Sopra le fiammelle di Psyche® “morenti”, sopra il sangue delle vittime quasi istantaneamente risucchiato da bocchettoni dissimulati nella pavimentazione dell’atrio della stazione e poi fatto defluire lungo scivoli e canalini di scolo fino ai miasmi dell’acqua di Venezia, aleggiava, diffusa da una sorta di vagulo ganglio di altoparlanti variamente biointegrati ovverosia ganglio di utenti del quale al momento anche Luigj Decor faceva parte, la voce religiosamente affranta del fresco di scomunica a divinis don Giorgio Giorgio ––––––– aleggiava sul sangue già scomparso e diremo ormai presso che inesistente delle vittime.
“…ligenze era il nome dato agli angeli che regolavano i moti celesti, mentre oggi, ah! (caricaturalmente) ah, oggi! oggi le intelligenze sono software preposti ai labilissimi nonché vani e vanesi cieli umani, i cieli del piacere, del guadagno, dello sperpero… (Con quella speciale, delicata e mesta ironia cattolica, intrisa di paterna malinconia, un timbro che ormai don Giorgio Giorgio come qualsiasi sacerdote ha interiorizzato – come la nenia con cui lo speaker canta le notizie in TV quando la TV ancora c’era – e che nessuna scomunica potrà ormai sradicare) Intelligenze artificiali! Intelligenze! Dove sono finiti i serafini? Dove i troni e le dominazioni? No, no: no. Come ogni volta che il divino viene a realtà, il risultato è una farsa bella e buona, ovvero sentitemi bene e scrivetevelo in core: Dio non esiste perché l’esistenza lo renderebbe ridicolo. L’apocalisse è un balletto di clown nel piscio di cavallo.”
Nel primo gruppo di sopravvissuti, ricevuta la fatale rivelazione, Decor si preparava ora ad uscire dalla stazione nell’aurora notturna della Venezia aumentata che si dilatava in ogni direzione fuori dalla stazione dei treni, sprofondando in altezze e in profondità abissali –––– abissi beninteso apparenti, e variamente “percepiti” dai visori dei diversi utenti, per lo più turisti in carne ed ossa o proiettati in Psyche® olografiche, talvolta al comando di obsoleti e assai pittoreschi droni da viaggio –––– e mascherando la tenebra del reale. [NOTA: come l’impareggiabile lettore ricorderà, i nomi dei software – nonché i software stessi – vengono costantemente adattati al profilo del singolo utente (“Perché adattarti al mondo quando noi possiamo adattare il mondo a te?” era lo slogan che – anch’esso n-volte automatica- e algoritmica- mente variato per andare incontro alla vastità e comunque sempre meno varia varietà di comprendonii là fuori – sintetizzava la più recente trasformazione di ciò che in quei tempi bui ancora chiamavamo essere umano) in un processo di continuo taglio su misura della realtà interconnettivamente “tradotto” da appositi software in modo che ogni utente, parlando con altri/e utenti, non si scopra completamente isolato/a in una realtà costruita attorno a lui/ei solo/a, cosa che alla lunga logora i nervi; così, per fare un esempio, in questo momento quel che Miloš chiama Psyche® è, per Decor, World+™: se però i due si incontrassero e si mettessero a parlare del software che si nasconde dietro quei due e altri infiniti nomi, ecco che un ulteriore software (anch’esso noto agli utenti con ulteriori infiniti nomi e innumerevoli manifestazioni) tradurrebbe automaticamente tutto quanto per ciascun utente, rendendo il malinteso perfettamente impossibile, un ricordo oscuro del passato, una leggenda al pari di draghi e giganti. Per evitare al nostro squisito lettore ulteriori mal di testa, delusioni o, Dio o chi per lui non voglia, amarezze, noi ci atterremo, salva superiore necessità, alla nomenclatura dell’utente Miloš.]
“Da quanto tempo, ditemi, avete abdicato al vostro regno, al regno che vi era stato dato da Dio (ma fosse stato anche il Diavolo)? Come avete potuto rinunciare così al vostro diritto alla realtà? Questa altra realtà aumentata e da noi idolatrata, in cui ormai fin dalla nascita veniamo fatti accoccolare, è in realtà, scusate il bisticcio questa altra realtà è in realtà a dispetto e anzi per chi ha ancora occhi [NOTA: Le parole di don Giorgio Giorgio hanno una piegatura volutamente sinistra cui talvolta all’ex sacerdote piaceva intercalare un enfatizzante Mt18:9 ovvero Mr9:47: non erano pochi gli utenti che avevano perduto (per scelta, atrofizzazione o logoramento: presso che mai per lo scandalo recato loro dall’organo) i propri occhi in favore di bulbi oculari biointegrati] per vedere in ragione dei suoi colori e della sua ininterrotta e frenetica varietà, essa è vi dico la più vasta e disperata delle baraccopoli, una baraccopoli-Versailles ve lo ricordate l’Età Semuà? una Versailles portatile e biointegrata in cui ogni vostro potere viene risucchiato in una ricerca spasmodica di onori di cartapesta, una baraccopoli-vampiro che risucchia ogni vostro umore e ogni ultima risorsa del pianeta per nutrire la luce di quest’altro mondo, sì, è così, miei cari, è così: noi già viviamo ormai, (pausa enfatizzante; poi, quasi sospirando e quasi ti pare di vedere le braccia che gli cadono) nell’altro mondo… Una baraccopoli ubiqua e apolide le cui baracche siamo noi stessi. Eden parassita.”
Su «Eden parassita» i parametri di tolleranza adottati nella Psyche® (/World+™) di Decor fecero torcere le invisibili antenne di lumaca dell’utente verso una diversa ma il più possibile analoga (così aveva richiesto l’utente ovvero il software preposto alla gestione dei parametri della Psyche® di Decor sulla base dell’esame dei dati psicosociali forniti da un terzo software) emanazione. Conclusa la disinfezione del suo gruppo e la rimozione delle ultime eventuali particole di sangue dalle suole delle scarpe gli utenti del gruppo di Decor ricevettero ciascuno secondo ana-/co-/para-/post-/pre-determinata necessità la dose di stabilizzatori dell’umore fissata con decreto automatico limitatamente all’area spaziotemporale dell’attentato appena manifestatosi. [NOTA: L’incrudelire nonché il fertilissimo proliferare di cellule terroristiche della più varia estrazione e ispirazione, assieme alla finora ininterrotta e a quanto sembrava allora implacabile accelerazione del progresso tecnologico, e segnatamente lo scacchistico immillarsi e immilionarsi di quanto mai secolari “intelligenze”, avevano determinato la necessità di conformemente velocizzare l’emissione e l’approvazione delle leggi regolamentanti o sanzionanti i nuovi crimini e i nuovi strumenti. Era sembrato al legislatore un compromesso accettabile quello dell’istituzione dello SDIIL, Super-Decreto Istantaneo Iper-Localizzato (l’imbalordire catastrofico delle istituzioni venendo ogni volta festeggiato – ossia pietosamente mascherato – con un qualche superlativizzante prefisso), la cui redazione veniva affidata a super-intelligenze (…) parlamentari che poi convogliavano i dati legali ai software esecutivo-giudiziari [NOTA alla NOTA: L’industrioso lettore si occupi ogni tanto anche lui delle note, però: e ricordi quanti grandi e anche grandissimi sono diventati tali per puro furore commentativo] che tra le altre ramificatissime incombenze si occupavano anche di tenere costantemente aggiornato lo stato legale dell’utente, stato che per l’utente si manifestava – al solito a seconda delle preferenze di ciascuno – nella forma di una sorta di contatore comunemente detto “legalometro” che indicava l’approssimarsi o meno dell’utente alla c.d. “anticamera”, anticamera del tribunale ossia, data la parallelamente crescente rapidità con cui si svolgevano i processi per le violazioni ai SDIIL, del carcere –– ogni singolo utente venendo quindi tenuto costantemente sotto un processo la cui accusa era in continua mutazione ovvero aggiornamento; come un giudice con il martello sempre a mezz’aria: paralizzati, lui e l’imputato, in una eleatica pietrificazione del processo lungo miriadi di segmenti di sempre nuove e sempre di nuovo estinte e rinate colpe e pene ––– «La Legge è uguale per tutti ma non è mai uguale a se stessa» celiavano ma non poi tanto alcuni utenti citando i fogli di un tal Lapin, fogli che nel momento di cui stiamo parlando erano sotto esame della Censura Straordinaria e quindi secretati per la sicurezza dell’utenza tutta.]
“Tornando a Gemini, è di capitale importanza per comprendere il tormento di questo segno soffermarsi sul corrosivo sospetto, dal quale tutti i nati in questa costellazione sono attanagliati, che uno dei gemelli non sia che l’emanazione dell’altro: un diafano e perciò diabolico riflesso nell’acqua…”
Senza interrompere l’emanazione zodiacale prescelta dalla propria Psyche® (c’era già chi proponeva di incorporare gli algoritmi preferenziali nei profili psicologici degli utenti onde perfezionarne la cura psicologica e il dosaggio dei farmaci d’emergenza –– diciamo, semplificando rozzissimamente, che gli algoritmi preferenziali affiancavano ora inconscio, io e super-io nella strutturazione della persona ossia che tanto ormai è lo stesso dell’utente), Decor riattivò la “lettura” del suo Libro per il Bagnetto.
I primi passi del ciclo di romanzi algoritmici noto (all’utente Decor) come Libri per il Bagnetto erano stati da un lato modesti, dall’altro oltremodo lungimiranti, se si considera che lo sviluppo o più propriamente l’autentica evoluzione dei software per il romanzo algoritmico avevano gettato le basi per gran parte della successiva programmazione a misura di singolo che ora caratterizzava sempre più aspetti della vita aumentata degli utenti. Gli ideatori del software che avrebbe dovuto realizzare il ciclo di romanzi avevano voluto cominciare con libri di relativamente semplicissima ideazione, e cioè libri per utenti neonati: libriccini più che libri, e di gomma, lunghi quattro gommose e coloratissime pagine con cui giocare durante, appunto, il bagnetto. Il primo “volume” era stato perciò Mamme e Papà: tale almeno il titolo per l’utente Decor: a ciascun acquirente era stata infatti consegnata una copia conforme ai dati personali resi disponibili dalle varie piattaforme. E così altri avevano ricevuto invece Mamme o Fratelli maggiori o Istituti etc., per un volumino privo di un qualsiasi sviluppo narrativo nel quale ad ogni pagina corrispondeva una qualche bestiola insieme alla mamma e al papà (questo per Decor), o (per altri utenti) assieme alla sola mamma, o alle mamme, o a-l/-i papà, o accolta in un simpatico villaggio di bestiole simili a lei e così via di singolo in singolo, concludendosi infine (il volumino) nel quadretto corrispondente all’immagine della famiglia dell’utente o (in casi più rari) ad un’immagine familiare umana che il software aveva giudicato adatta per particolari utenti. Tale era stato il caso appunto di Decor, il cui primo Libro per il Bagnetto ritraeva, nell’ultima pagina, non lui con sua madre e suo padre bensì una bambina col frac insieme a un padre giocoliere. Anni dopo, ritrovando quel libricino che naturalmente aveva del tutto dimenticato, la figurina stilizzatissima della bambina col frac aveva punto Decor di una buffa commozione nostalgica tra le piume della quale non aveva saputo riconoscere, ahilui, gli artigli rapaci dell’amore.
“…tendenza di Gemini a fare e disfare di continuo: talvolta con penelopica astuzia, talaltra con sisifea disperazione…”
Dopo una serie di libricini analoghi sempre più complessi (e sempre meno impermeabili) in cui i bambini o le bambine protagonisti/-e vivevano avventure minime nelle quali la presenza degli animali non veniva mai meno (La mia casa, I miei giochi, Facciamo colazione, La mia casa aumentata, Tutti a nanna, Chi ha paura delle punture? e così via) era previsto che il ciclo evolvesse a braccetto con le capacità di comprensione dei propri utenti, possibilmente accompagnandoli fino all’età adulta e oltre. Contestualmente il protagonista dei vari cicli sarebbe (o non sarebbe: molto dipendeva, come si vedrà, dai lettori di questi romanzi artificiali) invecchiato attraverso i volumi. Al momento l’ambiziosissimo e tentacolare ciclo dei Libri per il Bagnetto aveva raggiunto i trentadue anni di età (qualche anno in più di Decor), passando attraverso volumi di fiabe, libri fantasy, gialli per ragazzi, narrativa horror, fantascientifica, umoristica, realistica… cominciavano ora, per gli utenti di vecchia data, a profilarsi contenuti erotici. Seguendo una strategia che già in altri casi si era rivelata vincente, l’algoritmo romanzesco si era sviluppato seguendo il ritmo e le fasi di sviluppo dell’essere umano: se un libro per neonati è tutto sommato un obiettivo facile da raggiungere per un programma di scrittura artificiale, le cose nel giro di pochi anni si complicavano esponenzialmente. Se a furia di ricombinare e raffinare istruzioni si poteva insegnare a una macchina a scrivere un romanzo, non sembrava possibile ridurre il gusto estetico, che a sentire il comitato di (per lo più stizziti dalla prospettiva di poter essere sostituiti da una macchina, e pertanto giudicati non sempre affidabili dall’équipe di programmatori) scrittori era preposto, tale gusto o (i programmatori si passavano una mano sulla testa guardando da un’altra parte con imbarazzo) senso estetico, alla struttura, composizione, forma, anima (i programmatori si alzavano per prendere un bicchiere d’acqua) del romanzo, non era si diceva o non sembrava (non ancora, secondo i più irriducibili tra i programmatori) possibile ridurre ad un insieme di istruzioni. Uno degli scrittori, un tale Valmarana che per la verità non aveva mai scritto un rigo ed era entrato nel comitato su delega dello scrittore inizialmente indicato, aveva suggerito che alla costruzione del senso estetico contribuissero elementi come la paura della morte, la fame e la sete, tutti aspetti cioè che sono intrinseci della carne e dalla quale la macchina è probabilmente destinata a restare esclusa: aspetti che potrà simulare ma mai effettivamente provare. “Il test di Turing definitivo”, aveva concluso in modo un po’ sibillino quel tizio facendo però con ciò alzare un paio di teste programmatorie e magari chissà, avviando proprio con quelle parole il movimento decisivo di ingranaggi mentali, “Il test di Turing definitivo non è quello che la macchina supera con l’uomo, ma quello che la macchina supera con se stessa: così come solo noi stessi possiamo darci prova del nostro essere coscienti; e pertanto il test di Turing è in partenza una dimostrazione destinata a fallire: che forse ha sempre voluto fallire.” Naturalmente nel quadro direttivo nessuno aveva voluto dare il minimo peso (che avrebbe alla lunga significato peso economico) alle parole del tizio (anche l’uso di chiamarlo costantemente tizio faceva parte di una collaudata tecnica obliante). Ma, come che sia, era stato dopo quella riunione che alcuni programmatori si erano finalmente seduti davanti alla tastiera, si erano scrocchiati le dita e si erano messi a lavorare sul serio al problema estetico dei Libri per il Bagnetto.
“…i gemelli che nei Tarocchi compaiono, quasi eclissandolo, nell’arcano del Sole. I due fanciulli nudi stanno lottando? Giocando? Ballando? Si sono appena incontrati? Queste e mille altre domande perseguitano ogni Gemini nell’ininterrotto dialogo con se stesso. Dietro i due gemelli dei Tarocchi, un muro: ciò che resta della Torre dopo il crollo, o prima fondazione di quella stessa Torre, di un’intera città? Di fronte ad ogni costruzione, Gemini riconosce un detrito o una promessa, e in ogni caso un rischio. In Gemini alligna un istintivo e quasi sempre oscuro timore verso qualsiasi costruzione, parallelo a una demonica nostalgia dell’Eden.”
“Il nuovo software preposto alla stesura dei futuri Libri per il Bagnetto”, aveva spiegato uno dei quadri dell’azienda multinazionale le cui origini risalivano, rispetto ai tempi e alle età di organismi consimili, a epoche preistoriche, ad una bottega di stampatori di carte da gioco che aveva iniziato la propria attività nientemeno che nel XVII secolo, “registra un aumento esponenziale della bellezza dell’opera ossia, per usare termini più familiari al quadro, della soddisfazione dell’utente nel momento in cui al lettore è concesso, senza che ciò venga esplicitato al lettore stesso, questo è fondamentale, all’ignaro lettore stesso viene concesso un accesso al processo scusate la rima al processo decisionale e creativo che porta alla realizzazione dell’opera. Il gusto del lettore, catturato previa estrazione dai dati della sua vita aumentata, permette al lettore di intridere di sé, inconsapevolmente, l’opera nel momento stesso in cui viene letta: è durante la lettura stessa che il programma dà all’opera la forma finale.” (Tutta questa insistenza sull’inconsapevolezza del lettore da parte del quadro faceva parte di una sorta di coazione alla subliminalità che affligge presso che tutte le grandi aziende commerciali. La convinzione è che l’utente inconsapevole è un cliente più fedele, in quanto sono state messe in moto le sue forze profonde, inconsce, quelle che lo governano realmente e contro le quali è del tutto impotente. Dietro questa convinzione, del tutto errata, non ci sono nemmeno spinte legate all’avidità e al guadagno: si tratta più banalmente del piacere che prova ogni prestigiatore a nascondere il trucco agli spettatori, o più in generale la voluttà di sentirsi superiori al proprio prossimo; la soddisfazione di sentirsi più furbo del cliente, di averlo sia pure in misura infinitesimale fregato.) “Non accade poi granché di differente con i libri come sono stati letti e scritti fin qui: il lettore intride di sé il testo, e viceversa. C’è insomma sempre stato nell’atto della lettura un gesto creativo e non meramente ricettivo. [NOTA: Certa tenue orroricità dell’imagerie qui dispiegata ci fa sospettare che anche in questo discorsetto del quadro siano state fagocitate le considerazioni di un certo chissà chi tizio…]. Affidando la stesura del testo ad un software abbiamo semplicemente spostato ovvero reso più liquido il confine tra autore e lettore, che ora si può dire nei Libri per il Bagnetto formano un unico organismo creativo, una sorta di essere siamese il cui controllo finale, ci piace ricordarlo, è finalmente in mano al lettore.”
“Eden: tempo e mondo in cui non c’erano muri. Talismano e tabù di Gemini, il confine, e lo sconfinato giardino. In Gemini c’è sempre un terzo elemento che non si deve (che non si può) dimenticare mai, ed è la linea che li divide, stabilendone una volta per tutte il rispettivo esserci. Linea che a volte si rivela essere d’acqua… Al culmine della mescolanza di forme, Gemini, mostro tra i più terribili: cosa accade quando mescoli l’uomo con l’uomo? Si indovina l’allusione ad una diversa possibilità, asessuale di moltiplicazione, un Adamo dopo l’altro: era anche quella o no una delle opzioni? Gemini suggerisce e teme che di ogni cosa, da qualche parte dell’universo, debba esserci una copia: e quindi anche dell’universo stesso. Incubo ricorrente di Gemini: siamo noi la copia fallata, siamo noi Remo che saltella sopra la linea tracciata nella sabbia, in attesa che Romolo lo faccia a pezzi e dia vita all’Impero.”
Nei Libri per il Bagnetto di Decor, la bambina col frac non era mai invecchiata, né si era mai imposta come protagonista. Non sapendo bene decidere se si potesse trattare di un bug nel suo programma o di un qualche imprevisto effetto della combinazione tra l’algoritmo del software scrittore e la struttura della propria Psyche® (in barba al discorsetto di cui sopra, una volta che si era scoperto il modo in cui funzionava la produzione dei Libri per il Bagnetto il prodotto era definitivamente decollato, diventando ossia venendo adottato dai lettori come una sorta di specchio o lente narrativa per scopi che in parte trascendevano quelli di un libro tradizionale, ponendosi né al di sopra né al di sotto bensì a lato di questo –– ma su ciò occorrerà ritornare, per ora chiudiamo e torniamo a Decor) Decor aveva lasciato che il proprio ciclo di romanzi personalizzati progredisse in questo modo eccentrico, concedendo volentieri l’accesso ad altri software che nel tempo si erano affiancati al software principale, con un tipico processo di aggregazione probabilmente non dissimile dalla formazione delle prime comunità preistoriche; quel giorno come già altre volte Decor concedette che i software comunali di Venezia interagissero con il software dei Libri per il Bagnetto in modo che la sua passeggiata a Venezia si convertisse in una specie di sogno in cui gli elementi della città sarebbero stati riflessi e de-/ri-formati dal software per il capitolo che stava per leggere. Naturalmente, questa passeggiata in condizione diciamo così di allucinazione lucida sarebbe stata sorvegliata dai software comunali che avrebbero impedito a Decor immerso nel proprio romanzo di cadere in un canale credendo di stare salendo delle scale. Radunato e istruito questo piccolo manipolo di software, Decor avviò dunque il proprio Libro per il Bagnetto e uscì dalla stazione di Venezia.
***
[NOTA: Per dare al lettore una – pallidissima – idea di ciò che rappresenta la fruizione di un Libro per il Bagnetto, la narrazione passa alla prima persona]
Riassunto dei capitoli precedenti del Libro per il Bagnetto, licenza d’uso riservata al sig. Luigj Decor: Il protagonista e una donna con la quale non è certo di essere sposato entrano in un museo collegato, attraverso un’intercapedine, con un parco acquatico simile a un palazzo dagli azzurri pavimenti resi scivolosissimi da un immaginario secolare viavai burocratico. Nel frattempo, non visto, un subdolo parassita sta divorando un occhio del protagonista.
«E così, fra le grida di chi lotta per restare, i rumori dei tacchi puntati contro i pavimenti come grandine o molte bocche che schioccano insieme, i sibili desolati dei corpi che scivolano, si fa fatica a parlare – più si sale più diventa difficile salire, anche se questo non ha molto senso, come mia moglie fa notare alla guida, dato che se la vetta del/i museo/i (che ormai mi immagino come una specie di deformazione conica della volta celeste, un asintoto di corridoi paralleli che si perdono nella stratosfera) è stata raggiunta da pochissime persone, forse anzi da nessuno, forse persino i costruttori hanno portato il vertice azzurro e si sono limitati a sistemarlo senza salirvi sopra, se fosse così allora salendo bisognerebbe trovare sempre più attrito, e i pavimenti dovrebbero essere meno levigati, e riflettendoci trovo che mia moglie ha ragione, e a quel punto è come se la spugna grigia, la trippa grigia del mio cervello ruotasse su se stessa dentro il cranio, grattando contro le pareti e riaprendo le crepe delle ossa.
Mi controllo le spalle e il petto casomai mi stesse uscendo sangue dal naso o dalle orecchie – mia moglie fa con la mano un movimento a spolverino, come se il sangue liofilizzasse uscendo dalle orecchie. Naturalmente il fatto del pavimento asintotico era solo un’illusione ottica, una delle attrazioni del/i museo/i. Come ho fatto a non accorgermi che le persone che scivolano lungo i corridoi salutano con la mano chi sta ancora salendo, poi ruotano su se stesse e fanno tutte le operazioni di chi si raddrizza su un lungo scivolo, e c’è persino chi alza le braccia e lancia un grido festoso?
La guida ha trovato il punto in cui aprire l’ingresso all’altra ala. È una delle cose che rendono difficile la convivenza di due diverse amministrazioni nello stesso stabile, passare da un parco dei divertimenti a un museo della radio.
Altre persone si sono accorte delle manovre della guida – in tutte le case stregate ci sono manopole di sicurezza come quella usata adesso dalla guida; io stesso in quel momento ricordo di quando lavoravo nel castello di Dracula – e hanno abbandonato gli scivoli azzurri per seguirci, e alcuni avvocati/inservienti/addetti agli scivoli non hanno l’aria troppo contenta vedendo quante persone stanno abbandonando la giostra – alcune di loro si avvicinano alla guida (c’è persino chi indossa un costume da bagno) tenendo per mano i propri figli e chiedono che cosa ci sia dietro la porta che lentamente ha disegnato i suoi angoli retti nella parete in cui era stata dissimulata, rompendo con il suo cono di luce l’illusione degli scivoli azzurri, e si vede benissimo che queste persone in costume da bagno si aspettano che oltre la porta ci sia un’altra attrazione, e tornano agli avvocati/addetti un po’ contrariati quando la guida mostra loro la ripidissima scala di legno che porta alla seconda ala.
La scala di legno passa per quella che mi pare essere un’intercapedine – che probabilmente divide le due ali del/i museo/i – molto polverosa e dalle pareti irregolari, quasi un budello che fa venire in mente certi vicoli di certi villaggi di montagna, vicoli casuali e inutilizzabili se non dai bambini e dai gatti, e a gesti ci fanno segno (le persone in costume da bagno) di avere almeno la gentilezza di accostare la porta perché la luce che ne esce sta rovinando il loro divertimento, e già nelle parti più basse degli scivoli si stanno creando degli ingorghi. La puzza dell’acqua di Venezia (verso cui presumo siano diretti gli scivoli) sembra aver intriso del proprio marciume le pareti dell’intercapedine. Alcuni bambini cominciano a piangere. Un vecchio signore che accompagna la moglie osserva stoicamente l’intrico di scale di ferro sotto gli scivoli, incastrato tra la moglie e un’altra donna. Anche nella scala dentro l’intercapedine c’è confusione perché alcune persone in costume da bagno si erano già intrufolate nel budello – muri intonacati a fresco, irregolari, con una volta ad arco acuto e una scala talmente ripida che viene da chinare la testa salendo, e le mani, non fosse che la scala è affollatissima, toccherebbero i gradini successivi, e oltre all’acqua di Venezia si sente odore di legno e di chiuso, come in una vecchia cantina, come in quei racconti che parlano di persone murate vive dentro una cantina, chissà quante di quelle storie sono vere – sono entrate nell’intercapedine pensando che le ripide scale di legno portassero a un nuovo scivolo, così adesso in cima alle scale si è creato un ingorgo: le persone in costume da bagno che sono arrivate in cima alla scala, essendosi finalmente rese conto dell’errore, vorrebbero tornare indietro – tra l’altro nell’intercapedine adesso c’è molta corrente, e all’odore di chiuso si sta mescolando la puzza di cloro che viene dagli scivoli ovvero dagli uffici azzurri con la quale si cerca di contrastare il puzzo di acqua marcia –– al momento non riesco ancora a capire se fuori dall’intercapedine c’è un lunapark acquatico o un complesso di uffici. Il cloro, rifletto poi con un filo di allarme, potrebbe rovinare i circuiti radiofonici più delicati o antichi degli esemplari del museo in cima alla scala. Nonostante la scala sia molto lunga e sia stata sicuramente progettata in modo da impedire che il cloro delle piscine contamini le radio, è certamente stata un’imprudenza unire in una medesima struttura un parco acquatico e un museo radiofonico, e a questo punto mi sembra indubitabile che qui si debba trattare di due amministrazioni diverse in un unico stabile.
Ma ad impedire di salire (ovvero scendere) alle persone in costume da bagno che sono arrivate in cima all’intercapedine c’è un secondo gruppo di persone in costume da bagno, un po’ più arretrato, diciamo a metà strada della scala, che spinge per salire né presta alcun ascolto alle spiegazioni delle altre persone sulla scalinata, né si lascia convincere dal fatto che altre persone in costume da bagno, in cima alla scala, chiedono con gesti e grida sempre più nervose che venga liberato il passaggio; quanto alle persone vestite, che con ogni evidenza sono intenzionate ad arrivare in cima all’intercapedine e hanno, almeno loro, perfettamente chiaro il fatto che in cima alla strettissima scala troveranno un museo radiofonico, si ritrovano anche loro divise in due gruppi: quello alla base della scala, che sente solo le proteste del gruppo di persone in costume da bagno che si trova a metà scala, e che pertanto, credendo che in cima ci sia qualche idiota che impedisce alle persone di salire, per metà si unisce alle proteste delle persone in costume da bagno a metà scala e per l’altra metà – e tra quella metà ci siamo anch’io e mia moglie – si è reso conto, soprattutto anche grazie alle spiegazioni della guida, del problema e cerca di invitare le persone in costume da bagno a scendere dalla scala, ma senza gran risultati, perché questa metà del primo gruppo delle persone vestite si trova ai primi gradini o, come appunto io e mia moglie, all’ingresso della scala, e tra l’altro non riesce a farsi indietro con la sufficiente convinzione perché nel locale degli scivoli tutti, clienti, guide e funzionari, protestano in modo sempre più sgarbato ogni volta che la porta dell’intercapedine viene aperta troppo, svelando l’illusione degli scivoli azzurri e bloccando il movimento dei bagnanti verso i canali di Venezia. Il secondo gruppo di persone vestite si trova tra il primo e il secondo gruppo di persone in costume da bagno, compresso tra due opposte spinte e, al momento, occupato nel puro e semplice mantenimento del proprio spazio vitale. “Probabilmente”, sussurra a questo punto mia moglie, “le persone in costume da bagno a metà scala pensano che le persone in costume da bagno in cima alla scala vogliono scendere semplicemente perché la scala le ha portate davanti a uno scivolo vertiginoso, ripidissimo, talmente lungo che la sua fine resta invisibile, persa in una nebbia di cloro, una di quelle giostre in cui il confine tra divertimento e tortura viene finalmente abolito.” Le do un bacio.
“Ed è per questo”, sussurra ancora mia moglie, “che le persone in costume da bagno in cima alla scala se ne vogliono andare”, o almeno questo è quello che mia moglie crede credano le p.i.c.d.b. a metà scala, mentre le persone in costume da bagno a metà scala desiderano precisamente quel tipo di giostra/tortura, e se un lunapark non contiene almeno una giostra di quel tipo allora non è altro che una perdita di tempo, e ogni tanto qualcuno si stacca il costume colorato dalle natiche (qui, suppongo, mia moglie ha smesso di sussurrare, anche se tutte queste cose mi vengono esposte in una forma simile a quella di una descrizione verbale, ovvero la sensazione è quella di raffigurarmi una cosa immediatamente dopo che mi è stata descritta; è come una ricezione della descrizione, senza la descrizione, la sensazione di aver sentito un bisbiglio ma senza alcun bisbiglio, ma tutto quello che ho davanti è come se lo avessi davanti perché mia moglie me lo bisbiglia all’orecchio, di fatto io non vedo assolutamente nulla, né mia moglie sta dicendo alcunché) pinzandolo con due dita, e alcuni di loro si guardano intorno con calma come dire western, la calma di chi è disposto ad aspettare in coda anche per diverse ore, perché ne vale la pena, e queste persone molto calme, per lo più uomini in costume da bagno, non prestano la benché minima attenzione alle persone vestite che, dietro e davanti a loro, cercano, con una gamma di intensità che passa dall’invito alla supplica alla minaccia, di far loro capire che hanno sbagliato entrata e che quella scala non conduce a nessun divertente/torturante tipo di scivolo, ma solo a un vecchio museo radiofonico, quanto di meno adatto a persone in costume da bagno con calmi occhi da cowboy come loro, e che il lunapark è in fondo alla scala, dove dovrebbe essere, fuori dall’intercapedine, ed è a questo punto che dal/i lunapark/uffici qualcuno, sicuramente un funzionario, si avvicina alla nostra porta e la chiude a chiave.
E così adesso l’unica pallida luce viene dalla cima delle scale che, ci rendiamo conto solo ora, è molto più lontana di quanto ci fosse sembrato all’inizio, il che significa che le persone in costume da bagno che credevamo fossero in cima alla scala sono invece, effettivamente, a metà, e il secondo gruppo di persone in costume da bagno è invece a un quarto della scala, il che ci costringerebbe a rivedere le nostre supposizioni riguardo i pensieri e sentimenti del gruppo più avanzato, nonché ad immaginare altri gruppi ancora più in alto nelle più remote altezze dell’intercapedine, in balìa di emozioni desideri e pensieri che da quaggiù appaiono inattingibili. Con un sospiro che fa capire che non è la prima volta che una situazione del genere si verifica nell’intercapedine, la nostra guida apre un piccolo sportello contenente dei tubi di ferro simili a quelli che si usavano una volta per comunicare i propri ordini alla servitù. Tutti i tubi sono chiusi da coperchi di latta simili a quelli per il miele o le marmellate. Anche se non la vedo, sento che mia moglie sta sorridendo. Il freddo dell’intercapedine mi lascia respirare, altrimenti sono certo che avrei una crisi di claustrofobia. Ripenso ai casellanti autostradali. I casellanti ancestrali. La nostra guida svita uno dei coperchi e inizia a parlare dentro il tubo – buffo che il personale di un museo radiofonico usi di quei congegni per comunicare.
Come leggendomi nel pensiero, la guida mette una mano sul tubo aperto e mi spiega, facendo attenzione, almeno così mi pare, che mia moglie non senta la sua spiegazione (tutti quanti quando si rivolgono a me non fanno che bisbigliare), che dentro il museo radiofonico diverse apparecchiature sono tenute ancora in funzione, e la varia natura delle onde radiofoniche emesse dagli apparecchi, unita a una qualche non meglio identificata caratteristica delle leghe usate nella costruzione dello stabile o ––– qui la sua voce diventa quasi impercettibile, quasi un remoto rumore bianco ––– degli scivoli, fa sì che si crei una specie di gabbia radio (gabbia radio che –––– ora la voce è poco meno di un’interferenza proveniente da distanze stratosferiche –––– è uno dei pezzi esoterici della raccolta del museo) che disturba in modo irreparabile qualsiasi tipo di trasmissione, ed è per questo che i vari uffici/scivoli del/i museo/i/lunapark sono stati collegati tra loro con questo sistema così pittoresco (il volume della sua voce ora è tornato normale, e devo quasi portarmi le mani alle orecchie, per non esserne abbagliato). La guida riprende a parlare nel tubo, spiegando alla persona all’altra estremità che, a quanto le è parso di capire, alcuni clienti dell’aquapark sono finiti nell’intercapedine e ora sulla scala d’ingresso c’è parecchia tensione.
La guida ha ragione, e anche se di certo non è la prima volta che succedono cose del genere, la calma con cui le persone vestite parlano alle persone in costume da bagno per spiegare che le scale non porteranno a nessun tipo di terrificante e definitivo scivolo acquatico, la calma con cui di rimando le persone in costume da bagno fissano le persone vestite quasi senza vederle come se stessero guardando le proprie ombre proiettate sulle pareti irregolari dell’intercapedine, è una calma tesa, e manca giusto una melodia di armonica à la Morricone, flashback di violenze terrificanti e incancellabili che hanno per vittime/carnefici persone vestite e in costume da bagno a seconda di quale sia il cervello ospitante il flashback, come un tessuto al limite di rottura, perfettamente immobile un attimo prima di strapparsi, così comincio ad avere paura per mia moglie. Vorrei uscire subito dall’intercapedine ma attraverso il tubo alla guida viene comunicato che il passaggio all’intercapedine è stato momentaneamente bloccato per impedire ulteriori errati ingressi di altre persone in costume da bagno.
Alcuni altri infatti, fiutando per così dire la giostra, si sono avvicinati alla porta mimetizzata, palpando le pareti alla ricerca del meccanismo per aprirla, certi che la ricerca del meccanismo in questione faccia parte del divertimento. Attraverso la porta possiamo sentire risatine e strusci di mani. Quanto a far entrare le persone in costume da bagno del museo radiofonico in modo che si rendano conto una buona volta dell’errore con i loro stessi occhi (e sembrerebbe la proposta più ragionevole) neanche parlarne. Il cassiere del museo radiofonico non accetta i pass del parco acquatico – collanine di gomma colorata che i bagnanti portano al collo o, con doppio giro, ai polsi – e, d’altra parte, è facile immaginare che nessuna delle persone in costume da bagno abbia con sé il portafoglio, senza contare che molto facilmente, anche nel caso improbabile che qualcuna delle persone in costume da bagno abbia i soldi per entrare nel museo radiofonico, questa persona una volta dentro non si accontenterebbe di girare i talloni ed andarsene, ma vorrebbe sicuramente esaminare per bene ogni angolo del museo, e segnatamente gli apparecchi più grandi, pittoreschi, bizzarri e perciò stesso antiquati e fragili, alla ricerca di una leva che le spalancasse uno scivolo nascosto e terrificante, il sacro Graal di tutti gli appassionati di parchi acquatici, incurante (la persona in costume da bagno) di qualsiasi discorso dissuasorio le (alla persona in costume da bagno) venga rivolto, lasciando dappertutto le sue orme bagnate e infastidendo (mi pare quasi di vedere il cassiere del museo radiofonico fermare le persone in costume da bagno, magari addirittura bloccandole mettendo una mano contro il loro petto umidiccio e asciugandosela poi contro la giacca) i visitatori “autentici” con il suo aspetto umido e l’odore di cloro.
“Per il momento siamo bloccati”, dice la guida riavvitando il tappo per le marmellate sul tubo di metallo. “Non possiamo far altro che aspettare”, conclude, in un modo che mi appare nello stesso tempo ragionevole e completamente insensato, dato che se è vero che non c’è altro da fare, quello che resta da fare non può che portare a nulla.
Per la verità il tappo è di quelli per i vasetti di miele, tutto disegnato a cellette esagonali dorate. Sento dei gatti miagolare da lontano. Dev’essere una qualche interferenza radiofonica. Che l’intercapedine sia una sezione della gabbia radiofonica, il pezzo esoterico di cui parlava la guida, e che questa sia in realtà una sorta di selezione sub rosa per capire quali sono i visitatori degni di visitare tutte le ali del/i museo/i, costume o non costume? Dopo un po’ che aspettiamo, dagli scalini più alti arriva la soluzione: faremo, tra noi gente vestita, visitatori autentici, una colletta per pagare il biglietto agli irriducibili in costume da bagno. Ci toglieremo (chi può) giacche e calzini e li daremo in prestito alle persone in costume da bagno in modo che non lascino orme umidicce nel museo radiofonico e non disturbino troppo mentre procedono a verificare coi loro occhi che la loro speranza che la madre di tutti gli scivoli acquatici si nasconda tra gli apparecchi radiofonici è del tutto vana.
(Tra l’altro tra le persone vestite sta cominciando a farsi strada l’idea che, dopotutto, un qualche scivolo nascosto ci debba davvero essere nel museo. Alcuni allentano la cinta quel tanto da controllare di avere indosso mutande abbastanza scure da essere scambiate per costumi da bagno.)
L’apparecchio radiofonico, una volta che ce lo troviamo davanti – si sono uniti a noi un signore e sua figlia, provenienti dal gruppo delle persone in costume da bagno –– il signore ha ricevuto una giacca di velluto marrone e dei calzini verdi, la bambina un frac talmente grande che ha dovuto avvolgersi le code intorno alla vita a mo’ di cintura turca, e dei calzini da uomo arrotolati sulle caviglie e penduli sulle punte come babbucce rinascimentali ––– il signore, alla mia domanda su chi mai fosse venuto al museo/lunapark con un frac, mi risponde che molti dei visitatori autentici portano con loro delle sporte di plastica piene di vecchi calzini e giacche rotte, ben sapendo che incidenti come quello appena capitato sono assai frequenti ––– –– – sembra un piccolo altare di legno, un cofano portaostie decorato con icone tardoantiche.
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L’apparecchio radiofonico sembra un piccolo altare di legno, un cofano portaostie decorato con icone tardoantiche. Uno degli impiegati del museo si occupa di rifornire il macchinario del carbone necessario. La fornace è poco sotto le icone, appena visibile. Il funzionario porge un pezzetto di carbone alla bambina col frac. Lo sportello della caldaia ricorda quello dei vecchi treni a vapore, e l’intera operazione di rifornimento del combustibile è del tutto analoga a quella ferroviaria, solo miniaturizzata e considerevolmente più pulita. I pezzetti di carbone sono tagliati a cubetti e ordinatamente disposti su un vassoio d’argento e vengono raccolti dall’impiegato con una pinza da pasticcini anch’essa d’argento. Vassoio e pinza hanno un aspetto, quantunque sicuramente antico, non frivolo, linee molto razionali e radiofoniche, e nell’insieme l’intera operazione non ha niente di bizzarro. La bambina col frac prende il pezzetto di carbone con le dita e per un attimo sembrerebbe quasi che voglia addentarlo, poi lo butta nella fornace. Il pezzetto, per via delle dita ancora bagnate della bimba e forse anche del cloro, sfrigola più degli altri, e per un attimo la trasmissione è disturbata da rumori elettrostatici. La bambina resta accucciata vicino allo sportello della fornace ad osservare i tizzoni incandescenti, le code del frac sciolte a terra. “Pare che gli ufficiali dell’Armata di Waltzwaltz, durante la Rivoluzione Austroamazzonica, utilizzassero la piccola caldaia per punire i disertori, carbonizzando loro una mano o un piede, anche se potrebbe trattarsi di una leggenda diffusa dall’Armata di Schwarzschwarz”, dico per far vedere che non sono un visitatore sprovveduto. La bambina chiede se sto parlando degli scacchi, o magari di due mazzi di carte. Vista così dall’alto la bambina, con le due code di frac dietro di sé, sembra la grossa testa di un lupo o di un toro disegnata da un bambino, anche se per me l’illusione è senz’altro facilitata dal parassita che mi sta divorando l’occhio. L’impiegato finalmente apre lo sportello a icone dell’apparecchio per mostrarci il congegno radiofonico. All’interno lo stile delle immagini sacre è in effetti più simile a quello delle carte da gioco, anche se l’impiegato, seguendo il nostro sguardo divertito, ci fa notare come la struttura di queste particolari carte da gioco sia alquanto più complessa di quelle abituali. Dato che la dimensione degli sportelli dell’apparecchio non permetteva di raffigurare un mazzo regolamentare da 52 carte (esclusi i jolly) a meno di sacrificare irreparabilmente l’accuratezza dell’immagine, i costruttori della radio avevano optato per la creazione di particolari carte in grado, ciascuna, di svolgere la funzione di ben quattro carte regolamentari. Per fare ciò, è stato sufficiente utilizzare, in primo luogo, anche il verso di ciascuna carta, che così risulta utilizzabile su ciascuno dei lati; inoltre, al posto di avere, come nelle carte regolamentari, di fatto due re, poniamo, di cuori, uniti tra loro per la cintura, le nuove carte radiofoniche presentano su ciascun lato due figure diverse unite tra loro, per un totale di quattro figure per ogni carta. Mentre parla il funzionario ci mostra uno degli sportelli, il cui meccanismo è stato appositamente lasciato libero di scorrere in modo che la carta raffigurata possa essere esaminata per recto e verso, e per diritto e rovescio, e possiamo verificare con i nostri occhi che in una sola carta sono stati raccolti insieme Giuseppe, Maria, l’asino, e il bue, ciascuno con il proprio seme. Il Cristo, su un’altra carta il cui verso però non possiamo vedere, è stato accoppiato con il Jack di fiori; quest’ultima, ci fa notare la guida, è una carta particolarmente difficile da usare, dato che Cristo e il Jack di fiori, come ciascuno sa, sono quasi identici, e il cosiddetto “Cristo di fiori” è uno dei più vecchi e, per un giocatore minimamente avvertito, insulsi trucchetti usati nel poker e nella scala quaranta. Qui mia moglie aspira come per prepararsi a un’immersione, e capisco che il gruppo di cui fa parte la signora con il cagnolino [NOTA: Nelle puntate precedenti del Libro per il Bagnetto la “moglie” del protagonista aveva avuto una sorta di battibecco con la signora con il cagnolino qui nominata] è entrato nella sala. “Naturalmente gli sportelli dell’apparecchio, in quanto oggetto d’arte, fanno parte della collezione di ambedue i/le musei/sezioni dei”, ci spiega la guida, “come fossero anche loro la cinta attraverso cui si uniscono le persone nelle carte da gioco, come mostri siamesi senza gambe e con quattro braccia”. Del resto la precisazione non è necessaria: tutti hanno visto o almeno sentito nominare il western Cristo di fiori. Deboli neon su fondo nero. Forse è l’occhio che sta tornando a fare i capricci. Le braci ora sembrano molte branchie di pesce ammassate e pulsanti.
La bambina col frac, cui i vecchi film interessano poco, si è allontanata verso un vetusto Giabba Sebastiani, una sorta di imponente juke-box, un oggetto rudimentale e molto ingombrante ma di sicuro impatto per un profano, che per funzionare (il Giabba) richiede la presenza costante di un tecnico all’interno di un apposito botteghino. Il Giabba occupa lo spazio di un’intera sala, ed è costituito da una serie di sportelli contenenti rulli metallici che azionano schede perforate. L’intero macchinario è mal concepito e viene di solito indicato come un esempio di pessima invenzione protoradiofonica, anche perché da un punto di vista prettamente radiofonico il Giabba aveva unicamente l’effetto di produrre forti interferenze con oggetti metallici sufficientemente sottili o affusolati per raccogliere le emissioni. Raggi di bicicletta e rebbi di forchette, dice il cartellino. Inizialmente il Giabba veniva per lo più usato in sedute spiritiche o da prestigiatori, ma pesavano sulla possibilità di un suo largo impiego le sue dimensioni abnormi. Nessuna fiera itinerante avrebbe mai accettato di dedicare un intero carrozzone al trasporto del solo Giabba, come se si trattasse di un gruppo di leoni. La bimba col frac corre da un rullo all’altro del Giabba, come se stesse cercando un passaggio per penetrare nel macchinario. Nel gabbiotto del tecnico è stato sistemato un manichino in atto di azionare le diverse leve e manopole del Giabba.
In qualche modo ricorda una scimmia sul proprio albero. Il padre della bambina in frac dà alla propria figlia una monetina. Lei la inserisce in una fessura ai piedi del gabbiotto (noto solo ora che le pareti non sono di vetro ma di plastica, con i bordi impiastricciati di insetti) e il manichino inizia a muoversi, ovvero, le leve del manichino si muovono dando l’impressione che a muoversi e a muoverle sia il manichino. Tutt’a un tratto la bambina con il frac fa una specie di mezzo girotondo, un cerchio di salti non completo, mezzo cerchio o poco più per poi tornare indietro e daccapo. Mia moglie si mette una mano davanti alla bocca. Il padre della bambina ci spiega sottovoce che lui e sua figlia lavoravano in un circo, e che i mezzi girotondi della bambina sono uno dei sintomi per le conseguenze di un incidente durante un numero su trapezi. Diavoli volanti, è questo che erano l’uomo e la bambina col frac, ed ecco il perché del frac sto per dire io, ma mia moglie mi prende il braccio e io non dico niente.
Un incidente, un incidente di cui il padre non ci dice nulla, limitandosi ad indicare, sotto l’attaccatura dei capelli della bambina, l’inizio di una cicatrice che le sale dalla nuca perdendosi nella coda di cavallo. Ora la piccola, con i suoi mezzi girotondi intorno al manichino dentro il gabbiotto del Giabba (un disco registrato diffonde un puerile miscuglio di trasmissioni radiofoniche d’epoca – bollettini di guerra, vecchie canzoni, comizi, interviste, disturbi elettrostatici – gli apparenti cambi di stazione non sono nemmeno coordinati con i finti movimenti del manichino) sembra lei stessa un altro barocco accessorio/gingillo del Giabba, come se azionandolo avesse innescato una maledizione che la bloccherà lì per sempre, e anche suo padre ad un certo punto deve avere un pensiero del genere perché le si avvicina e la prende in braccio e poi la fa scendere a terra tenendola per mano e bisbigliandole “Domani arriva anche la mamma” con un tono tale che non riusciamo a capire se sia una frase reale o l’inizio di una ninna nanna.»
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Decor disattivò il Libro per il Bagnetto, tornando a offrire la propria Psyche® alle altre voci che la popolavano.
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“La notte, quando si spengono le luci, Gemini nel suo letto reduplica. Sente respirare accanto a sé un corpo identico al proprio, e che tuttavia gli è ignoto. Restano così, respirando in silenzio, guardando senza vederlo il tramonto di una luna insonne.
“Una sola spada: l’orrore e il ridicolo dei Gemini è tutto qui. Trasportati da mille furie e mille angeli, i Gemini passano buona parte della giornata a duellare tra sé e sé, salvo rendersi conto, quando il crepuscolo rende indistinte le ombre, che i due sono sempre stati in realtà uno. Allora, come chi si riscuote da un sogno, i Gemini allungano una mano verso la tazza di camomilla: è ormai ora di dormire.”
“Pssst… Benvenuti a Schwarzschwarz, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”
[continua l’11 gennaio]