Le rêve, l’après-midi: sognare con Éric Rohmer/ 1

Pur trattandosi di un cineasta niente affatto onirico, e le cui riprese poggiano anzi su salde fondamenta realistiche (per quanto ambiguo sia tale concetto), Rohmer si dimostra tutt’altro che indifferente al mondo del sogno, inteso nelle sue varie declinazioni.

Maintes genz dient que en songes

N’a se fables non et mençonges.

Mais l’en puet teus songes songier

Qui ne sont mie mençongier

(Guillaume de Lorris, Le Roman de la Rose, vv. 1-4)[1]

Les héros d’une histoire ont toujours les yeux bandés. Sinon ils ne feraient plus rien

(Aurora in Le Genou de Claire)[2]

0. Il primo lungometraggio di Éric Rohmer (pseudonimo di Maurice Schérer, 1920-2010) inizia con un brusco risveglio: Pierre Wesserlin (Jess Hahn), violinista squattrinato di origini americane trapiantato a Parigi, è costretto a interrompere il suo sonno a causa dell’insistito suono del campanello di casa. Indossata una vestaglia tra un’imprecazione e l’altra e aperta la porta al disturbatore, cioè il postino, Pierre scopre tuttavia di essere stato baciato dalla fortuna: il telegramma che gli è stato appena recapitato annuncia la morte di una sua zia facoltosa e ne certifica il ruolo di ereditiere del ricco patrimonio della parente.

Non c’è tempo da perdere, bisogna subito organizzare una festa! E sarà proprio durante i festeggiamenti della sera a casa sua che Pierre, dopo aver suonato qualcosa agli amici con scarso successo, fa questa rivelazione: «Vous savez à quoi je rêvais quand le télégraphiste m’a réveillé? Que j’ai terminé ma sonate au violon. J’entendais tout, absolument tout». Per poi aggiungere poco dopo: «Tu sais, les idées me sont toujours venues en dormant, moi?»[3]. Il suono del campanello, lungi dall’aver semplicemente messo fine al riposo del protagonista, aveva invece interrotto la stessa possibilità ­–per lui, musicista pigro e senza talento– di ricevere in sogno l’ispirazione definitiva.

Ma Pierre non sembra amareggiato più di tanto: l’inaspettata notizia ricevuta la mattina pare infatti averlo comunque proiettato in una dimensione di felicità ebbra e sognante; lo testimoniano le parole che rivolge al vicino di casa, Monsieur Lacroix, salito a lamentarsi a causa del fracasso dei festeggiamenti che gli impedisce di dormire: «Je suis millionnaire, monsieur Lacroix! Vous viendrez passer vos vacances dans mon bon château, vous ébattrez sur le pelouse, vous viderez ma cave!»[4].

Purtroppo per Pierre questa visione fiabesca si trasformerà però ben presto in una discesa agli inferi: dal sogno all’incubo il passo è brevissimo; sarà solo dopo un’estate parigina allucinata, passata tra solitudine e indigenza assoluta (molto vicina alle angosciose peregrinazioni del protagonista di Fame di Knut Hamsun), che un ennesimo, beffardo colpo di scena cambierà di nuovo il suo destino, ricollocandolo sotto una buona stella.

Queste le vicende mostrate ne Le Signe du Lion (Il segno del leone, 1959), primo sfortunato lungometraggio di Rohmer: dopo l’insuccesso del film[5], il regista, all’epoca già importante critico cinematografico dei «Cahiers du cinéma» (di cui nel ’57 era divenuto caporedattore[6]), dovrà attendere alcuni anni prima di poter tornare dietro la macchina da presa e dare il via, questa volta senza interruzioni, ad una delle più interessanti filmografie del XX secolo. Per quanto abbastanza unico rispetto al cinema rohmeriano, Le Signe du Lion presenta già alcuni motivi che ritroveremo nei film successivi: la cadenza del racconto per mezzo di precise indicazioni cronologiche, la geometrica esibizione della topografia parigina, la ricorrenza di personaggi irrequieti che si spostano continuamente (soprattutto tra Parigi e la “provincia”), le riprese per strada (uno dei dogmi della Nouvelle Vague a cui Rohmer rimarrà sempre fedele), il tempo sospeso delle vacanze, la messa in scena di una festa[7], la presenza dei libri e della letteratura[8], la proiezione mentale da parte del protagonista in una dimensione fantastica e sognante[9]. Sarà proprio quest’ultimo aspetto che ci servirà da bussola per ripercorrere la cinematografia di Rohmer, nella quale l’immaginazione e una speranza spesso cocciuta e apparentemente del tutto irrazionale guidano le vite dei/delle protagonisti/e. Pur trattandosi di un cineasta niente affatto onirico, e le cui riprese poggiano anzi su salde fondamenta realistiche (per quanto ambiguo sia tale concetto), Rohmer si dimostra tutt’altro che indifferente al mondo del sogno, inteso nelle sue varie declinazioni.

1. Nel 1972 esce L’amour, l’après-midi (L’amore il pomeriggio), il sesto e ultimo episodio del primo dei tre grandi cicli rohmeriani, quello dei Six contes moraux (Racconti morali, titolo preso in prestito da un’opera di Jean-François Marmontel). Questo film contiene una sequenza piuttosto sorprendente in cui vediamo il protagonista Frédéric (Bernard Verley) –felicemente sposato con Hélène ma annoiato dalla tranquilla vita coniugale[10] –sognare ad occhi aperti di avere un dispositivo con cui riuscire a fare sue tutte le donne che vuole. Per quanto si tratti, come ha sottolineato Michele Mancini, di «una sequenza veramente insolita per Rohmer (se non altro perché si tratta di una scena onirica)»[11], questa «rêverie enfantine» giunge dopo che il film ha più volte ribadito la natura sognante di Frédéric, il quale cerca continuamente modi di evadere (il lavoro stesso nel suo ufficio parigino rappresenta per lui una fuga dalla noiosa vita di coppia in banlieue). Per esempio, all’inizio del film sentiamo la voce off del protagonista giustificare il fatto che in treno preferisce di gran lunga leggere un libro piuttosto che il giornale (come vediamo fare ad altri pendolari)[12] soprattutto perché i quotidiani non riescono a catturare completamente la sua attenzione e non sono in grado di farlo «sortir de la vie présente»[13]; mentre subito dopo, parlando delle letture che fa a casa alla sera, dice che ogni libro deve avere per lui l’obiettivo di trasportarlo fuori dal luogo e dal tempo in cui vive[14].

E successivamente, a proposito della sua voglia di evadere dal matrimonio che l’opprime, dichiara: «Je rêve d’une vie qui ne soit faite que de premiers amours et d’amours durables»[15]. E circa la sua abitudine di guardare le donne parigine, rimpiangendo di non poter far parte, anche solo per poco, della loro vita: «Je rêve, je rêve que je les possède toutes, effectivement»[16]. È a questo punto che Rohmer introduce la sequenza onirica di cui sopra: Frédéric sogna di possedere un «petit appareil» che, indossato al collo, possa emettere «un fluide magnétique capable d’annihiler toute volonté étrangère»[17]; e desidera indirizzare il suo potere verso le donne che passano davanti al caffe in cui si trova in quel momento (siamo all’incrocio tra Place Saint-Augustin e Rue de la Pépinière).

La cosa interessante è che le sei donne che Frédéric immagina di catturare col suo fluido magnetico sono interpretate da 6 attrici che hanno recitato nei precedenti tre film del regista (di fatto i suoi primi successi di pubblico e critica): Françoise Fabian e Marie-Christine Barrault, rispettivamente Maud e Françoise di Ma nuit chez Maud (La mia notte con Maud, 1969); Haydée Politoff, la Haydée de La Collectionneuse (La collezionista, 1966); Béatrice Romand, Laurence de Monagham e Aurora Cornu, rispettivamente Laura, Claire e Aurora in Le Genou de Claire (Il ginocchio di Claire, 1970). Ognuna di esse è inizialmente descritta da un semplice aggettivo[18], e poi abbordata da Frédéric.

La prima è Maud, una Françoise Fabian ancora con il colbacco, che subito accetta la proposta di “perdere” un’ora con il nostro intraprendente narratore. La seconda è l’altra donna di La mia notta con Maud, Françoise, la biondina eletta, che abbraccia Frédéric e l’invita a casa sua. Con la terza, la spregiudicata «collezionista», avvolta in una lussuosa pelliccia e con un cane al guinzaglio, non c’è neanche bisogno della battuta di invito: è subito abbordata. La quarta, Aurora Cornu, la scrittrice di Le genou de Claire, offre le sue grazie per denaro ma Frédéric riesce a farsi pagar lui, valutandosi per giunta il doppio dell’onorario della donna […]. La quinta donna, Claire dagli occhi azzurri, è in compagnia di un ragazzo che non costituisce comunque un ostacolo: Frédéric lo allontana immediatamente digrignando i denti. Con l’ultima ragazza invece il giochino non funziona: Laura, la deliziosa Béatrice Romand di Le genou de Claire, si divincola dalla presa del narratore e corre via, a casa dell’uomo di cui è innamorata.[19]

Il film prosegue poi con le resistenze che Frédéric oppone ai maliziosi e schizofrenici tentativi di seduzione di una sua vecchia amica, la sensuale Chloé, riapparsa dopo molti anni nella sua vita. Ad un certo punto, quando Frédéric inizia a dubitare della propria capacità di rimanere fedele alla moglie e a ipotizzare di abbandonarsi tra le braccia dell’amica (che con la sua vita errabonda rappresenta tutto l’opposto di un’ordinata vita matrimoniale), così si rivolge a Chloé: «Tu n’as jamais rêvé vivre deux vies en même temps et simultanément mais d’une manière complète et parfaite ?». E di fronte alla dichiarazione perentoria dell’amica («C’est impossible!»), Frédéric ribatte «C’est un rêve»[20].

2. Il protagonista di L’amour, l’après-midi rappresenta certamente il personaggio più “sognante” della prima fase della filmografia rohmeriana: come si è visto, in lui la fuga in una dimensione altra costituisce uno sbocco necessario per venire a patti con le frustrazioni e le inquietudini (come quell’angoscia del pomeriggio stemperabile solo attraverso l’immersione nell’anonima folla cittadina) che accompagnano la sua vita borghese di uomo in carriera, sposato e padre di famiglia. Ma ci sono anche altri momenti dei Six contes moraux in cui si affaccia il motivo del sogno e della fantasticheria.

Lo vediamo, per esempio, in Adrien (Patrick Bauchau), il protagonista de La Collectionneuse (La collezionista, 1966[21]); giunto nella villa provenzale dell’amico Rodolphe, egli dichiara di voler trascorrere alcune settimane secondo una regola di vita del tutto diversa dalla mondanità che caratterizza la sua abituale esistenza: uscirà ogni mattina molto presto per recarsi in spiaggia e, soprattutto, s’imporrà di non fare assolutamente niente. E come dichiara la voce off del personaggio, questa ricerca del vuoto costituisce per lui –che è da dieci anni che non si concede una “vera” vacanza– la realizzazione di un sogno infantile:

«J’étais enfin seul devant la mer, loin du rite des croisières et des plages, réalisant un rêve très cher de mon enfance et, d’année en année, différé. J’aimais que le regard que je portais sur elle fût le plus vide possible, exempt de toute curiosité de peintre ou de naturaliste, car peut-être si j’avais suivi l’une de mes pentes, aurais-je passé ma vie à collectionner et à herboriser. Je m’abandonnais à la seule fascination des mouvements de l’ombre et de la lumière jusqu’à entrer dans une lethargie que le bain prolongeait. Cet état de passivité, de disponibilité totale semblait fait pour se poursuivre bien au-delà de l’espèce d’euphorie où vous met le premier contact de la saison avec la mer. Je m’imaginais très bien coulant, pendant tout un mois, mes journées dans le même moule»»[22]

Anche qui troviamo dunque un personaggio che cerca di mettere in atto una fuga –a lungo cullata– dalla sua vita quotidiana; non si tratta però in questo caso di un desiderio di coinvolgimento, come sarà per Frédéric, bensì, al contrario, di un sogno di totale passività e letargia: ciò di cui Adrien è alla ricerca è uno svuotamento totale, l’approdo ad un ozio lontano non solo da ogni tentazione (il che sarà complicato dalla presenza costante della bella e giovane Haydée) ma anche da ogni sforzo intellettuale. A questo proposito è interessante quanto dichiara a proposito dell’attività della lettura (lo vediamo infatti leggere il primo tomo delle Opere complete di Jean-Jacques Rousseau): forzandolo a pensare secondo una direzione precisa, che non è quella dei propri pensieri, per Adrien la lettura diventa un’attività utile proprio ai fini della ricerca del vuoto[23].

3. Conclusa l’esperienza dei Six contes moraux, Eric Rohmer sfrutta la fama e il successo raggiunti per dedicarsi a due esperienze cinematografiche tanto raffinate quanto distanti da ciò che il pubblico poteva aspettarsi da lui. Si tratta di una vera e propria rottura, dato che per la prima volta il regista non mette in scena delle sceneggiature di sua mano ma si rivolge alla grande letteratura del passato (come era accaduto per alcuni cortometraggi giovanili[24] e come accadrà anche per il terzultimo e per l’ultimo film della sua carriera[25]).

Nel 1976 esce La Marquise d’O… (La marchesa von…), film in costume d’epoca napoleonica, che rappresenta l’omaggio di Rohmer all’amata cultura germanica: tratto molto fedelmente dall’omonima novella di Heinrich von Kleist (1777-1811) e interpretato da attori tedeschi (soprattutto provenienti, come i protagonisti Edith Clever e Bruno Ganz, dalla compagnia berlinese Schaubühne) che recitano nella loro lingua, il film mette al centro l’enigmatico episodio di una giovane marchesa vedova che, durante l’assedio del suo casato ad opera di soldati russi, viene salvata da un Conte russo; prostrata dall’emozione e aiutata da una tisana di papavero (ottimo per prevenire i brutti sogni), cade in un sonno profondo[26] per poi accorgersi, alcune settimane dopo, di essere misteriosamente incinta…Attentissimo all’aspetto iconografico del film, Rohmer filma la scena clou ispirandosi al celebre quadro di Johann Heinrich Füssli Die Nachtmahr (L’incubo, 1781), rappresentazione dell’incubo allucinato di una giovane donna riversa sul letto e sormontata da un demone e da una testa di cavalla[27]. Seppur diversamente dalle opere frutto di sceneggiature originali, anche ne La Marquise d’O… ritroviamo quindi il motivo del sogno, come ha ben sottolineato Paolo Marocco:

Questo film, difforme e straniero nella serialità dell’opera del regista, ruota attorno all’ambiguità tra sonno e sogno: il perno è quello di una gestazione indesiderata frutto di una violenza notturna che la giovane vittima crede di aver sognato. Nessuno, compreso lo spettatore, ha visto niente, e Rohmer addita subito il principale indiziato presentandolo però in modo così insistente da consentire di dubitare della sua colpevolezza.[28]  

Premiato col Gran Prix special della giuria al Festival di Cannes, La Marquise d’O… conosce un ottimo successo internazionale, soprattutto negli Stati Uniti (dove già il film precedente, rinominato Chloè in the Afternoon, aveva incontrato il favore del pubblico). Lo stesso non accadrà col successivo film in costume, Perceval le Gallois (1978), una delle più originali opere cinematografiche di tutti i tempi. Riprendendo i suoi interessi letterari, e in particolare sviluppando l’argomento di un documentario di quattordici anni prima dedicato proprio a Perceval ou le Conte du Graal[29], Rohmer mette in scena l’ultimo romanzo –incompiuto– di Chrétien de Troyes (scritto intorno al 1180 ca.) realizzando un’operazione che, se si è rivelata un fiasco dal punto di vista commerciale, continua ad essere probabilmente la più fine e intelligente rappresentazione del Medio Evo al cinema[30].

A respingere il pubblico sono state probabilmente le audaci scelte del regista, finalizzate ad allontanarsi il più possibile dalla resa cinematografica del Medio Evo –tanto spettacolare quanto posticcia e anacronistica– tipica di Hollywood, ma pure dalla recente esperienza del Lancelot du Lac (1974) di Robert Bresson: dal rispetto degli octosyllabes antico-francesi del romanzo di Chrétien de Troyes (giusto un po’ ringiovaniti), alla recitazione antinaturalista degli interpreti (tra cui il magnificamente buffo Fabrice Luchini –che Rohmer ha più volte associato a Buster Keaton– nei panni del protagonista); dall’uso di magnifiche musiche d’epoca dirette da Guy Robert e accompagnate da strumenti tipici dei trovatori medievali, alla raffigurazione stilizzata dello spazio ispirata alle sacre rappresentazioni e alle miniature dei codici medievali (con la loro assenza di profondità e di scala e con i loro colori saturati). Nel tentativo di restituire, per quanto possibile, un’immagine non artefatta del XII secolo, Rohmer ce ne dà, soprattutto per mezzo della scenografia, una versione tanto filologicamente attenta quanto fiabesca e infantile[31]: un Medio Evo, per l’appunto, sognato e immaginato «cogli occhi di un cineasta che avrebbe vissuto in quell’epoca»[32].  

[1. – segue]


[1] «Gli eroi di una storia hanno sempre gli occhi bendati. Altrimenti non farebbero più niente».

[2]  «Molte persone dicono che nei sogni non si trovano che favole e menzogne. Ma è invece possibile fare dei sogni che non sono per nulla menzogneri».

[3] «Sapete cosa stavo sognando quando il postino mi ha svegliato? Che avevo terminato la mia sonata: sentivo tutto, assolutamente tutto»; «Lo sai che a me le idee mi sono sempre venute mentre dormivo?».

[4] «Sono milionario, signor Lacroix! Lei verrà a trascorrere le sue vacanze nel mio bel castello, e se la spasserà sul prato, e prosciugherà la mia cantina!»

[5] «Il segno del leone riceve qualche consenso di critica ma si risolve in un fallimento commerciale: costato all’epoca 35 milioni di franchi, ovvero il costo di una produzione medio-bassa (elevatissimo comunque rispetto al budget medio delle opere successive), incorre in diversi incidenti con il distributore, ed esce in una sala di Parigi soltanto tre anni dopo, per rimanervi poche settimane» (Paolo Marocco, Eric Rohmer, Recco, Le Mani, 20023, p. 134).

[6] Sempre al ’57 risale l’importante volume su Alfred Hitchcock scritto insieme a un altro futuro grande regista, Claude Chabrol (un saggio «che segnò il passaggio dall’interpretazione del regista inglese come abile artigiano a quella di autore capace di esprimere uno stile personale»: Paolo Marocco, ROHMER, Eric in Enciclopedia del Cinema, Treccani, 2004).

[7] «Rohmer, insieme a Visconti, è probabilmente il regista la cui opera vanta il maggior affollamento di feste nella storia del cinema: se ne conta in media quasi una per ogni film» (P. Marocco, Eric Rohmer cit., pp. 73-74). Oltre alla festa organizzata da Pierre per celebrare la notizia dell’eredità, in questo film vediamo anche i balli parigini durante la serata del 14 luglio (festività che sarà festeggiata anche dai protagonisti de Le Genou de Claire sul lago di Annecy).

[8] In questo film, oltre al volume aperto sul comodino di Pierre che si intravvede all’inizio, ci sono i libri che il protagonista vende a un bouquiniste per racimolare un po’ di spiccioli. Si ricordi che Rohmer ha fatto studi di letteratura, ha lavorato come professore di francese, greco e latino (dal ’46 al ’55), ha girato documentari televisivi di argomento letterario (su Cervantes, Poe, Hugo, La Bruyère, Pascal, Mallarmé, Chrétien de Troyes) e, appena ventiseienne, ha pubblicato –sotto un altro pseudonimo, quello di Gilbert Cordier– il suo primo e unico romanzo: Élisabeth (riedito nel 2007 con il titolo de La Maison d’Élisabeth). Sulla vita di Rohmer si veda la dettagliatissima biografia (purtroppo non tradotta in italiano) scritta da Antoine de Baecque e Noël Herpe: Éric Rohmer, Paris, Stock, 2014 (avendo attinto dalla versione in ebook, le citazioni tratte da questo volume non saranno indicate con il numero di pagina ma con il titolo di capitolo e paragrafo).

[9] A tale proposito è interessante osservare che le primissime immagini de Le Signe du Lion, sulle quali si sovrappongono i titoli di testa, sono dedicate alla Senna, con la macchina da presa collocata su un’imbarcazione che avanza lentamente lungo il fiume parigino. Se tale ripresa acquatica sembra in un certo senso prepararci all’incontro con Pierre ancora sprofondato nel mondo dei sogni, essa costituisce la prima apparizione dell’elemento acquatico che sarà presenza ricorrente nella cinematografia di Rohmer (cfr. P. Marocco, Eric Rohmer cit., p. 79): dalla Senna alla piscina parigina del finale de La Carrière de Suzanne; dal lago di Annecy in Le Genou de Claire (con il protagonista che, fin dalla scena iniziale, si sposta continuamente in motoscafo) al mare provenzale e normanno de La Collectionneuse e di Pauline à la plage; dalla Biarritz de Le Rayon vert al lago artificiale di Cergy-Pontoise in L’Ami de mon amie; fino alla costa bretone del prologo di Conte d’hiver (girato sull’Île-aux-Moines, nel golfo di Morbihan) e di Conte d’été (ambientato a Dinard).

[10] Come nota Michele Mancini (Eric Rohmer, Scandicci, La nuova Italia, 19882, p. 75) Frédéric è il primo dei protagonisti maschili dei Six contes moraux a presentarsi, sin dall’inizio del film, sposato e padre.

[11] M. Mancini, Eric Rohmer cit., p. 77. Anche Paolo Marocco (Eric Rohmer cit., p. 154) ha definito questa scena «un’eccezione nel cinema di Rohmer», mentre Michel Serceau (Éric Rohmer, les jeux de l’amour, du hazard st du discours, Paris, Éditions du Cerf, 2000, p. 47) dichiara che «La séquence du rêve n’est donc pas une séquence adventice, tout allogène qu’elle puisse être en apparence à l’esthétique rohmérienne». Antoine de Baecque e Noël Herpe (Éric Rohmer cit., cap. 6 Quatre contes moraux: 1966-1972, paragrafo Le rayon magique) parlano di «une parenthèse fantaisiste, dans l’œuvre d’ordinaire si cartésienne de Rohmer». I due biografi vedono inoltre nell’uso del talismano un riferimento a Jules Vernes: come si sa, lo scrittore francese sarà ampiamento citato ne Le Rayon vert, che prende il titolo proprio dall’omonimo romanzo di Verne (cfr. Giancarlo Zappoli, Eric Rohmer, Milano, Il castoro, 1999, p. 99); e lo ritroveremo sia in Conte de printemps, in cui la protagonista Jeanne descrive caricaturalmente il suo fidanzato Mathieu –un matematico amante del disordine– come «un savant de Jules Verne», sia in Conte d’été, dov’è citato fuggevolmente da Léna (che racconta a Gaspard di aver trascorso alcune settimane in Provenza in una casa piena di «vieux bouquins»).

[12] In particolare Rohmer ci mostra Frédéric assorto nella lettura del Voyage autour du monde di Louise-Antoine barone di Bougainville. La casa di Frédéric è molto ben assortita di libri, anche perché sua moglie è professoressa di inglese (e in procinto di completare la sua tesi di dottorato): come si sa, il cinema di Rohmer è pieno di studenti e professori, ma anche di case ricche di volumi (come la dimora di Jérôme sul lago di Annecy in Le Genou de Claire, o l’appartamento del bibliotecario Loïc in Conte d’hiver). Già nel mediometraggio La Carrière de Suzanne (secondo episodio dei Six contes moraux), vediamo tanti libri: se Suzanne (Catherine Sée) compare per la prima volta intenta nella lettura dei Promessi sposi di Manzoni (segue infatti dei corsi serali alla scuola di interpretariato della Sorbonne), Bertrand (Philippe Beuzen) nasconderà i soldi donatigli dai suoi genitori al ritorno dalle vacanze di Pasqua dentro le pagine di un volume (Plume de Flamant) dell’esploratore sudafricano Laurens Van der Post. E come esempio di quello che sarà un altro topos rohmeriano, ovvero la citazione di scrittori, filosofi e artisti, sentiamo alcuni invitati ad una festa a casa di Guillaume (Christian Charrière) discutere di Stevenson; mentre in un’altra scena, ambientata sempre a casa di Guillaume, Suzanne cita Le journal du voleur (1949) di Jean Genet.

[13] «Uscire dalla vita presente».

[14] Cfr. M. Serceau, Éric Rohmer cit. p. 78: «le personnage, inaccompli, opère une sorte de réalisation mentale, d’où le rêve. La maison et le bureau sont des lieux de vie sociale mais où, à aucun moment, ne se manifestent et ne s’exercent les sens. […] Qu’il rêve ou qu’il erre, la manière dont le héros aménage, alors que rien ne la lui impose, la pause de l’après-midi, prouve que sa vie familiale et professionnelle ne correspond pas à son intime dessein ontologique».

[15] «Io sogno una vita fatta di nient’altro che di primi amori e di amori duraturi».

[16] «Io sogno, sogno di possederle tutte, realmente».

[17] «Un piccolo congegno», «un fluido magnetico in grado di annichilire ogni volontà altrui».

[18] indifférente (Françoise Fabian; «indifferente»), pressée (Béatrice Romand; «di corsa»), hésitante (Marie-Christine Barrault; «esitante»), occupée (Haydés Politoff; «impegnata»), accompagnée (Laurence de Monagham; «accompagnata»), solitaire (Aurora Cornu; «solitaria»).

[19] M. Mancini, Eric Rohmer cit., p. 77. Il comportamento dell’ultima donna (Béatrice Romand) sembra anticipare quello di molte delle protagoniste del cinema di Rohmer dal ciclo Comédies et Proverbes in poi (su questo punto cfr. Roberta Pezzotta, Francesca Prandi, L’universo femminile nella filmografia di Eric Rohmer, in Eric Rohmer: la parola vista, a cura di Flavio Vergerio e Giancarlo Zappoli, Bergamo, Moretti&Vitali, 1996, pp. 85-101, a pp. 87-88). Secondo Giancarlo Zappoli (Eric Rohmer cit., pp. 61-62), «È significativo che l’irruzione di Chloé nella vita di Frédéric sia collocata immediatamente dopo la sequenza del sogno a occhi aperti. Difficilmente controllabile, […] Chloé (a differenza di tutte le altre seduttrici dei “Racconti”) non entra in scena casualmente. Proviene dal passato del protagonista […] ed è pronta a trasformare il suo futuro. Lavora come Jacqueline e Suzanne, cambia un uomo dopo l’altro come Haydée, invita nel proprio letto come Maud e consente a una mano di accarezzarla quasi per inerzia come Claire. Chloé è la sintesi delle donne così come Rohmer è venuto presentandole sinora e, contemporaneamente, l’anticipazione, con i suoi continui cambiamenti di domicilio, di molte delle protagoniste della serie “Commedi e proverbi”»

[20] «Non hai mai sognato di vivere due vite allo stesso tempo e simultaneamente, ma in una maniera completa e perfetta?»; «Ma è impossibile!»; «È un sogno». Secondo Antoine de Baecque e Noël Herpe (Éric Rohmer cit., cap. 6 Quatre contes moraux: 1966-1972, paragrafo La résistance du réel) questo dialogo contiene in nuce un tema che attraverserà d’ora in poi tutta l’opera di Rohmer.

[21] Benché terzo in ordine di realizzazione, Rohmer aveva concepito questo film come quarta tappa dei Racconti morali (riservando il n°3 a quello che sarà invece il film girato tre anni dopo, Ma nuit chez Maud). Premiato con l’Orso d’oro al Festival del cinema di Berlino, La Collectionneuse fu il primo film di Rohmer ad avere una qualche risonanza.

[22]  «Ero finalmente solo davanti al mare, lontano dai riti delle crociere e delle spiagge, realizzando un caro sogno della mia infanzia, sempre rimandato di anno in anno. Desideravo che lo sguardo che posavo sul mare fosse il più vuoto possibile, privo di ogni curiosità di pittore e di naturalista, perché forse se avessi seguito una mia inclinazione avrei passato la mia vita a collezionare e catalogare erbe. Mi abbandonavo al solo incanto dei giochi di luce ed ombra fino ad entrare in un letargo che il bagno prolungava. Questo lato di passività, di disponibilità totale, sembrava fatto per prolungarsi ben al di là di quella specie di euforia che dà il primo contatto con il mare. Io mi immaginavo del tutto immerso, per un mese intero, trascorrendo le mie giornate sempre nella stessa posizione». Il riferimento a questo sogno ricompare nel monologo finale di Adrien, quando si rende conto che i suoi progetti iniziali erano stati deviati da un’altra rêverie, ovvero quella di possedere carnalmente Haydée dopo varie settimane passate tra seduzione e respingimenti.

[23] Anche Haydée la vediamo leggere in alcune circostanze: tra le sue mani sono riconoscibili un’antologia critica di Albert Béguin dedicata al romanticismo tedesco (Le romantisme allemand)e –se non vediamo male– Dracula di Bram Stoker. Quella di personaggi che leggono libri inquadrati di sfuggita (e riconoscibili talvolta solo grazie al fermo immagine) è una situazione ricorrente nel cinema di Rohmer (cfr. Gilles Castagnès, Livres, lecteurs, littérarité dans le cinéma d’Éric Rohmer : la littérature, ou comment s’en débarrasser, in «Littératures» 73, 2015, pp. 155-169). Per esempio in Le Genou de Claire vediamo i giovani compagni di classe Laura (Béatrice Romand) e Vincent (Fabrice Luchini) leggere un’enciclopedia dedicata alla Mythologie orientale. La Sabine (Béatrice Romand) di Le Beau mariage, studentessa di storia dell’arte, legge in treno il saggio di Wilhelm Worringer, L’art gothique. La Pauline (Amanda Langlet) di Pauline à la plage legge invece un poliziesco, Le nemic public n° 2 di Gérard Lecas (il quale, in qualità di ingegnere del suono, ha lavorato nei primi 4 lungometraggi rohmeriani del ciclo Comédies et Proverbes, compreso questo stesso film). La Delphine (Marie Rivière) de Le Rayon vert legge due classici come Bouvard et Pécuchet di Gustave Flaubert (su una panchina parigina) e l’Idiota di Fëdor Dostoevskij (in stazione a Biarritz). O ancora la giovane professoressa di filosofia Jeanne (Anne Teyssèdre) di Conte de printemps legge nel giardino della casa di Igor (Hugues Quester) a Fontainebleau il romanzo di Valery Larbaud Enfantines.

[24] Les petites filles modèles (1952) tratto dall’omonimo romanzo per bambini pubblicato nel 1858 della contessa di Ségur (Sophie Rostopchine); Bérénice (1954), dalla novella di Edgar Allan Poe secondo la traduzione di Charles Baudelaire; La Sonate à Kreutzer (1956) dal romanzo breve di Lev Nikolaevič Tolstoj del 1891. Il protagonista degli ultimi due corti è interpretato dallo stesso Rohmer, il quale, ne La Sonate à Kreutzer, è affiancato da Jean-Luc Godard, che ritroveremo in una breve apparizione ne Le Signe du Lion, e da Jean-Claude Brialy, attore feticcio della Nouvelle Vague che quattordici anni dopo sarà l’indimenticabile Jérôme de Le Genou de Claire. E a proposito di Nouvelle Vague, una scena del corto ricavato da Tolstoj è girata nientemeno che nella redazione dei «Cahiers du Cinéma» (vi si riconoscono André Bazin, Claude Chabrol e François Truffaut).

[25] Si tratta, rispettivamente, de L’Anglaise et le Duc (La nobildonna e il duca, 2001), tratto dalle memorie della cortigiana scozzese Grace Eliott (1758-1823), e de Les Amours d’Astrée et de Céladon (Gli amori di Astrea e Céladon, 2007), ricavato dal monumentale romanzo pastorale L’Astrée (1607-27) di Honoré d’Urfé (1568-1625).

[26] È questa l’unica modifica significativa attuata da Rohmer alla novella di Kleist: nel testo del poeta tedesco la marchesa risulta svenuta (cfr. Cfr. A. de Baecque e N. Herpe Éric Rohmer cit., cap. 7 De l’Allemagne et du goût d’enseigner: 1969-1994, paragrafo Die Marquise von O… en version originale).

[27] Cfr. A. de Baecque e N. Herpe, Éric Rohmer cit., cap. 7 De l’Allemagne et du goût d’enseigner: 1969-1994, paragrafo Die Marquise von O… en version originale). Rohmer è da sempre stato, sin dalla sua attività di critico, molto attento ai rapporti tra il cinema e le altre arti visive, pittura in primis: si vedano, per esempio, una serie di articoli comparsi nel 1955 in cinque numeri dei «Cahiers du Cinéma» sotto il titolo complessivo de “Le celluloïd et le marbre” (ripubblicati recentemente in Francia –Eric Rohmer, Le celluloïd et le marbre. Suivi d’un entretien inédit avec N. Herpe et P. Fauvel, Paris, Léo Scheer, 2010–, questi articoli erano stati tradotti in italiano in La pelle e l’anima: Astruc, Bazin, Chabrol, Godard, Rivette, Rohmer, Truffaut: intorno alla Nouvelle Vague, a cura di Giovanna Grignaffini, Firenze, la casa Usher, 1984, pp. 8-36); così come si veda lo spazio dedicato alle possibili fonti pittoriche (come Altdorfer, Tintoretto, Rembrandt e Caravaggio) del Faust di Murnau nella tesi di dottorato ­–discussa a Parigi nel 1972– che Rohmer ha dedicato a quest’opera del regista tedesco: E. Rohmer, L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau, Venezia, Marsilio Editori, 1984.

[28] P. Marocco, Eric Rohmer cit., p. 158. Ai primi sintomi di malessere che le ricordano le stesse sensazioni già provate quand’era incinta della sua seconda bambina, la marchesa dice scherzando che, se dovesse realmente partorire, allora il padre sarebbe Morfeo oppure uno dei sogni che Morfeo ci propone. E di nuovo, quando la levatrice constata –come già fatto dal medico– in maniera incontrovertibile il suo stato interessante, la marchesa incredula e disperata le chiede se è possibile rimanere incinta in maniera inconsapevole, magari proprio in sogno.

[29] Non è l’unica volta che Rohmer riprende in un lungometraggio un tema già affrontato nei suoi documentari pedagogici per la televisione della seconda metà degli anni ’60: noto è, per esempio, il motivo pascaliano che lega Ma nuit chez Maud al documentario Entretien sur Pascal del 1965. Rapporto rovesciato, invece, tra il cortometraggio Bérénice (1954) e la trasmissione televisiva successivamente dedicata a Les Histoires extraordinaires d’Edgar Poe (1965). Per quanto riguarda la presenza in Rohmer della letteratura medievale, si nota che in Ma nuit chez Maud la protagonista eponima (Françoise Fabian) incalza Jean-Louis Trintignant a proposito della sua ricerca della bionda ideale alludendo a Isotta la bionda; uno dei proverbi che accompagnano i sei film del ciclo Comédies et Proverbes, Pauline à la plage, è inoltre ricavato proprio dal Perceval di Chrétien de Troyes («Qui trop parole, il se mesfait»); infine, all’inizio de La Femme de l’aviateur Anne (Marie Rivière) parla con Christian (Mathieu Carrière) della possibilità di amare qualcuno da lontano (ribadendo il concetto durante una discussione con François –Philippe Marlaud– nella seconda parte del film): un riferimento all’amor de lohn cantato dal trovatore Jaufré Rudel? Inoltre, uno degli episodi del film televisivo Les Jeux de societè (1989), dedicato ai giochi di società nella storia della società francese, è basato sul poema del troviere Adam de la Halle Le jeu de Robin e Marion (1285 ca.)

[30] L’interesse suscitato dal film è testimoniato anche da vari e ottimi approfondimenti rintracciabili sul web: si segnalano, in particolare, quelli di Stefania Conte (qui la prima parte, qui la seconda), di Benjamin Fauré e di Chloé Folens. L’operazione rohmeriana, così filologicamente attenta, ha attirato anche l’attenzione dei medievisti: oltre alla discussione tra il regista e Jacques Le Goff all’uscita del film (Perceval le Gallois:Rencontre avec Éric Rohmer et Jacques Le Goff , entretien réalisé par Philippe Blon et Philippe Venault, in «Ça cinéma» 17, mai 1979, pp. 3-25) si vedano i seguenti studi: Paul Zumthor, Le Perceval d’Éric Rohmer : note pour une lecture, in «Revue des sciences humaines», 177 (1980), pp. 119-124; Giovanna Angeli, Perceval le Gallois d’Eric Rohmer et ses sources, in «Cahiers de l’Association internationale des études françaises», n°47 (1995), pp. 33-48Joan Tasker Grimbert, Distancing Techniques in Chrétien de Troyes’s “Li Contes del Graal” and Eric Rohmer’s “Perceval le Gallois”, in «Arthuriana» 10/4 (2000), pp. 33-44; Corneliu Dragomirescu, Le Cinéma à l’épreuve des représentations médiévales : l’enluminure et le théâtre : Perceval le Gallois, d’Éric Rohmer et Henry V, de Laurence Olivier, in «Babel», 15 (2007); Alain Boillat et Stefania Maffei Boillat, L’adaptation rohmerienne du Conte du graal: une performance orale au carrefour des dispositifs, in «Intercâmbio», 13 (2020), pp. 7-35. Ottima anche la scheda dedicata al film da Giulio Fedeli nel volume collettivo Eric Rohmer: la parola vista cit., pp. 195-209.

[31] Uno dei pochi articoli elogiativi dedicati al film alla sua uscita, scritto da Danièle Dubroux, è intitolato Un rêve pédagogique («Cahiers du cinéma», n°299, aprile 1979).

[32] La dichiarazione paradossale, rilasciata da Rohmer a Joël Magny («Cinéma» 79, n°242, febbraio 1979), è riportata da P. Marocco, Eric Rohmer cit., p. 162. Due momenti particolarmente estatici del film, e riconducibili quindi in qualche modo al nostro discorso più generale su Rohmer e il sogno, sono la contemplazione trasognata di Perceval di fronte alla scena delle tre gocce di sangue rilasciate da un’oca sulla neve (immagine che ricorda al protagonista l’amata Blanchefleur); e il finale in cui Perceval ha una visione della Passione di Cristo (un’aggiunta di Rohmer al testo di Chétien che, dando un’interpretazione cristiana alla leggenda celtica del Graal, va nella stessa direzione di quanto fatto dai continuatori medievali del romanzo antico-francese).