Era così strano quel vuoto di prospettiva, quella mancanza improvvisa di tutte le previsioni fatte, da lì all’infinito. Vestitini, peluche, primi passi e prime scuole, crescita, amori, via da casa, una nuova vita… c’era già tutto, dentro il suo crescermi dentro. C’era una vita in potenza che io davo per scontato si sarebbe srotolata senza problemi, una volta che il mio secondo bambino avesse lasciato il mio corpo. E invece il mio corpo stesso l’aveva eliminato. Qualcosa non andava in lui. O non andava in me. “Non si sa perché, non si sa come accade…”.
Era accaduto durante una passeggiata in un mercato di Damasco, in mezzo al frastuono del quartiere popolare, mentre mi godevo una piccola salita circondata da botteghe artigianali. Ho sentito un malessere indefinibile e una stanchezza improvvisa. Mi sono dovuta sedere su un gradino, all’entrata di una casa, e le premure immediate dei passanti e di mio marito non sono servite a niente, siamo dovuti andare all’ospedale italiano.
Un corridoio azzurro e una suora che cammina accanto alla mia lettiga.
“Non si preoccupi, andrà tutto bene”.
Poi un sogno azzurro, un sogno di volo, piacevole. E una stanza in penombra, con un vasetto posato sul mio comodino, con dentro qualcosa che non ho voluto guardare. E che, quando ho lasciato la camera, mi è sembrato di abbandonare.
“Non si sa perché accade…”
Forse il mio corpo sapeva che il bambino aveva qualcosa che non andava, e l’aveva eliminato.
“È molto frequente, non si preoccupi, potrà averne presto altri.”
Ma era così strano quel vuoto di prospettiva, quella mancanza improvvisa di tutte le previsioni fatte, da lì all’infinito… c’era solo questa assenza, che non lasciava spazio ad altro; e la mia prima bambina è rimasta da sola.
Solo dopo un paio di anni quel vuoto, quell’assenza, hanno cominciato a sfaldarsi, a riempirsi di qualcosa. Una sensazione un po’ misteriosa, che diventava sempre più forte, fino a diventare una presenza: un’esistenza che aveva già una vita, da qualche parte… uno spazio, un nucleo, un principio di storia, e io dovevo solo concretizzarla, dargli l’accesso a questo mondo.
Un’impresa non facile, come si è poi rivelato, perché la terza gravidanza era minacciata dalle contrazioni, e l’ho dovuta covare con cura, a letto, quasi tutto il tempo. Con un lieto fine: un parto naturale che ha introdotto al mondo la mia seconda figlia.
Un corpo forte, una testa piena di ricci biondi, e un odore acuto di sangue, straripante di vita. Una bambina che è cresciuta proprio così come l’avevo vista la prima volta: forte e carica di entusiasmo, un polo di energia gioiosa che avevi voglia di tenerti vicino.
Le due sorelle sono presto diventate inseparabili, fantasiose. Personaggi dentro un gioco infinito. Quando ci siamo trasferiti in Senegal, a Dakar, giocavano nella grande casa di fronte all’Oceano, tutto il giorno immerse nella luce, nei colori del giardino, nella musica che si alzava da ogni angolo del quartiere.
È stata questa bellezza, è stata la gioia dei loro giochi, a riaccendere il desiderio di un bambino in noi genitori. Ma non solo. C’era anche l’invidia che provavo, fin da bambina, per le famiglie con tanti figli. Per i miei coetanei che rientravano a casa da scuola coi fratelli, o correvano ai giardini sotto la supervisione noncurante di madri troppo indaffarate. Io, tenuta per mano, in città, dalle esclusive attenzioni di mia mamma ovunque andassi, non ho mai potuto sentirmi parte di un gruppo indipendente e scanzonato.
E ancor meno potevo farlo quando stavo al mare, a mesi interi, sotto la tutela distratta di mia nonna. Mentre lei sfogliava riviste, giocavo da sola in giardino, persa e felice nelle mie avventure. A sera, però, le voci dei bambini che rientravano a casa, o si trattenevano a giocare ancora un po’ in strada, mi facevano sentire di nuovo al di qua di qualcosa. Di una barriera, un salto impossibile per me, al di là del quale stavano famiglie piene di rumore, giochi, allegria.
Adesso, con un terzo figlio, una famiglia di quel genere sarebbe stata intorno a me, creata da me, nella mia stessa casa… un’immagine di gioia perfetta che si è concretizzata in una nuova attesa.
Siamo andati a Natale, a Firenze, con questa notizia come un regalo, da fare a tutti i parenti, sotto l’albero: “Avremo un altro bambino”.
E però, subito dopo la festa, sono iniziati problemi mai avuti prima. Spasmi improvvisi, il corpo trafitto di dolore senza possibilità di riparo e di resistenza. Cadevo in terra, lì dove mi trovavo: per strada, in casa o in ascensore. Sono caduta in terra davanti a un albergo e da lì è stata chiamata un’ambulanza, dalla quale sono passata direttamente ai controlli.
“Gravidanza extrauterina”, è stato il verdetto. “Non si sa perché, a volte capita che un feto sbagli strada e cresca in un ovaio… dobbiamo operare al più presto, perché è come se lei avesse una bomba a orologeria nel corpo. E non si sa quando esploderà.”
L’intervento è stato lunghissimo, questa volta, e ha cercato di preservarmi al massimo gli organi. Ma alla fine: “Mi dispiace, non potrà avere più figli,” mi è stato detto.
Rientrata a Dakar, andavo a smaltire i postumi dell’intervento sul lungomare, che era separato da casa nostra solo da una strada trafficata. Una volta attraversata, mi trovavo in una rara striscia tranquilla, senza commerci e senza folla. I miei percorsi erano limitati nello spazio; terminavano prima di arrivare a zone più vissute, dove c’era l’assalto dei ragazzini, dei venditori e dei mendicanti. Però quel tratto di costa mi bastava a guardare lontano e respirare. Era secca, scabra, formata da rocce a picco sull’acqua che scendevano in larghe calette di sabbia. E in mezzo all’abbaglio del sole vedevo i corpi scurissimi dei ragazzi che facevano ginnastica sulla spiaggia. Ogni tanto una piccola frotta mi passava vicino, saltellando compatta dietro l’allenatore.
“Non si sa perché, ma può capitare in ogni momento. Non si sa dare una spiegazione specifica sul come accade. In ogni caso ciò che conta è che entrambe le ovaie sono state compromesse e quindi non potrà avere altri figli.”
Me lo ripetevo in testa, era diventato un mantra di razionalità con il quale scacciare il richiamo misterioso di una vita in potenza, o i ricordi di bambina che sognava una famiglia grande e chiassosa.
Quello che avevo intorno non aiutava il pensiero razionale, però. Il sole immenso e senza ostacoli sembrava rispondere a una vibrazione forte della terra, una specie di pulsazione possente che muoveva le onde lunghe e giallastre del mare, permeava la sabbia scintillante, la strada polverosa, i bambini che camminavano gridando fra loro, dopo la scuola, e le ragazze avvolte di teli colorati che procedevano lente, a testa dritta. Esplodeva nei ritmi frenetici della musica che veniva dai finestrini delle auto, dalle case spalancate, o dalle mani dei suonatori di jambé, negli angoli lontani della spiaggia. Mani sbattute rapidamente sui tamburi, mentre la testa ondeggiava in preda alla possessione del suono.
“Non si sa perché, non si sa come,” mi ripetevo. Ma mentre camminavo, in mezzo alla luce, ai rumori, e al riverbero di energie sconosciute, questa frase non suonava per niente come nell’intenzione di chi me l’aveva detta. Suonava, sempre di più, come un’ammissione di possibilità.
Non ci sono vere spiegazioni sul perché accade, non si conoscono i meccanismi profondi per cui un corpo deve rifiutare un feto. Non si sa perché un feto deve sbagliare strada e crescere in un ovaio. Allora, come si sa per certo che io non posso avere più figli?
“Non si sa perché, non si sa come”… quindi ci sono cose che sfuggono alla nostra mente, alla nostra capacità di previsione. La scienza un giorno spiegherà tutto, forse, e ci renderà capaci di guarire da soli. Di provocare un placebo benefico da utilizzare a piacimento. Oppure spiegherà tutto, e dirà quali sono le vie che ci sono precluse con esattezza: quando sarà inutile provare. Un tempo, forse, ma per adesso ci sono strade libere, piene di forze sconosciute. Bisogna solo avere il coraggio di percorrerle…
Sentivo quasi un’euforia al pensiero che niente era sicuro, niente era garantito. Nemmeno che le cose sarebbero andate di nuovo come le altre volte.
Mi sono immersa con tutta la mente in quest’idea, come un tuffo nella luce che avevo intorno. E quando sono tornata a casa avevo già una decisione, al suo posto. Riprovarci.
Il terzo bambino è nato lì, a Dakar. Dove c’era un bell’ospedale nuovo e comodo. Una specie di albergo moderno, senza però alcuna assistenza per i neonati con patologie gravi. Nei casi più difficili si doveva volare d’urgenza a Parigi.
Li avevo visti, una volta, i genitori di un bambino che partiva per Parigi. Lei, fresca di parto, camminava lentamente e con gli occhi acquosi. Il bambino lo teneva il papà, mentre il medico sorreggeva, su di lui, la boccia della flebo. Un cosino minuscolo e pallido sbucava fra i panni. Chissà se ce l’avrebbe fatta ad arrivare in Francia. Tutte quelle ore di volo, tutta quell’attesa negli aeroporti… avevo pensato a quella coppia tutto il tempo, mentre viaggiavo. E adesso mi ci trovavo io, forse, ad affrontare la stessa avventura.
Il mio bambino era nato due mesi prima del dovuto ed era piccolissimo, non ancora del tutto formato. Non si sapeva se sapeva respirare, ancora, e se il cuore riusciva a battere bene, se riusciva a digerire e sopratutto se riusciva a regolare la temperatura del suo corpo.
Per fortuna, non c’è stato bisogno di volare, di notte, verso Parigi. Ha iniziato presto ad agitarsi, dentro l’incubatrice, e a camminare con i piedini lungo il vetro. “Ottimo segno”, diceva il medico. “È strano che un maschietto sia così vitale. Di solito, a questa età, sopravvivono solo le femmine, qui da noi. Sono più robuste, le neonate, la natura le fa così.”
E infatti un maschietto era morto, poco dopo, in quella stessa stanza.
Dopo, non ero più sicura di niente. La solitudine di bambina e le presenze intorno… tutte le favole poetiche che mi ero raccontata in quei mesi… E se fosse stata pura ostinazione? Se con quelle visioni romantiche avessi solo creato sofferenza?
Mi tormentava questa domanda, mentre facevo la guardia alla scatola di vetro, quelle prime settimane. Mi faceva svegliare di notte, e correre a interrogare quella forma che ancora non era completa, che aveva l’aria sbagliata, lì fuori, e un’espressione corrucciata nel musino minuscolo. Le braccia e le gambe sottili infilate di aghi enormi, fissati da cerotti.
Fino a una mattina, all’alba, nella quale sono accorsa, come sempre, al richiamo di un allarme indefinito. E l’ho trovato con le braccia e le gambe bendate.
“Da ieri sera si strappa gli aghi, ci abbiamo rinunciato”, mi ha detto l’infermiera. “Ha proprio voglia di farcela, questo bambino, lo sa?”
L’alba di gennaio, a Dakar, era fredda, e la luce grigia. Ma nell’incubatrice c’era una piccola forma tenace, che adesso aveva aperto gli occhi e si guardava intorno, agitando le braccia in aria.
“Lo so”, le ho risposto sottovoce.
Francesca come sempre mi hai fatto tuffare nel tuo mare, un mare che “non so perchè , non so come” riesce ad emozionarmi profondamente. Eppure il tuo scrivere è semplice, diretto, senza fronzoli. La storia mi coinvolge; io che non ho voluto figli perchè “non so perchè, non so come” lo decisi nel momento in cui morì mio padre ed ero bambino, a 12 anni si è bambini. Morì mio padre, che mi aveva avuto tardi, si usava dire, ma che per il quale divenni vita, ragione di vita, vita che dovette abbandonare pochi anni dopo per in infarto. Son rimasto sempre con la paura di lasciare il figlio o i figli soli, ancora non ho trovato il coraggio ed ormai si è fatto tardi. La tua storia è in inno fragoroso alla vita, al coraggio di dare vita, di combattere per la vita, la tua e la loro e con loro intendo anche Lorenzo. Grazie Fra col tuo scritto mi hai fatto capire tante cose, anche di te, del tuo esser madre ma anche figlia, della tua solitudine e della tua caparbietà nel volere una “tribù” . Sul tuo modo di scrivere non so più che dire mi par d’esser monotono nel dirti che sei brava, che fai calare nella storia misuratamente con poche parole,la sensazione è quella di vedere dal vivo quel che sta succedendo. Brava , un bacio… grosso.