e che però non era mai nella stanza in cui la sempre più spettrale figura della bambina veniva risucchiata e da dove pure l’aveva invitata col gesto di un sempre più diafano indice, ma quando la bambina infine si lasciava per l’ennesima volta scorticare, l’appartamento in cui si ritrovava era sempre vuoto… e lo stregone le raccontava sempre la stessa storia, dei piccoli ragnetti che cambiano pelle, e lei era come quei ragnetti non è vero? solo che faceva tutto viceversa, cambiava il corpo e si teneva la pelle, faceva il contrario dei ragnetti, stupidina pasticciona, e rideva e le solleticava il collo ormai quasi invisibile invitandola nel prossimo riflesso, e la bambina con un ultimo strattone attraversava ancora un vetro, minuscolo ragnetto ingannato… e infine dopo tutto questo demoniaco ridacchiare e sventrarsi nella trasparenza la bambina era però destinata ad arrivare, scorticamento dopo scorticamento, all’ultimo inaudito vetro di quella serie infinita di vetri, intriso esso vetro dell’impossibile agitazione quantistica in cui a quel livello iperfantasmatico di semiriflessione i fotoni che alla fin fine veicolavano tutti quei riflessi vengono come dire ipnotizzati, irretiti cioè e iperrallentati, con effetti di distorsione temporale tali da alterare irreparabilmente il susseguirsi di pensieri della bambina prigioniera, rallentamenti temporali sui quali Sommariva si era naturalmente rotto non poco la testa, per poter far sì che le vicende della sequenza di fantocci di sangue nei vari appartamenti dietro le tende di ognuno dei quali un dito sempre meno distinguibile dal biancore del cielo invitava ciò che restava della bambina ad attraversare ancora solo un’ultima soglia. L’ultimo guscio della bambina infine, libero da ogni residuo di carne e altrettanto precario dell’ultima possibile vibrazione catturabile nello spettro dei suoni armonici di una nota di pianoforte («La Fantasia in do maggiore di Haydn!» gridava Sommariva tra i fumi della grappa che Valmarana gli versava un bicchierino dopo l’altro «per scaldargli le turbine», mentre la luce delle vecchie lampadine elettriche si faceva sempre più fioca, quasi assorbita anch’essa dall’onnivora e sterile furia creativa di Sommariva e tornata al primitivo tremore della candela), l’ultimo minuscolo spettro si dissolveva in un secondo nell’aria, un secondo , in quell’inconcepibile giardino quantistico in cui la bambina-anima era stata intrappolata, un secondo la cui durata però era sempre più prossima all’eternità man mano che il lettore risaliva all’indietro la sequenza di finestre riflesse fino a tornare nell’appartamento originale, e come tutti coloro che raggiungono troppo precocemente il limite della propria arte, Sommariva aveva a lungo accarezzato l’idea di un’esplosione finale, così fa chi si è ormai perduto tra le proprie stesse nebbie, far esplodere tutto prima di rimanere intrappolati per sempre anche noi, gli esempi non mancano, Welles nel Trial, Kubrick con Strangelove, Antonioni con Zabriskie Point e via dicendo, quando si fa esplodere tutto è perché qualcosa è andato storto o perché si è arrivati al proprio limite ma è ancora troppo presto, e allora è anzi perfino raccomandabile far esplodere tutto, «un toccasana per l’intestino» gridava Valmarana dalla cucina preparando l’ottocentesimo caffè irlandese, e così perciò anche Sommariva: far esplodere tutto, a partire dalla vetrata più diciamo remota nella catena di riflessi, quella attraversata la quale la bambina era infine sparita, una barriera sottilissima contro la quale in un accesso visionario Sommariva aveva fatto poggiare un artiglio di leone reso incandescente dalla propria stessa insensatezza, artiglio che aveva innescato una violenta frantumazione nella sequenza di vetri sempre meno irreali, risalendo di sbriciolamento in sbriciolamento su su per poter tornare all’appartamento di partenza, con esplosioni di vetri che via via si facevano più lente per la suaccennata distorsione temporale dei fotoni («sì, quello e altre cagate sci-fi, ci pensiamo poi in fase di editing, tu adesso scrivi, scrivi, scrivi!» –– a Valmarana mancavano ormai solo la frusta e il tamburo di pelle umana per dare il giusto ritmo all’azione) impigrendo fino a ritmi geologici, tanto che l’ultima finestra, la sola reale, sopravviveva, prima di “esplodere” (nel tempo “reale”, la cosa prendeva cioè avrebbe dovuto prendere più l’aspetto di un lentissimo deterioramento, appena di poco più rapido di quello normale del vetro, che è dell’ordine delle centinaia di migliaia d’anni), all’intera famiglia ormai devastata da un’esistenza con un pupazzo di sangue non importa più se buono o malvagio, se ingovernabile o rinchiuso e dimenticato nella stanza più inaccessibile dell’appartamento, e poi nessuno per quanto lo desideri dimentica mai nulla, come un pupazzo avvelenato il ricordo resta a borbottare sempre nella camera in cui l’abbiamo rinchiuso; borbotta l’incantesimo compiuto il quale anche la nostra vita diventerà il riflesso nel riflesso nel riflesso nel riflesso nel riflesso nel riflesso nel riflesso nel riflesso nel riflesso nel riflesso nel riflesso di una finestra in frantumi all’undicesimo piano di un condominio che nessuno ormai abiterà mai più ––– notare per inciso che fin qui Sommariva non aveva ancora scritto nemmeno una parola, una. In una seconda versione della storia, una volta finita nell’appartamento riflesso la bambina aveva scoperto di poter lasciarsi scivolare anche nei riflessi degli altri appartamenti del palazzo, che lei riusciva a vedere come celle trasparenti sospese al di fuori del corpo del grattacielo in cui viveva e dal vetro del quale era stata risucchiata in quel riflesso sospeso sul vuoto della città. La bambina cadeva di riflesso in riflesso da un appartamento all’altro, mentre si approssimavano le nemesi gemelle della fine della serie di appartamenti riflessi e dell’alba, la cui luce avrebbe disciolto la bambina nell’azzurro, patetica e primonovecentesca immagine di una precoce assunzione in cielo ––– In una terza versione della storia l’infinitesimale lombrico cui ormai si era ridotta la bambina attraversando uno specchio dopo l’altro inizia un faticosissimo cammino «a inverso» (così Valmarana per subito dopo venire travolto da un accesso di risa isteriche che lo facevano piegare in due fino a adagiarsi tremando come un epilettico sulle ginocchia dell’allibito Sommariva), rientrando in possesso dei (ovvero riassorbendo dentro di sé i) pupazzi di sangue che si era lasciata dietro; in questo cammino a ritroso verso l’appartamento reale la bambina, sempre meno trasparente man meno che esce dagli specchi per riavvolgere di sé i manichini di sangue che all’andata aveva abbandonato dietro di sé, si rende sempre più chiaramente conto che ogni pupazzo di sangue che rientra in lei, di lei rivestendosi, non è in realtà che il rivestimento del pupazzo successivo. «Una specie di matrioska», diceva Sommariva all’ipotetico editore per rassicurarlo del fatto che uno scorticamento multiplo e reversibile di una bambina rientra perfettamente nei pattern dei più antichi e amati tales russi. Tornata infine nell’appartamento reale e riabbracciati i genitori, la bambina arriva all’altra finestra, quella che in tutti i precedenti appartamenti gli serviva per fare il passo successivo verso la realtà. Giunta alla finestra in questione, nel riflesso insolitamente vivido del vetro vede, invece del proprio volto come dovrebbe ormai essere una volta raggiunto l’appartamento reale, ancora un pupazzo di sangue –– ed ecco che implacabilmente la storia tornava a biforcarsi, disfacendo e insieme imprigionando Sommariva nelle proprie linee; il pupazzo di sangue nel riflesso della finestra presenza inizialmente persecutoria, diventa infine una circostanza abituale per la bambina, che pian piano lo addomestica all’obbedienza cui sono tenute tutte le immagini riflesse, e che col tempo finisce per cicatrizzare un specie di pelle che se non corrisponde esattamente a quella della bambina le va comunque vicino; oppure (non sappiamo più nemmeno noi a che numero di versione o sottoversione siamo) la bambina decide di “ritornare” anche attraverso quel riflesso, rivestendo di sé anche quel nuovo pupazzo di sangue e rendendosi così conto dell’esistenza di una sempre più ardua scala di finestre «più realistiche del re» (il solito Valmarana, che in tutto questo si è fatto un perverso punto d’onore nel sottoporre ogni giorno al già surriscaldato Sommariva una nuova ipotesi biforcativa nella storia della bambina riflessa), una ulteriore sequenza di finestre e pupazzi di sangue da attraversare e riassorbire per sperare un giorno di poter giungere alla finale realtà. È l’anima, questa la morale, è l’anima l’involucro, la prigione cui la carne cerca sempre di fuggire. È l’anima l’esoscheletro, il carceriere, «l’aguzzino è la bambina» avrebbe infatti scritto Sommariva a brusca conclusione del suo ennesimamente (neologismo valmaranico pronunciato in tono e posa caricaturalmente ramanzineschi, con tanto di braccia incrociate e punta del piede che colpisce ritmicamente il pavimento, labbra piegate come a succhiare una caramella al rabarbaro, e una mano che infine agita verso Sommariva un tenero “guarda, ve’…”) abortito progetto (abortito, ahilui, ma non prima di immaginarne ancora una biforcazione: finalmente risalita lungo la spirale di riflessi e tornata alla realtà, per effetto della di cui sopra deformazione temporale la bambina finisce per ritrovarsi già vecchia, in un appartamento che non riconosce più, a fissare il proprio volto riflesso alla finestra mentre da una delle stanze del piccolissimo appartamento sente arrivare le urla di un uomo, e a malapena ha il tempo di ricordare un’ultima volta la sua terrificante avventura attraverso i mezzi specchi, che con l’urto quasi fisico che provocano le agnizioni che precedono il risveglio la vecchia si rende conto che quell’uomo che sta gridando nell’altra stanza è suo figlio. La vecchia si stropiccia inutilmente gli occhi, nella speranza di risvegliarsi di nuovo bambina nella sua vera casa. ––––––– e «Ancora! Ancora! Ancora una!» Una febbre biforcativa che ormai paralizzava Sommariva a letto e cui Valmarana assisteva letteralmente leccandosi i baffi. Ecco che ora, raggiunto l’appartamento reale, la bambina scopre che proprio nell’ultimo passaggio una parte del suo guscio-anima si è trattenuto al di qua del riflesso. Talvolta la bambina ne sorprende le occhiate fameliche: l’essere, ormai indipendente dalla volontà della bambina, aspetta solo il momento buono per uscire dal riflesso e impadronirsi di quello che ai suoi demonici occhi trasparenti deve apparire come un pupazzo di sangue e che invece è lei, la bambina. O forse no? O forse il guscio della bambina era pronto a scivolare in altri riflessi, di altri corpi a impadronirsi? Sommariva si rigirava disperato nel letto, intrappolato in una rete di bambine e riflessi di bambine che non era più nemmeno tanto sicuro di aver solo immaginato. ––––––– Di Attraverso il mezzo specchio non resta traccia materiale se non un emaciato e immediatamente cestinato incipit: «Nel villaggio da cui viene la mia famiglia, si dice che nei riflessi dell’acqua e del vetro si nasconda una bambina cannibale, e che se la fissi per troppo tempo il sangue, come un serpente dalla cesta di un incantatore, inizia a scivolare via dal tuo corpo per essere risucchiato dallo spettro della bambina. Quando avrà aspirato abbastanza sangue, la bambina romperà il vetro in cui è imprigionata e inizierà a camminare sulla terra.»

…come una di quelle presso che fumettistiche sequenze di affreschi medievali in cui una accanto all’altra abbiamo scene diverse della vita di un santo nelle quali inesorabilmente il santo è sempre , sempre inequivocabilmente lui, di scena in scena, nient’altro a tenere insieme i fatti di una vita che la presenza del santo in ciascuna vignetta, e solo per la circostanza poco più che casuale che sempre uno stesso santo era lì quando quei fatti avvennero usiamo chiamare quella sequenza “destino”… Fatti inanellati uno dietro l’altro come vertebre di animali reciprocamente alieni, impilati alla bell’e meglio in forma di bizzarra e malferma spina dorsale e siringati di un unico midollo, un midollo chiamato santo, costantemente presente di vertebra in vertebra, di vignetta in vignetta, senza nemmeno rendersi conto che ad ogni nuova vignetta i contorni e le sostanze si fanno sempre più diafane, più diafana la propria stessa carne, dispersa in pupazzi di sangue annidati negli angoli più bui o perfino non inquadrati delle vicende miracolose o variamente formidabili che compongono il destino del santo…

Cancellare i mostri nella luce, attraverso la luce.

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La pioggia lontana e il sole rivelavano nella distanza panorami color pastello che, intervallati da livide tende di nubi, sembravano essere stati provvisoriamente radunati da continenti e persino pianeti differenti, affastellandosi in distanze sempre più remote e trasparenti mano a mano che l’aria veniva ripulita dall’acqua, i raggi del sole prossimi ad essere paralleli al terreno, a disegnare montagne fantasma sopra l’orizzonte della città. “…come in certe sonate di Beethoven in cui nello spazio infinitesimale tra una battuta e l’altra si giustappongono cellule tra loro incommensurabili, tali da suscitare risa di terrore come davanti a membra umane amputate. O come altre sonate ancora, in cui ogni elemento sembra generato per riflessi e diffrazioni da un’unica cellula primordiale, come in un labirinto di specchi infedeli… Ero da sempre stato con lei, capisce, ovvero dietro di lei, quasi come un padre, anzi, che dico, non mi ascolti, a volte, sa, a volte mi abbandono… Un labirinto di specchi infedeli, ecco, perché continuiamo a cercare una qualche somiglianza con quello che noi siamo convinti di essere, ma basterebbe abbandonare il desiderio di riconoscersi, di sollevare la tenda di nubi che inarrestabile- e lentissima- mente ci seziona lungo linee e aree sempre differenti… lame nebulose… Ecco, l’uso del macchinario fa correre nuove tende lungo il nostro panorama, tende che mascherano, mascherano… e restano a galleggiare davanti a noi fino a diventare un autentico vuoto, una zona nera… nuove svolte del nostro labirinto di schermi infedeli… tutto all’opposto di Narciso, ecco, perché in fondo noi vogliamo o almeno io voglio ovvero vorrei uscire dal “labirinto” e forse è questo il più grande degli errori, dare per scontato che un “labirinto” debba avere un centro e un’uscita, che ci sia un percorso giusto… Mi segue, mi capisce? Il macchinario ci fa credere di poter risalire alla cellula originaria come lungo le trasparenze di una sonata di Beethoven, mentre non fa che disseminare nuovi specchietti intorno a noi, come scaglie di pesce… tutto si divide come in un caleidoscopio… Le è mai capitato di pensare che io, lei, Sarahs, tutti, non siamo che il riflesso di un viaggiatore originario, di un presidente che all’inizio del viaggio decise di…” [qui la lettera finisce]

[continua l’11 marzo]