La sociologia si è occupata spesso dei fenomeni che ruotano attorno ad alcuni sport interpretandoli in chiave bellica. Ciò viene suggerito, ancor prima che per i comportamenti della tifoseria più accesa, dalla divisione del campo, presidiato con schieramenti in divisa, dalle tattiche di attacco e di difesa. Questi due ultimi termini, ed altri che c’interessano particolarmente quali “risposta”, spostano la similitudine tra guerra e gioco – guerra simulata, sostitutiva, addestramento giovanile – anche sul piano linguistico. Sembrano più adatti a sottolineare tale confronto tra avversari gli sport dove vi è netta partizione visiva dovuta alle linee-confini del campo e l’utilizzo di strumenti manuali. Per esempio il confronto a due o a quattro nel tennis con il gesto violento della racchetta che permette una risposta, a sua volta aggressiva, all’attacco avversario; percuotere ed aggredire lo spazio. Un altro sport su cui si sono costruite, forse non a caso, intere epopee americane, individuali e collettive (per esempio, piuttosto di recente, Underworld di Don De Lillo e Pastorale americana di Philip Roth), è il baseball.
Il romanzo Danny l’eletto di Chaim Potok si apre su una partita di softball assai particolare. Ci troviamo negli Stati Uniti della seconda guerra mondiale e anche le comunità ebraiche, per dimostrarsi pienamente americane, hanno organizzato un torneo giovanile tra le diverse yeshivà cittadine. A sfidarsi sono Crown Heights del narratore Reuven Malter, dove le lezioni d’inglese erano più numerose e le materie ebraiche si insegnavano in ebraico e non in yiddish, frequentata soprattutto da figli di immigrati, e quella ultra ortodossa del rabbino Saunders. I campioni delle due squadre sono proprio Reuven, figlio di un rabbino che insegna a Crown Heights, lanciatore di classe, e Danny Saunders, formidabile battitore, destinati a risolvere l’equilibrata partita in un duello personale. Già le squadre rappresentano, al colpo d’occhio di Reuven, opposti significativi:
Li osservai mentre entravano in campo.
Erano quindici, tutti vestiti nello stesso modo: camicia bianca, pantaloni neri, maglione bianco e minuscola papalina nera. Secondo l’usanza rigidamente ortodossa, tenevano i capelli rasati salvo in prossimità degli orecchi, da cui spuntavano i capelli intonsi che ricadevano nei lungi riccioli sui due lati del volto.
L’allenatore della squadra di Reuven usa nei suoi continui incitamenti un lessico infarcito di espressioni belliche; vuole un “fronte difensivo compatto”, perché “in questa guerra non vogliamo vuoti nella difesa”, esorta quindi a stringere le fila, dove se no “potrebbe passare un incrociatore”, afferma infine “siamo su un campo da baseball, il nemico si prepara ad attaccarci”. E al detentore della mazza, che immaginiamo appoggiata alla spalla come nel cartone animato Gli Antenati o come osso fatto arma in 2001 Odissea nello spazio, deputato alla risposta, raccomanda:
Rimandagli la palla. Spara… così, da tiratore scelto. Ottimo. Degno d’un tiratore scelto
A fronte di questa insistenza un po’ caricaturale del coach, la squadra degli chassim è accompagnata da un rabbino di poche parole, che prima dell’incontro raccomanda reciso ai propri ragazzi “ricordatevi perché e per chi giocate”. E chi già li conosce confida a Reuven: “Quelli non giocano solo per vincere: per loro la vittoria è il primo comandamento”. In effetti la versione bellica data alla partita dagli ortodossi è quella della guerra santa. Danny Saunders, incrociando Reuven un attimo prima del gioco, s’informa se è effettivamente figlio di David Malter che scrive articoli sul Talmud, poi gli dice “ho detto alla mia squadra che oggi vi ammazzeremo, apicorsim”. “Bruciate, apicorsim” viene poi urlato in coro alla squadra di Crown Heights da tutti i ragazzi di Saunders durante le fasi calde della partita; la parola significava ebrei cresciuti nel giudaismo, ma che negavano i capisaldi della propria fede, per gli chassim tutti gli altri correligionari che non seguivano come loro alla lettera i precetti. Di qui un incrudelirsi dell’atteggiamento da parte del mite Reuven che, forse per la prima volta, sembra prendere sul serio le metafore banalmente belliche dell’allenatore: “[…] mi sentii invadere da una collera subitanea, e fu allora che la partita smise di essere un semplice gioco per me, e diventò una guerra: erano scomparsi tutto il divertimento, tutta l’eccitazione. Gli avversari erano inspiegabilmente riusciti a trasformare quella partita di baseball in un conflitto tra la loro presunta rettitudine e la nostra peccaminosità”.
La partita diventa così molto dura; Reuven subisce una carica e salva un gran punto facendosi male alla mano sinistra nonostante la protezione del guantone, al che l’allenatore, sorridendogli e dandogli una pacca sulle spalle, gli dice “ti proporremo per il Cuore Purpureo”, ovvero una decorazione istituita da Washington per i feriti di guerra. In effetti ad aver arroventato il gioco è stato soprattutto Danny con le sue micidiali ribattute ad altezza d’uomo. Quella che si potrebbe chiamare sproporzione nella risposta militare. L’esito rimane comunque in grande equilibrio e viene deciso dal testa a testa tra i due ragazzi: Reuven beffa l’avversario con due palle liftate che scendono all’improvviso mandandolo fuori tempo, ma alla terza Danny ha ormai calcolato la traiettoria e impatta un colpo violentissimo:
[…] riuscii a portare il guanto davanti alla faccia proprio mentre lui batteva la palla. E vidi che la palla mi veniva addosso, e non ci fu niente da fare. Cozzò contro il guanto in corrispondenza delle dita, schizzò via fracassando l’orlo superiore della lente sinistra dei miei occhiali e colpendomi di striscio la fronte, infine mi scagliò a terra.
Frammenti di vetro nell’occhio, potente mal di testa e nero. Il secondo capitolo è ambientato all’ospedale; Danny andrà a trovare più volte Reuven che, dopo le prime resistenze, non solo ci parlerà ma ne diverrà grande amico. Non si tratta di un semplice legame perché i destini dei due protagonisti sembrano addirittura scambiarsi di posto. Danny, destinato per secolare tradizione familiare a diventare rabbino, mette al servizio di una prepotente apertura al mondo e a tutto lo scibile umano le proprie prodigiose facoltà, anche grazie ai suggerimenti di una guida incontrata per caso nella biblioteca che frequentava di nascosto e che si rivelerà essere David Malter. Reuven, invece, invitato in casa Saunders, sarà profondamente affascinato dall’antica spiritualità dei riti chassidici. Infine Danny, abbandonando il sentiero già tracciato per lui, si iscriverà alla facoltà di psicologia, mentre Reuven diverrà rabbino. In sostanza la divisione in campi opposti, che li aveva visti giocare una partita del tutto simile a una guerra, si scioglierà in un incontro basato sulla reciproca comprensione del mondo dell’altro. La risposta violenta di chi rigettava il lancio d’un avversario diventa così occasione relazionale.
Con altre parole, altrettanto incalzanti e intelligenti, relative a uno sport differente, cioè il tennis da lui molto amato, si esprimeva nel monumentale Infinite jest David Foster Wallace per tramite di Schtitt, il guru pescato in Germania per allenare i giovani talenti di uno stravagante college sportivo. La riflessione teorica sul tennis, tesa e al tempo stesso autoparodica, tende a superare le strette dell’agonismo individualistico, ipercompetitivo e iperamericano, e del confronto bellico:
Il vero avversario, la frontiera che include, è il giocatore stesso. C’è sempre e solo l’io là fuori, sul campo, da incontrare, combattere, costringere a venire a patti. Il ragazzo dall’altro lato della rete: lui non è il nemico: è più il partner nella danza. Lui è il pretesto o l’occasione per incontrare l’io. E tu sei la sua occasione. Le infinite radici della bellezza del tennis sono autocompetitive. Si compete con i propri limiti per trascendere l’io in immaginazione ed esecuzione. Scompari dentro al gioco: fai breccia nei tuoi limiti: trascendi: migliora: vinci. Ecco la ragione per cui il tennis è l’impresa essenzialmente tragica del migliorare e crescere come juniores serio mantenendo le proprie ambizioni. Si cerca di sconfiggere e trascendere quell’io limitato i cui limiti stessi rendono il gioco possibile. E’ tragico e triste e caotico e delizioso. E tutta la vita è così, come cittadini dello Stato umano: i limiti che ci animano sono dentro di noi, devono essere uccisi e compianti, all’infinito.
Da una parte, come in Potok, l’apparente scontro a strappate di braccio si dà come possibilità d’incontro; la rete tuttavia è una specie di specchio in cui per ciascun giocatore l’avversario è l’alter ego. Questo rapporto genera anche l’infinità di “possibili colpi e risposte”, che tende al matematicamente incontrollato delle variazioni, ma che si mostra in realtà “umanamente contenuto”. La capacità dei due giocatori genera insomma una infinità umana, concetto suggestivo in amore e amicizia, e che dovrebbe far ponderare anche in guerra. D’altra parte Foster Wallace sembra attratto davvero dal gioco solipsistico di specchi nel quale l’altro viene considerato solo una proiezione di sé. Ciò conduce ad una pedagogia altamente formativa, relativamente alla presa di coscienza dei propri limiti e ai continui tentativi di superarli (“lo sport fatto dai ragazzi non è che una sfaccettatura della vera gemma: la guerra infinita della vita contro l’io senza il quale non si può vivere”). E però un sospetto aleggia nella mente dell’interlocutore di Schtitt, il ragazzino handicappato suo pupillo e sponda dei lunghi sproloqui, che piega, pur senza una definitiva chiusura, il discorso verso il dubbio: “Ma allora lottare e sconfiggere l’io equivale a distruggersi?” Conosciamo la tragica fine dell’autore di Infinite jest e di altre memorabili opere , che ci ha fatto soffrire: dalla matematizzazione astratta, dalla guerra con il nemico, quando si perde la dimensione dell’altro, fagogitandola, si può finire a tirar colpi furiosi contro un muro dove aleggia sempre, beffarda, l’immagine di noi stessi che implacabile li restituisce e immancabilmente ci vince.