Il suo nome è Casanova; è una bestia larga, tozza, pingue oltre misura: una rotondità carnosa interrotta da poche pieghe sulla nuca, un porco, la manifestazione senza errori di un’idea di compiutezza corpacciuta. Il suo colore prevalente, contrastato da rare macchie brune, tende al rosa. Molto bella è la sua coda a ricciolo, quasi una decorazione liberty appiccicata sul didietro. Come ogni esemplare della sua specie, Casanova ha il naso glabro e schiacciato, zampe brevi, un collo così corto da sembrare un prolungamento della schiena che invade lo spazio della testa, dita unghiute al termine di piedi forti, sugna dappertutto, orecchie spenzolanti lungo i lati del grifo. Tra i suoi tratti distintivi spicca il grugno raggelato in una smorfia indecifrabile, ingabbiato in una vistosa museruola e culminante in due occhi semichiusi tenuti bassi verso il pavimento. Tra le sue zampe posteriori risalta il membro eretto inguainato in una borsa della spesa.
Per un profano è solamente un verro, seppure di grandi dimensioni: trecentocinquanta chili di muscoli, lardo e ossa che terminano in un muso tronco munito di 44 denti, il tutto sostenuto da zampe apparentemente inadeguate a reggere un simile peso e ricoperto da una cotenna dura e setolosa che sembra impenetrabile. Detto in tre parole, Casanova è un maiale non castrato, ma per gli addetti ai lavori è molto di più: per alcuni è un segugio dell’estro, per altri una perfetta macchina suina infallibile nel captare il manifestarsi dell’ovulazione nelle femmine della sua specie. Pur faticando a scorgere una differenza tra le due definizioni, si capisce che in questa disciplina Casanova non ha eguali. Nell’individuazione istantanea delle scrofe in calore non sbaglia un colpo, una volta si sarebbe detto che è un maschio riconoscitore.
– Casanova è un maiale da monta? – chiedo.
– No, da monta proprio no, – risponde l’allevatore, – semmai da riproduzione. Casanova ha due compiti: il riconoscimento e la riproduzione. La monta è una faccenda superata, appartiene al passato.
– Può spiegarsi meglio?
– Come vede il mio non è un allevamento classico. Sui pavimenti in gomma dei miei fabbricati camminano trecento scrofe. Ognuna di esse ha a disposizione uno spazio ampio paragonabile per dimensioni al reparto di ortopedia di un policlinico. Il nostro motto è: “Una scrofa, un ambiente”. Ogni stanzone è separato dagli altri con robusti divisori in muratura ed è caratterizzato da linee architettoniche snelle, le stesse che possono avere i padiglioni di una fiera campionaria.
– Vuole dire che le scrofe se ne stanno sempre appartate?
– Sì, proprio così, ognuna per i fatti suoi. Comunque ogni padiglione ha una porta, perciò capita che le scrofe si incontrino alla mangiatoia comune; tuttavia non accade spesso: facciamo in modo che ogni scrofa abbia abbastanza cibo nel proprio padiglione, così si evita la trasmissione di malattie.
– Ma la mangiatoia comune, allora?
– Serve a soddisfare un sacrosanto bisogno di libertà. Qui ci teniamo molto. Le scrofe sono libere di muoversi, di incontrarsi. Possono scegliere se mangiare nel proprio stanzone oppure alla mangiatoia comune. Questa è una buona cosa, eppure alcuni criticoni sostengono il contrario: quella accordata alle troie sarebbe una finta libertà, dicono, perché il cibo che gettiamo alle scrofe nei loro padiglioni è migliore rispetto al pastone della mangiatoia. In effetti è così, ma ciò non toglie che questa circostanza desta un interesse esagerato.
– E Casanova? Anche lui se ne sta solo?
– No, con Casanova è diverso. Qui è l’unico maschio, per noi è importantissimo. Di giorno cammina per ore sui pavimenti della proprietà. Passa da un padiglione all’altro, da una scrofa all’altra, ma è sempre accompagnato da otto inservienti della fattoria. Casanova ha un porcile tutto suo, adeguato alla sua stazza e al compito che deve svolgere. Settanta metri quadri non sono pochi. E poi il porcile è lustro, di un bianco che acceca; chi ci entra per la prima volta crede di essere nella corsia di un ospedale. Il pavimento luccica, come le piastrelle alle pareti. Per Casanova il porcile è un dormitorio. Ci ritorna tutte le sere, ma senza gioia. Lo accompagnano là gli inservienti del turno di notte, che poi si fermano con lui e si distendono sulle brande senza chiudere occhio; hanno l’incarico di sorvegliarlo mentre dorme.
Durante l’intervista Casanova se ne sta coricato in un letto di fango dietro la scrivania dell’allevatore. Non fa molto, ha gli occhi chiusi e non si muove; ogni tanto grugnisce, ma per lo più giace e sospira. La porta d’ingresso e una finestra dell’ufficio sono aperte, nella stanza penetrano spifferi di vento freddo. Accorgendosi che Casanova è esposto alle correnti d’aria, l’allevatore prende un plaid e glielo stende sopra. Prima gli copre il corpo lasciando scoperto il grifo, poi gli avvolge i piedi nella coperta, accertandosi che nessun dito resti fuori.
Quando l’uomo riprende il suo racconto, parla sottovoce per non disturbare il riposo del maiale.
– Gli voglio bene come a un figlio, – dice, – gli mostro il limite e lui lo rispetta. Lo fa nella maniera più onesta, vale a dire cercando di superare il limite. Casanova vuole passare dall’altra parte, ci prova di continuo. Alla fine non ci riesce, perché il limite gli scappa via da tutte le parti; ma lui non smette di tentare.
– Può spiegarsi meglio?
– Casanova fa sempre le stesse cose, compie gli stessi gesti, tuttavia non se ne stanca mai. Si potrebbe dire che il suo è un lavoro di fabbrica, seppure complicato dall’eros. Di giorno girella attorno al padiglione di una scrofa, annusa l’aria, entra nel padiglione, annusa la scrofa. E se questa è disponibile all’accoppiamento lui si alza sulle zampe posteriori, poggia le anteriori sul dorso della femmina e fa per montarla. A quel punto intervengono gli inservienti, i quali lo abbrancano e lo tirano via. Poi gli gettano addosso alcune secchiate di acqua fredda; questo serve a calmarlo.
– E dopo? che succede?
– Niente, sempre la stessa cosa. Ancora tutto bagnato, Casanova si allontana dalla scrofa e gironzola attorno al divisorio di un altro padiglione. Un inserviente apre la porta; quindi il porco oltrepassa il divisorio, entra nel padiglione, annusa la femmina e, se questa è in calore, prova a penetrarla. Subito si sente avvinghiare da quattordici braccia addestrate a impedirgli il contatto con la scrofa. Nel frattempo due mani gli stringono i testicoli per scongiurare il rischio di un’eiaculazione precoce. Se questo accorgimento non basta, c’è sempre il sacchetto di plastica fissato sopra le palle del verro con uno spago; essendo molto lasca, la borsa della spesa permette al membro dell’animale una discreta libertà di movimento pur assolvendo in maniera esemplare la sua funzione di preservativo. A dire il vero da quando Casanova è nella nostra fattoria il sacchetto è stato utile una volta sola; non grazie alla sua efficacia anticoncezionale, però, ma per aver ostacolato il contatto tra il sesso del porco e quello della troia, garantendo così il rispetto degli standard minimi di igiene previsti dal nostro regolamento. In quell’occasione – le parlo di un fatto accaduto sette anni fa – l’inserviente incaricato della stretta fu colto da infarto un attimo prima di comprimere le palle del maiale, che per fortuna non eiaculò. Tuttavia ebbe luogo un brevissimo amplesso. Non fu nulla di rovinoso, durò un secondo o poco meno e tutti ricordano come se lo vedessero ora che il pene del verro era correttamente imbustato nel sacchetto di plastica. Bisogna però riconoscere che si trattò di un evento importante, se non altro perché è l’unico coito accertato nella storia della fattoria.
* Il disegno che illustra questo testo è di Enzo De Falco