Vivo con mio figlio da sempre. Il piccolo appartamento in cui viviamo insieme da sempre è o deve apparire, agli occhi di mio figlio, come una pietrificazione del mio ventre da cui non è mai veramente riuscito a uscire e nascere, un ventre architettonico la cui apertura, la cui possibilità perenne di essere abbandonato è la più ingannevole delle trappole. Una pietrificazione del mio ventre ovvero di ciò che in mio figlio corrisponde a quel che lui pensa quando dice anzi quando grida mamma. Per me è la stessa cosa, non si creda: vivo da così tanto con mio figlio senza che lui, sono la prima ad ammetterlo, senza che lui sia mai sul serio veramente nato, andando e venendo da questo minuscolo appartamento al settimo piano di una torre grigia di vetro e cemento di una città di cui nessuno di noi due riesce più nemmeno a ricordare il nome, è da così tanto tempo che vivo con questo non-nato, come nei vecchi film del terrore che guardavamo insieme quando ancora non aveva cominciato a gridare “mamma” a due centimetri dal mio viso con una voce così forte da sembrarmi a volte il barrito di un elefante di una guerra africana, è da così tanto tempo un non-nato che dalle sue membra bianchicce e non-nate si è condensato un fantasma, e questo fantasma ciò che io penso quando dico “figlio”. I due fantasmi, ciò che lui pensa quando dice o più spesso grida “mamma” e ciò che io penso quando dico “figlio”, duettano vecchie arie di Mozart accompagnate da gridi di vento sopra uno stagno come nel più pacchiano dei film dell’orrore che io e mio figlio guardavamo insieme ogni sera e che ora non esistono più, anche loro riassorbiti per sempre in un altro Eden o un’altra Apocalisse.
Ogni giorno, fin dal momento in cui si alza, mio figlio inizia a gridare contro di me, avvicinando la sua faccia alla mia e urlando così forte che da tempo faccio fatica a separare le sue urla dai consueti pensieri che solevano abitare la mia testa, da tempo anzi mi è del tutto impossibile non pensare alla voce di mio figlio che urla come a qualcosa di consueto e come dire domestico. Mio figlio grida che non gli ho mai voluto bene dato che ogni volta che sua sorella anzi mia sorella – ecco senza che nemmeno lo volessi un esempio di ciò che mi sta succedendo da quando mio figlio ha cominciato a urlare contro di me, mio figlio urla da così tanto tempo che spessissimo mi capita di dimenticare o tralasciare quelle che dovrebbero essere le più banali differenze tra me e lui, come per esempio di quale sorella sto parlando, se della mia o della sua, ma è mia sorella quella che viene a trovarmi e ogni volta finisce per portarsi via dei soldi, fa sempre così, i suoi occhi perquisiscono la casa come la sottile appiccicosa e lunghissima lingua del formichiere, e quando torna dalle sue perlustrazioni invisibili tra le pagine dei libri, dietro i cassetti e sotto i listelli smosse del parquet, nei larghi fori dell’anima del pianoforte rotto di quando studiavo e ristudiavo l’aria della Regina della Notte dal Flauto magico, quando la spirale appiccicosa dello sguardo di mia sorella rientra come dire nelle pupille, è come se in quelle pupille si riarrotolasse un lunghissimo raggio spiritrombico tutto appiccicato di banconote e monetine della cui esistenza io e di conseguenza anche mio figlio ci eravamo dimenticati, per questo non capisco perché debba gridare e soprattutto perché debba gridare che non gli ho mai voluto bene. A me che sono, come del resto mio figlio non si stanca mai di ricordarmi, dall’alba quando si sveglia fino a quando ubriaco la sera si addormenta gridando nel sonno, sua madre. ——- [3593]. Mia sorella non si alza mai dalla poltroncina della mia camera, tutte le volte che viene a visitarmi e a perquisirmi con le sue pupille numismovore si siede sempre nella poltroncina rosa Tiepolo che ho sistemato in camera mia, di modo che per parlarle io devo sedermi sul letto, e alla fine della visita e della perquisizione sono ormai sdraiata a letto come una moribonda, stremata, mentre mio figlio urla nell’altra stanza, che oltre al bagno è l’unica altra stanza del microscopico appartamento al settimo piano di una torre grigia di tredici piani di vetro e cemento, un appartamento così piccolo che devono averlo costruito giusto un secondo dopo il big bang, quando lo spazio era quello che era, così ha detto mia sorella l’ultima volta che ha fatto la sua perquisizione. La stanza dove mio figlio si incastra per dormire o urlare quando mia sorella viene per le sue visite è anche la nostra cucina e la nostra sala da pranzo, per cui mio figlio deve dormire su un divano letto, con i piedi nella minestra e la testa sul giradischi, anche se a volte quando torna a casa ubriaco mi entra sotto le coperte quasi sollevandole col fiato puzzolente, e a furia di sgomitare e di spingermi con le ginocchia e i palmi delle mani e persino la nuca finisce per buttarmi fuori dal letto gridandomi nel sonno, completamente ubriaco, gridandomi di lasciarlo in pace, continua a gridarmi di lasciarlo in pace anche quando per tirare il fiato e riprendermi da tutto quello spingere mi accascio per qualche minuto su quella stessa poltroncina rosa Tiepolo su cui si accoccola mia sorella quando viene a trovarmi e a cercare i soldi dimenticati su cui io e mio figlio siamo seduti come draghi smemorati, ma Wagner del resto chi se lo ricorda più. Io sono semplicemente seduta sulla poltroncina rosa Tiepolo senza muovere un muscolo come una bambolina di ceramica e tirando il fiato dopo tutto quello scalciare e sgomitare con cui mio figlio mi ha buttato fuori dal letto, e proprio quando sto per assopirmi sulla poltroncina rosa Tiepolo dalla quale mi rialzerò con la schiena spezzata in due mio figlio, con quella infernale telepatia che lega la mamma al suo bambino e che mio figlio come forse ogni figlio ha da sempre usato sempre e solo per darmi nuova pena, mio figlio rompe il mio sonno e comincia a urlarmi di lasciarlo in pace, urla “pace” come se sulla poltroncina rosa Tiepolo talmente piccola che ci possiamo stare giusto io o mia sorella quando viene ad esigere il suo tributo e a eseguire i suoi giochi di prestigio nel nostro appartamento, cavando soldi sui soldi dai punti più impensati, tanto che a volte mi dico che finirà anche per tirarmi fuori un soldino da dietro le orecchie, ecco che sto giusto addormentandomi in quella poltroncina da casa di bambola quando mio figlio intercettando con sensibilità sopraffina l’esatto momento in cui iniziano i pensieri a farsi sogni comincia a urlarmi sempre dormendo, lui, si mette letteralmente a strillare che lo si lasci in “pace”, urla “pace” come se sulla poltroncina rosa Tiepolo ci fosse seduta non sua madre o ciò che lui pensa quando mi grida “mamma”, bensì un arcidiavolo o un fantasma, magari lo spettro di chi abitava qui prima di noi, mio figlio mi grida “basta”, “vattene” e “pace” come se fossi uno spettro strisciato fuori da sotto una bara piena di vermi e di ossa. Alla fine me ne vado, lo stomaco e tutto il corpo pesto e dolorante per tutto quello scalciare e quello sgomitare, uguale identico a quando ancora portavo mio figlio dentro di me, di modo che uno potrebbe anche dire e infatti l’ho già detto che mio figlio è sempre rimasto un non-nato nascosto nelle mie viscere, non fosse che poi ogni volta che mio figlio torna a casa ubriaco e si mette a gridarmi di lasciarlo in pace dopo essersi infilato nel mio letto finisce sempre che devo andarmene e lasciare il letto al non-nato. A parte me quando mi ci accascio per riprendere fiato dopo le aggressioni di mio figlio ubriaco, mia sorella è l’unica a sedersi sulla poltrona rosa Tiepolo che ho sistemato nella mia camera e che c’era già quando ci siamo trasferiti qui, un avanzo del mobilio della persona che abitava qui prima di noi e che proprio qui, nella camera dove dormo di solito sempre che mio figlio tornando a casa ubriaco non mi butti giù dal letto a calci come fossi un ratto schifoso, proprio qui è stata trovata morta, con gli insetti. Quando viene a farmi visita mia sorella comincia sempre esaminando il pavimento, frugandolo coi guizzi serpentini delle sue pupille, e quasi sempre finisce per individuare uno o due di quegli strani insetti che vivono nel nostro appartamento, io e mio figlio ormai nemmeno li notiamo più ma la prima volta che sollevando una calza rimasta in terra chissà da quanto ne ho sorpresi due o tre ricordo di aver pensato di non aver mai visto niente del genere, non ho mai visto altrove che qui (non che mi possa dire un’esperta di insetti né tantomeno di animali, l’unico animale che abbia mai avuto era il persiano nero ucciso dal cane di mio figlio, cane a propria volta ucciso da dei bocconi avvelenati che l’amministrazione della nostra città aveva seminato per le vie per uccidere gli scoiattoli e, ma la cosa naturalmente è più rara, le volpi. I bocconi avvelenati seminati per le vie dalla nostra amministrazione hanno quasi ucciso un bambino, e dopo questo fatto orribile l’amministrazione ha sospeso la semina di bocconi velenosi e cercato di recuperare quelli già posati, ma c’è chi dice che la paura di una nuova esplosione di nascite tra gli scoiattoli di Schwarzschwarz sia tale tra le alte sfere dell’amministrazione della città ma anche dell’intero stato che le operazioni di rimozione dei bocconi velenosi seminati per le vie dopo la prima epidemia viene fatta deliberatamente procedere a rilento. “Ho fame” grida mio figlio dopo che mia sorella se n’è andata via con le tasche piene di soldi miei dei quali non ricordavo nemmeno l’esistenza e che quindi è forse giusto vengano portati via a me e mio figlio. Da quando è nato mio figlio non fa che gridarmi di avere fame, il che prova che non ho mai saputo sfamarlo e non ho saputo insegnargli a parlare sufficientemente bene da dire o gridare qualcosa di diverso da “Ho fame”. Il modo in cui mia sorella trova in casa i soldi che nemmeno ricordo di aver mai guadagnato ha quella qualità televisiva di una gag di prestigiazione, quasi mi sembra di sentire il pubblico ridere da casa quando mia sorella solleva un centrino e ne pesca fuori una banconota da quattro soldi o quando trova delle monetine tra le patate, direi quasi che è un miracolo se non sapessi che dire che trovare soldi è un miracolo sarebbe una terribile bestemmia, forse non la più terribile ma di certo una delle più terribili, una di quelle da evitare ad ogni costo, perché chi bestemmia si danna, e anche solo soffermarcisi col pensiero più del dovuto rappresenta un eccesso di incertezza agli occhi di Dio, e in quei momenti, sprofondando perversamente, per il terrore stesso di bestemmiare, in nuove bestemmie, mi figuro questo che chiamiamo Dio come un colossale formichiere che con la sua lingua appiccicosa riesce a strisciare fin negli angoli più riposti delle nostre case, la notte.
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Mio figlio si è innamorato solo una volta: della donna nuda disegnata sulla carta L’estoile del mazzo di tarocchi di Marsiglia.
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Un non-nato, e perché no, chi non nasce in fin dei conti è meno infelice di chi è del tutto vivo. Un non-nato, come il piccolo feto di elefante, cereo nella formaldeide, che pareva riposare sulla mensola del laboratorio di scienze della scuola in cui ho studiato e in cui ha studiato anche mio figlio. Intorno al corpo bianco dell’elefantino sulla mensola c’erano anche barattoli, corpi e scheletri di altri animali, impagliati chissà poi perché in modo da avere un’espressione gaia.
Se provo a ricordare, non mi viene proprio in mente qual è stato il momento preciso in cui mio figlio ha cominciato a gridare contro di me. Se me lo chiedessero (ma per quella che non so perché tutti chiamano educazione nessuno me lo chiede mai, anche se mio figlio quando grida si sente di sicuro per le scale e negli appartamenti vicini al nostro, nessuno degli abitanti di questa torre mezzo rettangolare di vetro e cemento armato è mai venuto a sincerarsi che stessimo bene, non importa quanto urliamo io e mio figlio, una volta mi sono messa persino a gridare “Aiuto” da una delle grandi finestre quadrate del nostro appartamento, sporgendomi dalla torre come se tutto stesse andando in fiamme, ed ero ritornata quasi una bambina come quando ero in Congo. I neri come noi sono stati creati di giorno sotto il sole, mentre i bianchi sono stati creati dopo, durante la notte e sotto la luna, mi dicevano sempre quando ancora vivevo in Congo, una maestrina che tutti i giorni faceva il sentiero che portava alla scuola dove lavorava passando per i campi di vari villaggi, o forse sempre lo stesso villaggio. Era subito dopo le devastazioni dell’anno degli uragani, per cui tutti guardavano il cielo gesticolando come stregoni millenari o stavano sempre all’erta se poco poco gli sembrava fosse capitato quel qualcosa di sufficientemente insolito da essere considerato un “segno”, un segno, naturalmente, annunciante un uragano, un segno come per esempio una ragazza bianca, quasi una bambina, che per un anno tutti i giorni partiva a piedi dal villaggio in cui stava per andare in un altro villaggio dove c’era una scuola, e quando la ragazzina bianca si incamminava sul sentiero era subito un pandemonio di grida e gesticolazioni, come galline quando la faina entra nel pollaio, solo che qui le galline ovvero tutti i gli abitanti dei villaggi o dell’unico villaggio correvano verso la faina ovvero la maestrina che come tutti i giorni stava andando alla scuola del villaggio vicino, incamminandosi poco prima dell’alba per non essere sorpresa dal sole, e ogni volta tutti arrivavano gridando in una lingua che la ragazzina capiva a malapena, e fischiando e strillando e gesticolando circondavano la maestrina bianca come cotone, dicevano o “come cotone” io credo dicessero le donne che mi appoggiavano addosso le loro stoffe per vedere com’era chiara la mia pelle di maestrina per poi rimettersi a urlare. Seppi solo in seguito che in quei villaggi gli albini venivano catturati e tagliati a pezzi, e i loro pezzi di corpo trasformati in talismani. Ai bambini raccontavano storie terrificanti di demoni che raccoglievano i pezzi degli albini e li mettevano insieme fino a creare un corpo di albino che per ritornare in vita aveva bisogno della testa di un bambino da attaccarsi sul collo mozzo, ma io non ero un’albina.
Cerco sempre di svegliare mio figlio il più delicatamente possibile. Entro nel soggiorno dove lui dorme fino a tardi e mi siedo sul bordo del divano-letto dove lui è sdraiato e aspetto che lui apra gli occhi, ma non appena vede la mia sagoma seduta sul letto mio figlio comincia a urlare. Ogni volta mi dimentico che mio figlio si spaventa sempre moltissimo quando lo sveglio in questo modo, sedendomi sul bordo del divano-letto in salotto dove di solito, se non ha bevuto troppo, mio figlio si mette a dormire. Non scuoto né il letto né mio figlio, semplicemente mi siedo sul bordo del letto e aspetto che mio figlio apra gli occhi, e ogni volta non appena li apre mio figlio inizia a urlare. “Mi hai fatto morire di spavento”, mi grida poi mio figlio mentre passeggiamo sotto le candele e i vecchi lampioni di Waltzwaltz. Quando sono seduta sul bordo del divano-letto su cui dorme quasi sempre mio figlio resto sempre terrorizzata dalla grandezza del suo corpo, e una delle cose che penso più spesso mentre sono seduta accanto a mio figlio addormentato aspettando che si svegli, quello che penso guardando mio figlio che come tutti quando dorme rivela il suo volto di quand’era bambino, ecco lo guardo e mi chiedo ogni volta come sia potuto uscire da me un simile gigante senza squartarmi, mio figlio è un demone bianco gigantesco e addormentato che nessuno se non un altro gigante avrebbe potuto partorire, mai una piccola gracile maestrina bianca come me. Forse mio figlio non è che una maledizione che mi è stata fatta dagli stregoni quando in Congo avevo smesso di andare a lavorare nella scuola per imparare come si raccolgono le piante e si intagliano gli dèi, e per farlo tornare un bambino normale dovrei tornare in Congo e trovare la bambola fatta con i pezzi degli albini massacrati e farle bere il sangue di cui ha bisogno per tornare in vita. Mio figlio grida da così tanto tempo che le cose che mi dice mi sono entrate in testa come una musica e non possono né potranno mai più uscire, come mostri di prima del diluvio dalla pancia rotta di una bambolina. Le parole che mio figlio mi grida tutti i giorni mi sono entrate in testa come una vecchia ninna nanna, e quasi le canticchio tra me e me sotto la doccia; sotto l’acqua i capelli si allungano e si allungano e mi finiscono quasi sotto le ginocchia, ed è appunto lì sotto l’acqua della doccia, la pelle accartocciata dall’umidità, che più che mai sento la voce di mio figlio che grida, anche se naturalmente lui non è mai in bagno con me quando mi faccio la doccia, no, almeno in quel momento mi lascia tranquilla, ma sento sempre la sua voce che grida dentro di me, come non l’avessi mai partorito, il bambolotto albino, e quello si fosse a un certo punto messo a strillare, dentro di me. È nel mio cervello come un orso arrotolato nel letargo. Sento sempre dentro di me le grida del bambolotto e non riesco a fare altro che continuare a girare e rigirare nella mia immaginazione i suoi lamenti.
Anni fa mi ero infilata in un piccolo negozio di animali. Non entro mai nei negozi di animali, ma quel giorno era primavera, ed ero da poco tornata dall’Africa. In fondo alla piccola stanza ingombra di mangimi, gabbie e vaschette, in una piccola gabbia erano rinchiusi due scoiattoli. L’uno si era rintanato in una specie di lercio nido di festuche, e pareva cosa morta se non per le minuscole tenebre degli occhi, piccole tenebre che tremavano. L’altro correva freneticamente lungo le pareti della gabbia pizzicandone con gli artigli furibondi le sbarre sottili, facendola risuonare come una cetra ungherese, lo scoiattolo correva lungo le pareti della cetra così, pavimento parete soffitto parete pavimento e avanti daccapo di nuovo in quadrata circolazione (ecco cos’è una galera: girare in tondo in un quadrato), ininterrottamente. Era, anche quella, una musica? Chiesi alla donna il prezzo dei due prigionieri, chiesi se liberati sarebbero riusciti a sopravvivere. Non li acquistai però: quando me ne andai dal negozio lo scoiattolo non si era fermato; ed eccomi oggi per giusta vendetta dannata al medesimo destino di paralisi e cieco andirivieni.
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Chi dei due, tra me e mio figlio, è lo scoiattolo che corre, e chi quello pietrificato in un angolo?
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Il gatto respirava ancora quando la tempesta l’ha sbattuto dentro l’appartamento al settimo piano in cui io e mio figlio siamo venuti ad abitare dopo che mio marito, suo padre, è morto soffocato dal fumo di un incendio che lui stesso aveva provocato facendo bruciare i mozziconi e trucioli di matita dentro lo studiolo dove si incastrava a scribacchiare sui suoi quaderni. Avevo come sempre lasciato aperte le grandi finestre quadrate del nostro appartamento, e la tempesta era arrivata quasi con la stessa velocità delle onde africane, e quando la grandine si era abbattuta contro la facciata occidentale della torre a tredici piani in cui viviamo, come una schiuma gigantesca, riempiendo istantaneamente il nostro appartamento di chicchi di ghiaccio e mandando in frantumi i vetri dentro casa, gli specchi, le vetrinette e le tazze, di colpo era stato come se fossi tornata bambina sulle spiagge africane nell’anno degli uragani, era stato come se tutto in me fosse tornato piccino e acerbo, mio figlio risucchiato dentro di me e prosciugato dalla mia carne tornata verde e ridente e spietata. Mi ero tappata le orecchie e mi ero piegata in due mentre la grandine mi massacrava la schiena e la sabbia africana si faceva fango tra i miei piedi liberando antichi animali sepolti dentro di lei, giraffe morte, elefanti morti, giaguari, pipistrelli, serpenti, ragni grandi come gabbiani, tutti avvolti nel fango e come scoperchiati fin dentro la nostra casa dall’uragano, poi mio figlio era arrivato gridando dal corridoio che separa la mia camera dal soggiorno dove di solito dorme lui e aveva chiuso la grande finestra quadrata che aveva o avevo dimenticato aperta e mentre la grandine continuava a piovere furiosamente contro i vetri, correndo per così dire in orizzontale come un infinito scoiattolo albino contro la facciata occidentale del palazzo grigio al cui settimo piano viviamo io e mio figlio, un fiume di chicchi di ghiaccio largo come il fiume Congo e trasportato attraverso il cielo da un qualche demone occidentale fino a travolgere la facciata della torre rettangolare di vetro e cemento al cui settimo piano io e mio figlio siamo venuti ad abitare dopo che suo padre, mio marito, è morto travolto da un carroattrezzi mentre tornava da uno dei suoi giri in motocicletta che mi facevano sempre impazzire di gelosia, mio figlio aveva chiuso urlando la finestra della mia camera e contro la luce bianca della tempesta mio figlio mi era apparso come un’ombra nera, un dio-formichiere, un gigantesco negro da Via col vento, irreparabilmente sversato fuori di me come un demone di cenere. Partorito nel sole.
Il gatto era semisepolto da un cumulo di chicchi di grandine contro l’armadietto in cui conservo le ciotole di terracotta che avevo comprato insieme al padre di mio figlio all’aeroporto di Kinshasa dove eravamo andati in luna di miele. L’avevo liberato dal mucchio di chicchi di grandine in cui era sepolto mentre mio figlio mi gridava di lasciare stare quell’animale, di non toccarlo o mi sarei ammalata. Il gatto respirava ancora, ma non si muoveva. Non riuscivo a capire se mi vedesse e dopo un po’ avevo avvicinato l’orecchio alla sua bocca per capire se stesse miagolando, ma la grandine che continuava a precipitare in orizzontale contro i vetri della finestra ora chiusa della mia stanza copriva ogni rumore, persino mio figlio stava facendo fatica a farmi arrivare le sue grida attraverso quel frastuono. Il muso del gatto era tutto rovinato e sanguinante e ricordava quello di un pipistrello. Mi sembrava di sentire il suo fiato caldo e pietrificato intrufolarmisi nell’orecchio come per trovare un rifugio. Accolsi nell’orecchio l’anima del gatto, avrebbe abitato la caverna del mio orecchio per sempre, pensavo con l’orecchio appoggiato contro la bocca massacrata del gatto mentre mio figlio cercava di sovrastare il fracasso della grandine per gridarmi di staccarmi da quella bestia di merda. Chissà come trascinato fin nella nostra casa dal fiume volante portato da occidente sulle schiene di mille demoni pazzi di gioia. Mio figlio gridava che tutta quella grandine dentro casa era una catastrofe perché presto il ghiaccio si sarebbe sciolto, già si stavano allargando pozze d’acqua alla base dei mucchi di grandine più grandi, e mio figlio gridava che l’acqua avrebbe finito per filtrare sotto le assi di legno del pavimento, avrebbe fatto marcire il legno e poi il cemento e saremmo crollati nel piano di sotto. “Quello dell’avvocato?” Avevo chiesto io, e mio figlio si era messo a gridare ancora più forte, che non gli parlassi assolutamente mai più dell’avvocato che viveva al sesto piano, sotto di noi anche se non esattamente sotto di noi. L’avvocato occupava l’uno e l’altro appartamento del sesto piano che si trovavano a destra e a sinistra di quello esattamente sotto al nostro. Uno dei due appartamenti guardava ad ovest e a nord e l’avvocato lo usava come la propria casa o una delle proprie case, mentre l’altro che guardava a ovest e a sud era il suo studio, dove riceveva i clienti e dove a volte mi capitava di ritrovarmi soprapensiero a suonare e suonare il campanello fino a che l’avvocato non avesse aperto per chiedermi cosa volevo ovvero, nel caso l’avvocato non si trovasse in nessuno dei due appartamenti tra i quali si trovava quello esattamente sotto al nostro, ovvero finché mio figlio non avesse sceso di corsa le scale gridandomi di smetterla di suonare il campanello dell’avvocato perché, dato che il processo era bell’e finito e suo padre, mio marito, era ormai da tempo sottoterra, anche se mio figlio preferisce gridare “cibo per i vermi” quando parla di lui, dato che il processo era finito nel nulla, cibo per i vermi anch’esso, potevo anche suonare tutta una sinfonia artigliando il campanello dell’avvocato e non avrei ottenuto nemmeno una virgola di un cazzo di niente, così mi gridava mio figlio riportandomi dal sesto al settimo piano, tenendomi per un braccio come una mentecatta. Nessuno ha potuto appoggiare l’orecchio alla sua bocca come si fa con le conchiglie africane, questo è quello che vorrei dire all’avvocato. Da bambina mi sembrava sempre di riconoscere delle voci nel suono che si sente quando si appoggia l’orecchio a una conchiglia, non sentivo affatto il mare ma voci di persone che venivano dal mare, in piedi su delle lunghe canoe, e che avevano occhi ciechi di bambola messicana. Mi svegliavo di colpo, sdraiata sulla sabbia africana ormai trasformata in fango dalla marea, cercando di ricordare quello che gli uomini delle canoe mi avevano bisbigliato attraverso la conchiglia che le onde mentre dormivo mi avevano portato via. Ma nessuno ha potuto scendere nel gigantesco serbatoio di metallo che mio marito doveva pulire come ogni settimana e dove è morto soffocato per via dei gas rimasti sospesi. Forse lui stesso, mio marito, dentro quell’enorme bidone di metallo ha potuto sentire qualcosa, un’ombra almeno se non una voce della spiaggia africana, almeno un’orma nel fango degli uomini sulle canoe.
Anche dopo che mio figlio ne ha buttato via il corpo, ho continuato a sentire accoccolato dentro il mio orecchio il gatto che la tempesta aveva trascinato in aria e scaraventato attraverso la finestra quadrata di camera mia. Ne sento il movimento morbido, come un piccolo tappo per le orecchie, sento a volte le sue infinitesimali zampine premere contro questa o quella parete delle mie orecchie, lo sento giochettare e ruzzare quando mi ficco in un orecchio un cottonfioc dopo la doccia. “Dobbiamo buttare la grandine” gridava mio figlio, e nell’agitazione aveva preso una manciata di grandine e aperto la finestra per gettarla di sotto, dimenticando che la tempesta non era ancora passata, e così appena mio figlio aveva aperto la finestra una nuova ventata di grandine si era rovesciata nella camera colpendolo in pieno come in un ridolini di torte in faccia, così dovemmo aspettare che il vento cessasse mentre sotto i mucchi di grandine si allargavano pozze d’acqua sempre più larghe, e io e mio figlio eravamo stati capaci soltanto di aspettare che i mucchi di grandine finissero di sciogliersi, come due cavernicoli che non hanno mai visto il ghiaccio prima e hanno paura di avvicinarsi, casomai tutto quel bianco nascondesse una stregoneria. Ad un certo punto mi ero accorta che il gatto che la tempesta aveva forse strappato dal ramo di un albero su cui si era arrampicato, strappato dal ramo e rapito in cielo e infine scaraventato nella mia stanza attraverso la finestra che avevo lasciata aperta, il gatto era morto. Mio figlio mi gridava di metterlo giù, di mettere giù quello schifo perché era morto e forse malato. Molti anni prima, quando era ancora un bambino di undici anni, avevo sorpreso mio figlio a uccidere dei gatti, incitato da altri bambini. Vicino alla casa in cui abitavamo prima che suo padre, mio marito, si togliesse la vita, stavano allestendo un cantiere per cercare di rimuovere un quartiere di Waltzwaltz manifestatosi qualche mese prima e che a quanto sembrava era sul punto di “incancrenire” in una “stazione” “FIAT”. Gli altri bambini del quartiere si arrampicavano sui mucchi di ghiaia del cantiere di rimozione e usavano quella ghiaia e usavano anche mio figlio per uccidere i gatti. Li sotterravano nella ghiaia lasciandone fuori solo la testa, poi gridavano a mio figlio di lanciarsi con la sua bicicletta lungo tutto un breve percorso di teste di gatto che sbucavano dal terreno e che mio figlio avrebbe dovuto schiacciare con le ruote della sua bicicletta. Mio figlio era stato prescelto come campione di quel gioco perché anche allora era molto pesante per la sua età, e passando con la sua bicicletta sopra la testa dei gatti semisepolti riusciva quasi sempre a ucciderli immediatamente e a volte a sfigurarli in una maniera orribile, un orrore che per un qualche motivo affascinava tutti i bambini. Mio figlio, come avevo avuto modo io stesso di osservare la prima volta che lo avevo visto fare quel gioco, era stato certamente scelto anche per la sua destrezza con la bici, e spesso i bambini si divertivano a sotterrare i gatti in punti distanti tra loro e difficili da toccare con un solo percorso, e mio figlio stupiva gli altri bambini scendendo lungo il pendio di ghiaia con la bicicletta e riuscendo quasi sempre a spiaccicare le teste di tutti i gatti sotterrati senza mai toccare terra con i piedi, tenendosi talvolta in equilibrio sulla ruota davanti o sulla ruota dietro dopo aver schiacciato una delle teste dei gatti catturati e sepolti dagli altri bambini nella montagnola di terriccio del cantiere per lo smantellamento di una “stazione” di Waltzwaltz, mio figlio restava per un attimo in equilibrio su una delle due ruote e poi lasciava cadere l’altra proprio sopra la testa di un gatto che gli altri bambini avevano giudicato irraggiungibile. Quando mio figlio faceva quei movimenti la bicicletta si immobilizzava in posizioni che dal balcone da dove osservavo quei giochi sembravano del tutto impossibili, come sfasate rispetto alle linee e alla gravità del pianeta e appartenenti ad altre linee e altri pianeti ––– forse, mi dicevo osservando le facce degli amici di mio figlio mentre la ruota della sua bicicletta faceva uscire dall’orbita l’occhio di un gatto semisepolto, forse le linee e la forza di gravità cui mio figlio talvolta riusciva a sintonizzare la propria bicicletta durante la sua selvaggia cavalcata giù per la montagnola di terriccio in cui i suoi amici avevano semisepolto i gatti, forse quelle linee e quella forza di gravità che per un attimo sembravano sfasare la bicicletta di mio figlio dal resto del pianeta, forse erano linee e campi gravitazionali originati dal quartiere di Waltzwaltz e dal suo progressivo incistirsi in una delle “stazioni” dei “treni” “FIAT”. (NOTA: Non mancherà qui qualche lettore che, non iniziato alla meccanica dei nuovi quartieri di Waltzwaltz, troverà aberrante il comportamento della donna, che appare qui quale mero e persino algido osservatore di un gioco crudelissimo che per di più sembra essersi ripetuto diverse volte. In realtà è molto probabile – ma, il lettore ne sia avvisato, niente affatto certo – che tutta la cosa non sia stata che una visione indotta dal quartiere sulla signora e sui bambini, e che insomma quella mostruosa strage di gatti non fosse reale: il che spiegherebbe le esitazioni della donna a intervenire. Né del resto i bambini avrebbero mai dovuto trovarsi sul cumulo di ghiaia: i cantieri per lo smantellamento di quartieri di Waltzwaltz devono o dovrebbero essere costantemente sorvegliati, particolarmente se si sospetta l’imminente determinarsi di una “stazione”: resta infatti innegabile che, reale o no che fosse, il gioco fu e rimase per chi vi partecipò un’esperienza concreta e incontrovertibile, fonte per il resto della vita di eterno rimpianto o di catastrofica malattia nell’anima.) Come mio figlio mi aveva poi raccontato alcuni giorni dopo senza che io gli avessi detto nulla, il gioco era diventato un massacro di bestioline per gradi. Quando troppe persone stanno per troppo tempo insieme diventano più stupide e più cattive, fino a diventare come formiche, impegnate tutto il giorno a andare avanti e indietro portando chicchi di grano tra i denti. Quando si sta per troppo tempo tutti insieme, lo si voglia o no si finisce per diventare come formiche, e si vende la propria anima a un diavolo che in cambio te ne dà un’altra ma finta, solo che questa altra anima è molto più facile da controllare per il diavolo. perché è fatta di bugie e quindi è come se fosse la sua stessa figlia. Il trucco di questo demone è di non prendersi l’anima di un uomo tutta in una volta con tanto di contratto firmato col sangue come fanno i demoni più stupidi. Questo particolare demone prende l’anima di cui ha bisogno togliendo un pezzetto dall’anima di tante persone: che vuoi che sia un pezzetto di anima? E poi l’anima è così complicata che nemmeno ti accorgi che un diavolo più furbo degli altri te ne ha preso una briciolina non più grande di un’unghia –– eppure se ti strappassero un’unghia, che è infinitamente meno importante del più piccolo frammento della tua anima, te ne accorgeresti eccome; è così complicata che c’è persino chi considera un favore il fatto di liberarsi di un suo pezzetto. Questo demone fa come un mendicante che chiedendo a ciascuno una monetina riesce a guadagnarsi un pasto da re. E così un pezzettino per volta ti porta via tutto senza darti niente in cambio. È grazie a don Giorgio Giorgio se so che questo demone esiste. La prima volta che l’ho incontrato è stato in Africa – sia don Giorgio Giorgio che il demone mendicante. Quando poi ho visto di nuovo don Giorgio Giorgio qui, lontano dall’Africa, ho pensato che anche il demone mendicante non doveva essere lontano: come due nemici che non si allontanano mai l’uno dall’altro e non fanno che pensare l’uno all’altro. Questo demone mendicante, che sembra molto stupido e non conosce alcuna bellezza, e per questo nessuno ne parla, perché è di una noia e di uno squallore fetenti, questo demone mendicante ti porta via l’anima viene come dire sottratta a rate, e pagata con un’anima finta, non più grande di una formica. E così anche i bambini avevano fatto con le loro, di anime: all’inizio semplicemente portando del cibo ai gatti, fino a che uno dei bambini aveva pensato che attirandolo col cibo poteva acchiappare un gatto e tenerlo un po’ per giocarci come fosse un pupazzo… Un pezzetto di anima, e subito tutti gli altri bambini avevano dato il proprio, e di certo almeno in principio c’era stato qualche gattino venuto di propria spontanea volontà in braccio a uno dei bambini. Quando si sta troppo tempo tutti quanti insieme si è come su dei gradini consumati, e piano piano uno dopo l’altro li si scende tutti lo si voglia o no, se uno ne scende anche solo uno tutti gli altri prima o poi faranno lo stesso, e li si scenderà tutti. Tutti i bambini perciò avevano cominciato a usare il cibo per attirare i gatti e giocare con loro, fino a che a qualcuno non era venuto in mente di nascondere il cibo in punti difficili da raggiungere per i gatti, e poi di scavare dei buchi nel cumulo di terriccio del cantiere per lo smantellamento della “stazione” dei treni “FIAT”, e quando una volta un gatto, intrufolatosi nel buco scavato da uno dei bambini per recuperare una testa di pesce, muovendosi un po’ troppo aveva fatto franare la terra sopra di sé e per poco non era morto sepolto vivo con la testa di pesce tra i denti, il cibo era diventato solo un’esca per prendere i gatti e sotterrarli tenendo libera solo la loro testa, perché non rischiassero di soffocare come il primo, e poi osservare ridendo i movimenti di lombrichi gnaulanti con i quali gli animali si divincolavano dalla trappola, premiando con i bocconi migliori i primi e più valorosi a liberarsi, e allora il gioco era diventato pressare ben bene la terra intorno alla testolina degli animali in modo che la loro fuga fosse più difficile e quindi più interessante, fino a che a qualcuno non era venuto in mente di usare i piedi per pressare ancora meglio il terriccio intorno alle bestiole semisepolte, e poi una volta uno dei bambini pestando il terriccio con troppo entusiasmo aveva calpestato la testa di uno dei gatti intrappolati, uccidendolo, e la sua morte aveva provocato un tale spavento negli altri gatti che era stato come se il monticello di terriccio nel cantiere per l’estirpazione di un nuovo quartiere di Waltzwaltz fosse attraversato da una scossa elettrica di terrore felino, e i gatti intrappolati erano fuggiti come se fossero stati sparati fuori da una qualche contrazione polisfinterica del monticello di terriccio (NOTA: naturalmente, non va dimenticato che il terriccio di cui sta parlando la donna era molto probabilmente contaminato dal terreno di Waltzwaltz, sulla cui sensibilità ai fluidi organici esiste un’intera letteratura specialistica, che non infliggiamo al lettore: non ancora, almeno), il che aveva scatenato l’ilarità dei bambini, risate che sfuggivano di gola come serpi che si divincolano sul fuoco, e quando si ride della tortura di qualcuno è come se già lo si fosse ucciso, così diceva don Giorgio Giorgio per spiegarci perché era stato così importante che Gesù fosse stato reso ridicolo prima del supplizio, nelle sue prediche c’era sempre qualcuno che rideva… Il che naturalmente non vuol dire che Gesù fosse un gatto.
Una seconda volta i gatti erano stati seppelliti pressando la terra con tale forza che era come se il monticello di terriccio fosse diventato un’escrescenza muscolare in massima tensione per impedire agli animali di divincolarsi dalle sue fasce (v. supra: né escludiamo che il cumulo di terra stesse forseparassitizzando i bambini per farsi portare dei gatti in sacrificio). I gatti non riuscivano a liberarsi, ed era quasi come se anche loro aspettassero il momento in cui uno di loro sarebbe stato schiacciato dalla pedata di uno di noi, in modo che il terrore e il sangue innescassero l’esplosione felina del monticello di terriccio e ghiaia.
Le pozze lasciate dalla grandine la sera che ho dimenticato aperta la finestra di camera mia è come se non si fossero mai asciugate del tutto, esattamente come mi aveva gridato mio figlio quando si era precipitato nella stanza per chiudere la finestra. Ancora il giorno dopo dagli interstizi tra un listello e l’altro uscivano delle bollicine d’aria fradicia. Era stato per via degli insetti che noi famiglie del condominio ci eravamo accorti che la donna che viveva nell’appartamento esattamente sotto quello mio e di mio figlio, tra lo studio e l’appartamento dell’avvocato, era morta. In realtà nessuna delle persone che aveva l’appartamento vicino a quello della nonna morta sapeva nulla di insetti, quindi è possibilissimo che quei cosini bianchi che nessuno aveva mai visto prima da nessun’altra parte non avessero nulla a che fare con la morte della donna che viveva sotto di noi. Ma era stato per via degli insetti che alla fine avevamo bussato all’appartamento della donna. Aveva fatto insonorizzare la stanza che si trovava proprio sotto la mia per poter ascoltare e cantare l’aria della Regina della Notte dal Flauto magico di Mozart, non faceva che ascoltare e cantare quella musica (nessuna delle persone che abitano i tredici piani di questo condominio di cemento grigio che sovrasta ogni casa del circondario e dalle cui finestre occidentali si riescono a vedere le montagne di là dalla pianura e talvolta persino i grandi falò del quartiere montano di Schwarzschwarz, e quando l’aria è particolarmente tersa come ad esempio dopo la grandinata che ha rischiato di allagare l’appartamento in cui io e mio figlio viviamo da quando suo padre, mio marito, è stato ucciso nel box dei cavalli dai calci di un animale imbizzarrito, ci sono momenti, se oltre all’aria tersa il traffico è anche silenzioso, in cui sembra di sentire cantare le donne di Schwarzschwarz, ma se lo dico, che mi sembra di sentir cantare quelle maledette puttane, subito mio figlio scatta in piedi e comincia a gridare e a chiudere tutte le finestre, grida che guardare dalla finestra mi fa male, che non ci sono né montagne né falò né donne che cantano, ma io lo so che dice così perché come tutti in questa città e in qualsiasi altra città della nazione mio figlio è terrorizzato da Schwarzschwarz e i suoi quartieri, i suoi falò, le sue donne, e chi non lo sarebbe, ma far finta che Schwarzschwarz non esista è peggio che averne paura. La stanza della donna che abita proprio sotto di me era insonorizzata e forse è anche per questo che nessuno di noi, né io né mio figlio né la famiglia di cinesi che vive sotto l’appartamento dove è morta la donna, né l’avvocato né nessuno dei suoi clienti – eccetto un cane che un giorno si era messo ad abbaiare alla porta della signora che vive sotto di noi, abbaiando e rinculando impaurito, lo sguardo rivolto in alto, allo spioncino della porta – nessuno aveva sentito il puzzo del suo corpo morto. Gli insetti bianchi erano dappertutto; per forma e dimensioni ricordano dei chicchi di riso, solo di forma più allungata a schiacciata, tanto che gli insetti dentro l’appartamento della signora che ormai stavano colonizzando anche il nostro appartamento riuscivano perfino a infilarsi tra le pagine dei libri, e chissà che quelle bollicine che ancora molto dopo la tempesta di grandine continuavano a affiorare tra le commessure del parquet non fossero nidi di quelle bestioline finite annegate. Ma anche molto tempo prima della tempesta di grandine gli insetti bianchi avevano cominciato a sbucare ovvero filtrare di tra le assi del parquet. Erano, io ormai lo sapevo, come tutte le creature bianche della terra, erano nati nella tenebra, e spaventati dalla luce, e questo serva di avvertimento per chi non sa che sono i diavoli quelli che andrebbero raffigurati come pipistrelli albini, mentre gli angeli dovrebbero apparire neri, bruciati dal sole, le penne del colore di quelle dell’aquila. Scoperti, gli insetti si appiattivano subito tra le assi del parquet di dove erano strisciati fuori, o si affrettavano verso qualunque fessura, sotto gli armadi, sotto le scarpe, le borse, qualsiasi cosa fosse appoggiata in terra, basta sollevare una delle centinaia di cose che sia io che mio figlio lasciamo in terra qua e là nell’appartamento, per trovarci sotto almeno uno di quegli esseri. Se spiaccicati, lasciando una linea granulosa e grigia, un po’ come le falene morte che si accumulano dentro i lucernari. Anche dal terreno dove un tempo c’era la falegnameria industriale lavorando per la quale mio marito è morto, capita che sbuchino insetti che nessuno ha mai visto altrove, e che secondo molti sono il risultato di una gravissima contaminazione del terreno e di chissà che altro da parte della falegnameria, contaminazione della quale la falegnameria ha deciso di infischiarsene, dichiarando bancarotta e svanendo nel nulla come uno spettro, lasciando solo tutti quegli insetti che sbucano dal terreno e che, se uno non fa attenzione, dal terreno passano direttamente all’interno del corpo di chi su quel terreno è seduto, cosa che capita piuttosto spesso dato che il parco su cui un tempo sorgeva la falegnameria in cui mio marito è morto maciullato da una lama circolare viene oggi usato per ospitare concerti e spettacoli cui la gente può assistere restando seduta o sdraiata sul prato, per accorgersi solo qualche giorno dopo di una come dire “sensazione” sottopelle che in breve dilaga per tutto il corpo, e sono gli insetti che vivono nel terreno dove un tempo si trovavano i locali della falegnameria in cui si trattava in modo clandestino legname contaminato dai “quartieri”. Quegli insetti, che nessuno ha mai visto prima altrove e il cui comportamento è pertanto del tutto imprevedibile, sembrano non fare distinzione tra il terreno e il corpo che vi è seduto sopra, e chissà se fosse qui don Giorgio Giorgio che bella predica farebbe sulla carne che torna alla terra e che è sempre stata terra, l’insetto bianco da un certo punto di vista coglie nel segno, perché dovremmo poi fare distinzione tra noi e il terreno su cui siamo seduti? e perciò quei misteriosi insetti, forse risultato della grave contaminazione del terreno da parte delle mai dimostrate operazioni illegali falegnameria, colonizzano il corpo esattamente come fosse del terreno, scavando gallerie sottopelle e trasformando le persone in delle specie di formicai ambulanti.
A volte il mio povero marito mi appare in sogno. Non sempre riesco a riconoscerlo, e capita che mi renda conto che si trattava di lui soltanto dopo che mi sono risvegliata. Questo perché ogni volta che compare nei miei sogni mio marito è sempre ricoperto da una folta pelliccia, la sua faccia nascosta da una barba e da dei capelli lunghissimi. A volte lo riconosco e carezzo con affetto le ciocche di pelo che gli ricoprono il corpo rendendone invisibile la pelle. La trasformazione in animale lo ha reso da tempo incapace di parlare, e credo abbia dimenticato di essere stato, in un tempo lontano, un essere umano. Viene da me così come potrebbe fare un cane, e senza davvero amarmi. Quando mi risveglio mi sento anch’io nient’altro che un cane, e vorrei uscire di casa e iniziare una vita randagia, magari arrivare fino ai falò di Schwarzschwarz che in sere eccezionalmente limpide mi capita di vedere dalla mia finestra, e diventare anch’io una di loro e cantare anch’io come una Regina della Notte, così magari finalmente smetterò di sentire la voce di mio figlio che grida le sue lamentazioni, un grido che ormai ha messo radici nel mio cervello, tanto che non riesco più a distinguerlo dai miei stessi pensieri e persino dalla mia stessa carne, ma non è appunto così che dev’essere tra una madre e il proprio bambino?
[continua l’11 giugno]