I movimenti compiuti durante la nostra giornata, saltuariamente o spesso ma sempre per caso, automatismo e sbadataggine, subiscono nello sport una forte formalizzazione. Allo stesso modo che nel rito i gesti vengono isolati, raffinati e quasi trasfigurati cosicché conservano della realtà solo la memoria del calco. Già il riquadro del ring, il diamante o il rettangolo verde d’un prato ritagliano una dimensione separata, dove deve avvenire qualcos’altro dalla vita volgare. Non tutti gli sport comunque dimostrano il medesimo grado di formalizzazione. Il calcio pare, per esempio, più democratico: si può far gol in mille maniere diverse, con suprema eleganza o goffaggine di parti anatomiche vili, e anche la parata, altro momento decisivo e come staccato dal gioco, può darsi nel supremo volo d’angelo o secondo l’istinto sgherro d’un qualsiasi contorcimento. I protagonisti stessi possono essere bassi, alti, dritti, storti, lenti, rapidi, magri, grassi. Tuttavia in altri sport la realtà entra con i suoi spigoli in una specie di macchina da stile che deve restituire una forma impeccabile: in base a tali figure canonizzate s’esprime il punteggio dei giudici sulla performance di tuffatori e ginnasti.
Proprio prendendo a termine comune regole formali Raffele La Capria, atleta e scrittore, ha istituito in Letteratura e salti mortali un articolato confronto tra la specialità dei tuffi dal trampolino e il maneggio della penna. Per esempio si proclama grande ammiratore del salto mortale e mezzo in avanti carpiato con avvitamento dal trampolino di tre metri che “è ambiguo e complicato da eseguire perché nel suo svolgimento si compiono in aria due rotazioni, una in avanti col salto mortale e mezzo carpiato, e una del corpo che si avvita su se stesso in un giro completo”. Dopo aver descritto il compito del tuffatore, la forma fa transitare La Capria alla realtà (“una serie di guizzi di tutto il corpo nell’aria paragonabile alla bellezza naturale del salto del delfino, o quello del salmone sulla rapida”) e quindi alla letteratura:
E c’è in questo tuffo una particolare qualità perché nasce da un’apparente disarmonia, da una complicazione dominata proprio nel momento in cui sembra assecondata.
Così, con questa doppia rotazione interna mi sarebbe piaciuto costruire un romanzo breve o un racconto, quella stessa doppia rotazione che trovai nella struttura di Il giro di vite di Henry James, da me tanto ammirato. Il tuffo che ho detto, malgrado i miei tentativi, non sono mai riuscito a eseguirlo, ed è per questo forse che mi esercito ancora, in letteratura, a inseguire una figura dello stesso tipo.
La forma del tuffo olimpionico viene scomposta in tre fasi: il salto – il più possibile in alto dal trampolino, momento del rischio -, la figurazione aerea sullo sfondo del cielo, la presa d’acqua senza spruzzi, in cui lo sportivo s’assimila alla superficie liquida e sente sulla pelle lo scivolamento che rappresenta la vittoria. La scomposizione è ovviamente pretestuosa, perché tutto si snoda in un solo gesto unitario; uno sviluppo gestaltico che ancora una volta s’apparenta all’insieme organico dell’opera letteraria, scalcata soltanto dalla scepsi critica e non dalla lettura per piacere. Lo slancio iniziale verso l’alto viene paragonato all’ispirazione originaria, che deve reggere fino alla chiusa (l’entrata in acqua), nella quale si conclude con coerenza ai mezzi utilizzati.
Sembreremmo assistere stupiti al trionfo della tecnica dispiegata secondo regole ben definite. Eppure la prova e riprova dei gesti che compongono l’oliatissima figura devono poi, durante l’esibizione, lasciare il posto ad un’apparente facilità. L’allenatore del giovane La Capria raccomandava “souplesse”. Ciò che occulta illusionisticamente il diligente addestramento canino e discende dalla profonda concentrazione dell’omino solo lassù, in cima allo stecchino provato flessibile, in mezzo al cielo, che scatena quindi l’azione fulminea. Quel pensiero volteggiante che noi profani possiamo cogliere soltanto grazie au ralenti.
La bellezza non sta quindi nella forza fisica esplosiva, nella mera tecnica che tocca in volo tutti i punti prescritti, quanto nell’anima del tuffo. La forma è, secondo La Capria, qualcosa di animato dalla grazia. Pertanto è anche semplice, poiché il lambiccato sa d’un eccesso d’abilità, di cucina inutilmente allappante il palato. Il narcisismo pervade sì il prima, il dopo, e anche, sotto coscienza, il durante del tuffo, ma è quello distante del semidivino. La Capria confessa d’aver cercato gli sguardi ammirati, vezzeggianti, che lo facevano sentire “un piccolo dio”; eppure ripete anche che la bellezza del tuffo s’inscrive sempre nella possibilità del fallimento. Il rischio, di cui si parlava prima, riporta alla dimensione umana: il dio non sbaglia ed esce dall’acqua grondando indifferenza. L’hybris di chi ha sublimato una forma denuncia ancora tutta l’umanità dell’artefice e della forma stessa.
Hai ben ragione tu! Non turbare
di ubbie il sorridente presente.
La tua gaiezza impegna già il futuro
ed un crollar di spalle
dirocca i fortilizi
del tuo domani oscuro.
T’alzi e t’avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo s’incide
contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t’abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t’afferra.
Ti guardiamo noi, della razza
di chi rimane a terra.
Leggendo L’elogio degli uccelli, più che l’ode A un vincitore nel pallone, si percepisce quanto Leopardi stimasse il movimento quale simbolo di vitalità e di gioia; forse le sue giovani eroine avrebbero dovuto fare un po’ più di sport. Una Silvia, che invece di filare perennemente in casa come Penelope, girasse per le colline in shorts, rapida e fuggitiva, potrebbe fare inorridire molti, eppure chissà se Esterina, più moderna silfide sopra ritratta, non potrebbe insegnarle qualcosa. Anche la ragazza della poesia montaliana è, fin dal primo verso, minacciata dai vent’anni, “una grigiorosea nube/ che a poco a poco in sé ti chiude” (Falsetto, vv. 2-3). Un’età di privilegio e di sofferenza che, soprattutto, si sente al tempo stesso gabbia dorata e lampo che svanisce. Una bolla d’eternità apparente di chi sta sulla cima di un qualche monte ed è pure affiancato da due crinali che divallano.
Rotolare dalla vetta, ancor lentamente, sotto la pressione delle nuove, incalzanti generazioni, proprio come nello sport sempre più acerbo nei talenti. E, al modo delle sorelle leopardiane, andare incontro alle fatiche e preoccupazioni dell’adulto, le inevitabili disillusioni, la banalità d’un matrimonio e d’una famiglia, tutto l’insieme che costituisce la morte novecentesca. Ma Esterina riconquista l’istante, l’eternità della precipitevole giovinezza con pochi gesti. Dopo essersi consegnata immobile al sole, s’alza dallo scoglio, scrolla le spalle con un sorrisetto di distacco e di plenitudine scuotendo via scagliette di pietra, dubbi e l’ombra stessa. S’avvia lungo il piccolo pontile, dove tra i faraglioni s’insinua verde e spumoso il mare, e ricama la figura del tuffo. Un ultimo breve pensiero, ancora il riso che coincide col salto e poi l’incontro con il complice elemento. Forma d’aria, amica dell’acqua, squaderna, sotto lo sguardo nostalgico dei terricoli, la divinità possibile all’uomo, quella dei vent’anni.
Finora ci siamo aggirati nella dimensione tecnicamente ineccepibile del tuffo, quasi olimpico come di Luganis o Tania Cagnotto, animata da spirito semidivino, ma sapendo che di questa figura si può appropriare chiunque, con l’atteggiamento sgraziato eppur necessario della quotidianità. Nei film i personaggi si gettano di lato per schivare treni, automobili, tram, tori, pallottole, cariche nemiche, o placcano salvifici la donzella, l’amico sottoposti a medesimo pericolo. Ancora un tuffo per scavalcare la linea, arrivare prima aldilà del confine, nel campo della salvezza: oltre la soglia extraterritoriale di una chiesa, d’un muro divisorio tra est e ovest, tra la terra e il ponte d’una nave che porta lontano. Addirittura la porta per la realtà parallela, che Neo e gli altri resistenti cercano sempre, come palle dalle carambole imprevedibili, di raggiungere in Matrix per sfuggire alle macchine in doppio petto grigio. Il barattiere del XXII canto dell’Inferno, capace di sfuggire alle capriole volanti di Alichino e degli altri Angeli ribelli di liciniana memoria, ci restituisce l’esplosività terrestre del tuffo, fatta di colpo d’occhio, catapulta dei garretti e premura di conservar la pelle:
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, ed in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.
Si apre a questo punto l’affascinante ventaglio dei nascondigli che accolgono il tuffatore. Non molto invitanti invero nell’Inferno: la pece bollente dove affondano i barattieri, simile alla palude degli iracondi dove vuole inabissarsi Filippo Argenti (VII) e in parte al sangue bollente (XII) o alla broda di sterco (XVIII) sono luoghi di pena e, ugualmente, di riparo a peggiori tormenti. Certo, se finora la forma del tuffo, appartenendo alla bellezza e all’elevazione, spartiva con l’aria qualcosa di semidivino, ultraterreno appunto, al momento dell’entrata in acqua il corpo potrebbe anche scomparire per sempre. Si trattiene il fiato infatti nella risalita, sia da parte di chi si butta dalla roccia, sia da parte di chi lo ammira. Quando poi la sostanza nella quale termina la forma si fa più vischiosa, o addirittura è la terra stessa, il contatto avviene con una dimensione infera.
Sottoterra si trova un mondo sconosciuto. Ciò che non deve essere scoperto, semplice via di fuga per latitanti o di commercio e contrabbando per i reclusi di Gaza, o luogo di riti catacombali avversi alla luce. Così il più duraturo tra i romanzi di Salgari nella mia memoria d’infanzia resta I misteri della jungla nera, causa l’albero cavo da cui si raggiungono i sotterranei dove la sanguinaria setta degli strangolatori, i Thugs, celebra riti sacrificali in onore della dea Kalì. Avendo spesso tra le mani antologie scolastiche ho potuto constatare un fascino perdurante: Salgari è sempre selezionato tra i testi d’avventura e molto spesso il brano con Tremal-Naik che, percorsi i tenebrosi cunicoli, spia infine la grande sala dei riti illuminata dalle torce, viene preferita all’interno di una produzione sterminata. La letteratura popolare, a partire forse da I miserabili di Victor Hugo, ha lanciato nell’immaginario collettivo i sotterranei, che hanno fatto più tardi lega con l’idea di marginalità sociale o individuale, coatta o ricercata, dall’Uomo del sottosuolo di Dostoevskij a I sotterranei di Kerouac, dando luogo alla metafora dell’underground e relativo filone ribellistico. Il cosiddetto postmoderno s’è appropriato poi di tali luoghi fisici – memorabili i sotterranei della metropoli dove si muove Benny Profane in V di Thomas Pynchon –, trasformandoli però soprattutto nella versione metaforica del complotto occulto e della paranoia. Sia il potere che da dietro le quinte tutto controlla (Burroghs, Dick), e con i suoi apparati deviati condiziona gli eventi storici (l’attentato a Kennedy in Libra di De Lillo), o, per contro, sia una fantomatica resistenza (il Tristero dell’Incanto del lotto 49 sempre di Pynchon), o ancora una setta mitomane che semplicemente crede di governare di nascosto le sorti del mondo lungo i secoli, come nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, si diffonde a rendere ferrea eppur porosa la realtà alla ricerca del varco temporale dove tuffarsi.
In stanze segrete di detenzione e di tortura si può precipitare tramite una botola e forse di qui deriva l’inquietudine di Alice, anche se all’inizio si limita a seguire il Coniglio bianco nella sua tana; e però cade, cade, cade in un profondissimo cunicolo onirico, verso stanzette graziosamente arredate che si aprono, attraverso porticine, su altri corridoi, e addirittura su un giardino incomprensibile là sotto. Un mondo parallelo lo racconta in prima persona Pepe el Tira, anche se il lettore solo dopo parecchie pagine de Il gaucho insostenibile capisce che quel poliziotto inventato dal genio di Roberto Bolaño è un topo e traduce allora il suo disagio senza nome per i viscidi vagabondaggi delle indagini in schifo sublime. Ecco, la fantascienza ci insegna che nelle viscere della terra si possono costruire città e può allignare una civiltà dalle dubbie intenzioni, magari pronta un giorno, agli ordini dell’Uomo Talpa, a riversarsi cieca e inarrestabile in superficie.
Il tuffo insomma, laddove chiude la sua forma, può mettere in comunicazione con le regioni misteriose del sogno, come sprofondare nello spruzzo blu d’un quadro di Mirò. Oppure può virare in una realtà d’incubo: la terra resa un cumulo di macerie senza fine a causa di un conflitto nucleare, ora oleografata da una macchina dominante chiamata Matrix. Dunque inutile nasconderselo, il disagio, l’incubo che grava sul tuffatore quando non ricompare a galla e sulla forma inghiottita fuori dalla vista, ha a che fare certissimamente con la morte. Quando si spacca la terra per il tremuoto e il carro di Ade, signore delle tenebre, salta fuori a rapire Proserpina, un soffio gelido e ripugnante sale da dentro. Chi ha compiuto la forma, mescolandosi anche solo per un attimo con il luogo invisibile, nel momento che torna in superficie ha su di sé uno stigma di contaminazione.