Leggendo l’articolo Che cosa dire a un complottista di Alessandro Carrera per Doppiozero dello scorso dicembre ho provato un misto di affascinato interesse e inquieto divertimento. Carrera racconta di quando, nel suo studio di professore universitario durante l’orario di ricevimento dedicato agli studenti, si trovò di fronte un uomo che gli chiedeva un colloquio. Avendolo scambiato per uno studente attempato, Carrera lo accontentò. Dal monologo dell’uomo divenne però ben presto evidente che si trattava di un autodidatta appassionato della Divina Commedia convinto di averne svelato i profondi significati nascosti. Riteneva di esserci arrivato utilizzando come chiave interpretativa il disegno di Leonardo intitolato Arcieri saettano un’erma. Carrera, da accademico, si trovò spiazzato di fronte alla granitica certezza del suo interlocutore circa l’adeguatezza e la genialità della propria scoperta ma, al contempo si rendeva conto dell’impossibilità di confutare, o semplicemente mettere in dubbio, la tesi che gli veniva esposta. Attuò allora un arguto cambio di piano nel discorso ricordandosi di un’intervista in cui un esperto affermava che l’unica mossa valida con un complottista consisterebbe nel farlo parlare di quello di cui ha veramente paura. Così, sfruttando il proprio intuito, che spesso per essere efficace deve abbinarsi a un po’ di fortuna, chiese al suo interlocutore come stesse la madre. Quasi magicamente la foga dell’interpretatore di enigmi danteschi scomparve per lasciare spazio a commenti poco lusinghieri sulla propria madre soprannominata “Arsenico”. Evidentemente non a caso.
Cos’ha colto Carrera del modo di funzionare del suo interlocutore? E più in generale, cosa possiamo dedurne rispetto a chi viene inesorabilmente catturato dal pensiero complottista? Esistono due concetti psicoanalitici che possono contribuire alla comprensione, almeno parziale, di questo fenomeno. Primo: quelle che comunemente vengono considerate normalità e patologia sono semplicemente gli opposti di un continuum. Ciò significa che nella psicopatologia vediamo all’opera dei processi psichici estremizzati che possiamo trovare in misura attenuata negli individui considerati sani. Secondo: il delirio psicotico, per quanto incomprensibile e bizzarro possa apparire, ha un senso e una coerenza per chi lo sviluppa. Ciò significa che esso non è solamente l’esito del disturbo psichico in forma di sintomo bensì contiene in sé un tentativo di guarigione: la frattura psichica sperimentata viene in qualche modo ricomposta attraverso una narrazione che è meno angosciante della frammentazione senza significato.
Il complottismo nel quale incappiamo ormai piuttosto frequentemente nelle normali conversazioni non è propriamente classificabile nella categoria dei classici deliri psicotici.
Potremmo piuttosto pensarlo come un delirio a bassa intensità, caratteristica che lo rende socialmente condivisibile e piuttosto contagioso. Come tutti i deliri contiene dei dati di realtà che tutti accettiamo: l’esistenza del 5G, dei chips che possono essere impiantati nel corpo umano, il potere delle lobby o la diffusione dei virus pandemici, solo per elencarne alcuni molto attuali. Le informazioni vengono però accorpate e riorganizzate attraverso una sorta di salto quantico del pensiero. Il passo così diventa breve nel dare corpo a narrazioni come quella in cui la pandemia sarebbe stata creata ad hoc per inoculare dei microchip negli individui con il vaccino così da poterli poi controllare attraverso le frequenze del 5G. Narrazione che può essere presa nel suo complesso oppure spezzettata in sotto-racconti, a dipendenza di chi ne farà uso.
Elemento centrale e ricorrente nell’architettura dei deliri a bassa intensità è la presenza di un’entità esterna superiore, generalmente spietata e controllante, il cui fine ultimo sarebbe quello di soggiogare individui, gruppi o nazioni intere, così da averne il dominio assoluto per un proprio vantaggio.
Perché alcune
persone sono così attratte da questo tipo di racconto? Quale beneficio ne
traggono? Apparentemente nessuno poiché la realtà che queste teorie generano è
angosciante e altamente distopica. Seguendo
l’intuizione di Carrera
diventa allora necessario spostare il piano del
discorso, ipotizzando contemporaneamente che il complottista stia già parlando
di quello che teme realmente. Semplicemente non corrisponde al suo discorso
manifesto. Chi è allora veramente il suo nemico? Quasi immancabilmente, di
fronte a persone complottiste, mi trovo a immaginare i bambini che sono stati,
i genitori che hanno avuto o le esperienze che hanno vissuto
con le figure di riferimento incontrate nella loro vita.
Inevitabilmente mi immagino abbiano vissuto situazioni che li hanno fatti
sentire inermi e impotenti dentro qualcosa che stava loro accadendo senza che
avessero gli strumenti per comprenderlo né tantomeno
per poterlo modificare. Condizione del resto inevitabile quando per una questione anagrafica e di
ruoli, per molti anni della propria vita si è realmente dipendenti dal contesto
nel quale si vive e dalle proprie figure di riferimento. E non è nemmeno così
rilevante che questo vissuto sia formato su un’esperienza reale o che invece
sia conseguenza di una rilettura a posteriori degli eventi. Quello
che fa la differenza è ciò che rimane depositato nella mente. Si
potrebbe obiettare che ognuno di noi ha sperimentato qualcosa di simile nel
corso della propria vita riuscendo a superarlo senza per questo diventare
complottista. Evidentemente solo per alcune persone con vulnerabilità
specifiche queste esperienze diventano punti di fissazione nei quali sarà
inevitabile tornare continuamente nel tentativo
di sperimentarsi diversamente da come ci si è sentiti in passato.
Pensiamo ora per un attimo agli elementi che ritroviamo in teorie del complotto come quella degli aderenti al gruppo Qanon. La loro idea è che il mondo sia dominato da una setta di pedofili bevitori di sangue umano che solamente Trump sarebbe in grado di sconfiggere. Non ho difficoltà a pensare che nel mondo esista un numero di pedofili superiore a quanto vorremmo credere. Mi chiedo però quanti di loro realisticamente si dissetino con sangue di bambino, oltre a essere membri di una setta per il dominio del mondo. Anche solo per una questione statistica, l’eventualità appare per lo meno trascurabile. Tuttavia, quale fantasia meglio incarna l’angoscia di trovarsi inermi sotto il controllo di un’entità spietata e misteriosa che sfrutta la propria posizione di potere se non quella di un adulto pedofilo, potente e malvagio che per il proprio interesse e piacere sessuale sfrutta i bambini fino a cannibalizzarli?
Come i deliri veri e propri, anche i deliri a bassa intensità sono dei tentativi di guarigione volti a placare l’angoscia generata da un mondo altrimenti vissuto come tiranneggiante e imprevedibile. L’organizzazione di una narrazione complottista dove tutti gli elementi trovano un posto, per quanto spaventosa possa sembrare, è meno angosciante di un sistema privo di senso e incontrollabile. L’illusione che crea il complotto è di poterlo combattere, smascherandolo e denunciandolo in primis e lottando poi per salvarsi sconfiggendolo. I guerrieri anti-complotto non sono più così dei bambini ingenui in balia di un potere esterno al quale non possono reagire. Ora fanno parte di una famiglia estesa, persone come loro al fianco delle quali combattono il grande nemico occulto.
È dunque inutile discutere con un complottista dell’infondatezza del suo racconto poiché egli in realtà fa riferimento ad un discorso invisibile. È proprio lo strabismo tra discorso manifesto e discorso inconscio a rendere questi deliri a bassa intensità compatti e inattaccabili. I complottisti sostanzialmente combattono la propria guerra nel campo sbagliato senza averne percezione, convinti di avere di fronte quello che considerano il proprio nemico mentre in realtà esso si trova alle loro spalle.
articolo molto interessante, inquadra in maniera delicata ma acuta la psicologia dei complottisti, favorendo uno sguardo di comprensione che va oltre il mero e facile giudizio su un fenomeno attuale e tristemente dilagante, in particolare in questo tempo di pandemia.
da approfondire