E talvolta la bambina, implacabilmente trascinata dalla purezza della visione, aveva creduto fermamente che i suoi pupazzi di caucciù si sarebbero tirati su seduti e poi l’avrebbero seguita come loro generale senza ulteriori discussioni.
Nel buio pomeridiano della stanza in cui la mettevano a dormire capitava a S. di non sentire che i fruscii e i ticchettii delle due donne che lavoravano a maglia nell’altra stanza, fruscii e ticchettii che nei suoi sogni si facevano carne, fosse pure apparente.
***
…i papaveri son alti alti alti…
Il nonno le cantava quella canzone e le code del suo frac strisciavano per terra quando lei gli correva dietro lungo la strada che scendeva al torrente. S. aspettava sempre il momento in cui veniva detto che i papaveri erano alti e il momento in cui lui le avrebbe detto che lei era piccolina. Ora a ripensarci le sembrava che ci fosse troppo poco spazio tra i due versi: la fantasia di lei bambina aveva ingigantito interi volumi nello spazio tra quei due versi, abitandoli di pappagalli vegetali che pendevano da vertiginosi fili d’erba verdissima (tali S. si era figurata i papaveri) e di qualsiasi cosa le cadesse davanti agli occhi quando il nonno cantava, e che immediatamente si faceva verbo.
Gli altissimi uccelli tropicali chinavano il becco su di lei, minuscola come un brucaliffo…
O forse i papaveri erano delle streghe. Le frugavano il ventre mentre lei sdraiata e paralizzata sorrideva ai loro occhi inferociti dal sangue. Le streghe sollevavano dal banchetto i loro becchi lordati di sangue, giravano su di lei i loro occhi gialli di gru africane e S. si svegliava. Restava nel letto buio fissando i contorni delle streghe ingrigire e infine svanire nei bordi della sua camera. Questo era il patto che S. aveva stretto in segreto con le streghe: tutte le volte che le fossero apparse in sogno lei avrebbe sorriso e le avrebbe lasciate banchettare sopra di lei, e quando si fosse svegliata le avrebbe continuate ad osservare senza gridare né accendere la luce, e così un giorno dopo l’altro, nutrendosi del suo sangue in sogno e restando poi sospese sopra di lei senza che lei accendesse la luce, col permesso di svanire lentamente, sarebbe infine arrivato il momento in cui avrebbero bevuto tutto il sangue che serviva loro e da quel momento, dopo l’ultimo risveglio di S. non sarebbero più svanite. Già S. notava che per dissolversi ci mettevano un po’ più tempo che nei primi giorni, quasi il reame del sogno facesse fatica a reinghiottire chi aveva inghiottito del sangue umano.
– Qui non ci sono papaveri, fa troppo freddo, – le diceva il nonno mentre lei gli saltellava accanto per tenere il suo passo lungo. Metà delle parole ancora non le capiva, soprattutto quando il nonno parlava con altri adulti. S. piegava il collo all’insù e risaliva con gli occhi lungo le gambe e i fianchi, su su su fino al mento, aspettando che chinassero la testa a guardarla e le sorridessero, ma non sempre lo facevano.
Uno di quei signori aveva un cane bianco e grigio. Il cane si chiamava Bulgakov e apparteneva a uno dei guardiacaccia con cui lavorava il nonno. Il guardiacaccia e il suo cane avevano lo stesso odore, ma S. non doveva dirglielo. La famiglia del guardiacaccia occupava quella carica da più generazioni, e in tutti quegli anni c’era sempre stato almeno un cane bianco e grigio di nome Bulgakov ad accompagnare un guardiacaccia (ma i cani erano sempre di più degli uomini – non importava: venivano tutti chiamati Bulgakov e ricevevano tutti il medesimo addestramento), e doveva essere perché generazioni di Bulgakov erano state allevate insieme a generazioni di guardiacaccia, doveva essere per questo che gli uomini e gli animali avevano finito per prendere uno stesso odore, mezzo di cane e mezzo di uomo, come se l’odore potesse evocare lo spettro di un animale o di un demone fantastico in cui le due nature dell’uomo e del cane fossero mescolate. E come ogni animale fantastico, anche l’uomo-Bulgakov alludeva ad un passato oscuro in cui l’impero della vita era talmente onnipresente che i confini tra essere ed essere erano più labili che oggi, e perciò più fluide e per così dire latine quelle unioni che oggi nient’altro che il quasi definitivo rarefarsi del vivente ci fa tacciare di contronaturalità. In quel remoto distretto alpino di Waltzwaltz vigeva insomma, ombra paractonia dell’avito furore metamorfico, una chiamiamola teratosmesi donde quell’odore che affratellava i guardiacaccia e i loro Bulgakov.
Le mute di Bulgakov che si erano avvicendate negli anni erano tutte, secondo voleva il folclore nonché la cronaca locale, brigate di inameni cagnazzi rotti ai più pacchiani giocherelli ed alle più repulsive malefatte eziandio, zozzissime bestiacce che più di una volta si erano macchiate della strage di loro simili di piccola/media taglia, animalini, in confronto a loro, che i Bulgakov erano soliti, quando ne vedevano uno con l’aria sufficientemente sperduta e innocente, attaccarlo in due: uno davanti e uno dietro: azzannatone l’uno il capo e l’altro le terga ne facevano oggetto di un atroce tiro alla fune in capo al quale la bestiola finiva invariabilmente strappata in due monconi ripugnanti che i due lurchi scherani scuotevano qua e là tenendoli coi denti e sparpagliando il selciato di fiori di sangue. Tale, ultimo scelere in ordine di occorrenza, la triste sorte di un bassotto tedesco incautamente nominato dai suoi padroncini Budino.
Ma lo svago prediletto e dagli orridi bracchi e dai loro guardiacaccia era la morte da diporto, o come dicevan tutti Lazzaro, giuoco del quale segue qui un resoconto steso da una terza parte nei modi che la stupenda lettrice vedrà.
(NOTA: L’allegato resoconto cinoludico si deve alla versione 2.11 della fantasia artificiale Daemonita™, versione software di uno degli effetti collaterali della Pomata Cicatrizzante Brušek; i parametri di verosimiglianza e coerenza stilistica della fantasia artificiale sono stati settati un po’ a casaccio giusto perché anche il fin troppo equanime lettore possa cominciare ad averne piene le balle dei bracchi Bulgakov – qui da Daemonita™ 2.11 trasformati in mastini – e dei loro guardiacaccia – a propria volta epitomizz-/sabot-ati in un non meglio precisato ma senz’altro sfaccendatissimo e nemmeno remotamente boschivo «cazzone»: dunque senz’altro indugio)
Il cazzone aveva una specie di piccolo mastino color ruggine che si chiamava Nabokov. Nabokov o Bulgakov. Tipico di quel cazzone, come gli scienziati che chiamano Newton il proprio bastardo. Naturale che avesse un cane, diceva, e neanche si capiva se la cosa lo rendeva triste o lo faceva ridere, fanno sempre così i cazzoni come lui, dicono le cose in modo che non si capisca se si divertono o no, la loro faccia, la loro faccia la dovresti vedere, ti dico, ma non la vedi mai, alla fine non la vedi per niente perché è come una nebbia la loro faccia. Naturale, diceva. Naturale, comunque, appunto, era l’unica cosa con cui andasse d’accordo, ha detto proprio «l’unica cosa», l’unica cosa con cui andasse d’accordo, gli animali e le mosche, così diceva triste e ridendo, ma perché poi le mosche non fossero anche loro animali come tutti gli altri mica lo diceva, ecco come faceva a far confusione tra tristezza e allegria. Nabokov o Bulgakov aveva imparato alcuni giochi, ma il suo (del cazzone, non della “cosa”) preferito era chiamato Lazzaro. Il cazzone iniziava a fissare la “cosa”, che subito si metteva a cuccia con gli occhi luccicanti da bastardo. E poi se sono gli animali a piacerti perché non un canarino, una tartaruga, un’iguana? Ma forse anche quelli sono come le mosche per lui, non sono veri animali, gli unici veri animali per lui sono quelli che imparano i giochi come quello di Lazzaro, forse con animali lui intende quello, delle “cose” che imparano i giochi e ti fissano con occhi luccicanti da bastardo. Il bastardo aveva giusto gli occhi luccicanti come non sapesse niente di quello che stava per succedere, occhi luccicanti, attenti, come un impiegato efficiente e leccaculo, due punti interrogativi, come non sapesse niente di quello che stava per succedere ma si capiva benissimo che era tutto un teatro. O forse no. Comunque il gioco era sempre quello, ma il fatto è che i cani, quelli che il cazzone considera animali a differenza delle mosche, i cani non si stancano mai, non perdono mai l’entusiasmo, non sono come le tigri dei circhi che tempo due giorni hanno già l’occhio triste perché hanno capito che sarà sempre quella, e l’unica cosa che potrebbe riaccendere gli occhi potrebbe essere un’apertura tra le sbarre o una pantegana bella grossa che si infilasse per sbaglio nella gabbia (ma le pantegane non sbagliano quasi mai), o anche il benedetto lampo di genio di vedere finalmente nell’uomo con la frusta solo un’altra pantegana (il lampo di tutti i lampi di genio), magari anche un po’ più stupida delle altre, anche lei lì ad agitare la sua stupida coda, anche quando ormai non serve più a niente. Lo spettacolo più cretino e terrificante che ho mai visto al circo è stato proprio un domatore di pantegane. Non è che le domava veramente, era più il fatto di vedere tutte quelle pantegane insieme a fare impressione, e l’uomo con la frusta che più che altro le spaventava o le teneva a distanza le poche volte che reagivano, saranno state almeno un centinaio, grosse come prosciutti messi a marcire al sole, con gli occhi che più che altro sembravano riflessi della putrefazione della carne. Comunque. Dopo un po’ Nabokov o Bulgakov si metteva a cuccia sempre con gli occhi, e allora il cazzone diceva, diceva «Lazzaro. Lazzaro», e allora il bastardo risistemava ben bene il culo sul pavimento, come dicesse «Pronti», ecce seruus ecce ancilla o quel che è, ma dato che si chiamava Nabokov o Bulgakov mi sa che era un maschio altrimenti era Bulgakova, sicuramente il cazzone l’avrebbe chiamato Nabokova o Bulgakova se era una cagna. E dopo che il bastardo si era messo culo a terra e sull’attenti, iniziava a ringhiare e a mostrare i denti, una cosa da far paura, come se un diavolo invisibile gli tirasse gli angoli della bocca e le palpebre, e allora il cazzone con la massima calma faceva la pistola con la mano, prendeva con calma la mira proprio in mezzo alla fronte o al cuore del bastardo sempre più ringhiante e indemoniato (ma il culo era piantato a terra immobile, forse era quello il significato per il bastardo di sistemarsi il culo così prima del gioco, come dire «Il culo è qui per terra, poi posso fare le facce più strane e spaventose ma tu non aver paura, il culo è proprio avvitato a terra, così sei sicuro che sto scherzando» e chissà che non volesse dire anche «Attento cazzone alla volta che non mi vedi avvitare per bene il culo a terra, attento alla gola quel giorno, attento ai coglioni»), e i bambini ridevano o piangevano, anche lì non si capiva bene, e poi faceva, il cazzone faceva «P-khh» al bastardo che ormai era diventato una maschera per il voodoo piena di bava, e allora il bastardo si afflosciava e cadeva su un fianco, morto, il muso nella pozza di bava che gli era cascata dalle guance quando faceva le smorfie, e nessuno poteva farlo alzare, i bambini lo tiravano di qua e di là e lui niente, con i fili di bava di prima che strisciavano per terra, era davvero come morto, solo il cazzone poteva farlo alzare, ma solo se diceva «Alzati e cammina», faceva anche lui come i bambini, tirava il bastardo di qua e di là, lo chiamava, e il bastardo niente (quando lo chiamava però scodinzolava un pochino, come per far vedere che sapeva chi era il padrone, una cosa da far venir voglia di sparargli sul serio in testa), finché finalmente il cazzone diceva «Alzati e cammina» come al catechismo, e allora Nabokov o Bulgakov si rimetteva in piedi. Cazzone com’era, il cazzone ha continuato a dire la stessa cosa anche quando un furgoncino di surgelati gli ha messo sotto il bastardo, lì con l’autista che a quel punto non sapeva se fosse il caso di mandarlo a cagare, e l’altro che continuava a dire al bastardo spiaccicato Alzati e cammina, Alzati e cammina come se in fondo non lo sapesse anche lui che la resurrezione era solo un altro teatro, ma per le persone come lui da un certo punto della vita è come se fossero sempre dentro un film, e comunque Nabokov o Bulgakov non scodinzolava più.
(Fine del resoconto: almeno per noi: non però per la fantasia artificiale Daemonita™ 2.11, che dopo aver improvvidamente inventato di sana pianta l’episodio della morte del cd «bastardo» si è fatta un po’ prendere la mano virtuale e ha prodotto un intero ciclo di romanzi di riconciliazioni familiari che hanno per protagonista e narratore il «cazzone» il quale dopo la morte del «bastardo» inizia tutto un percorso di superamento del dolore e riavvicinamento alle proprie rimosse radici regionali (naturalmente la regione d’origine del «cazzone» è settabile a piacere dal lettore – presto in arrivo un aggiornamento con possibilità di settaggio apolide) per trovare, col tempo e previa introspezione lirica, la forza di perdonare / capire / riavvicinarsi a / incontrare per la prima volta / dimenticare ovvero in una qualsiasi modalità psicofagocitare, in ordine di pubblicazione (si calcoli un romanzo a parente):
Il proprio padre (morto – riavvicinarsi a(-lla buon’anima di))
La propria madre (agonizzante – perdonare)
Il proprio figlio (mai incontrato – incontrare per la prima volta –– in lavorazione una versione gemella scritta dal punto di vista del figlio – incontrare per la prima volta/perdonare)
La propria ex-fidanzata (fuggita con un fisarmonicista francese di nome LaBaguette – capire)
Il proprio zio (camorrista/piduista/brigatista/fascista etc. – il lettore può settare lo zio in base al proprio orientamento politico – dimenticare e/o capire)
Un lontano cugino saudita (alter ego – uccidere e cucinare –– romanzo risultato da un errore negli aggiornamenti della fantasia artificiale Daemonita™ 2.11 – incompiuto)
Epperò mica abbiamo ancora finito coi Bulgakov, perciò i nostri deliziosi lettrice e lettore si prendano per mano e dopo una breve rincorsa saltino fuori da questa parentesi per tornare ai veri – ma saranno poi veri? – Bulgakov, ai loro guardiacaccia e)
Oplà! Ben ritrovati. Dunque, una volta cablatolo in modalità Lazzaro, non c’era verso di schiodare il Bulgakov da lì a meno di non essere il suo guardiacaccia e di impartirgli un ben preciso ordine (che sul serio era «Alzati e cammina», segno che anche in ogni macchina c’è forse un fondo di verità). Se qualcun altro che non fosse stato il suo guardiacaccia dava l’ordine, il Bulgakov restava lì con tanto di lingua penzoloni, immobile, a fare il morto. Se il suo guardiacaccia lo chiamava, lo implorava, lo tentava con spezzatini e rosbiffe, ma non dava l’ordine, il Bulgakov non muoveva un muscolo, concedendosi giusto uno striminzito e alle volte pavloviano rivo di bava quando il padrone lo invitava a banchetto.
Ora, appropinquandoci lemme lemme al dunque, si sa, si narra di guardiacaccia particolarmente spietati che in passato lasciarono il loro già di suo spietatissimo Bulgakov così inlazzarato per giornate intere, solo per il gusto di vedere quanto sarebbe riuscito a resistere. Sebbene l’agiografia canina produca a questo punto toccanti esempi di Bulgakov che in tale presso che veterotestamentaria prova di fedeltà perdettero la vita piuttosto di risvegliarsi senza l’ordine del padrone, le sole testimonianze certe riguardano una semibarbara usanza diffusasi in connessione a questa prima tra la gioventù waltzwaltziota, la quale gioventù, quando ad uno di quei poveri Bulgakov veniva imposto tale supremo cimento, circondava il Bulgakov in questione e iniziava, nell’ordine di un dispetto a persona, a molestarlo. Molesta che ti molesta, prima o poi più dell’ubbidir potea il digiuno, e le mascelle del Bulgakov scattavano sulla parte più vicina della persona cui era toccato il turno nella giostra delle molestie. Possiamo paragonarla a una blanda versione della roulette russa, blanda in quanto solo due volte l’attacco del Bulgakov disturbato durante la sua ordalia massima ha avuto esito letale.
Ma cos’è che volevo dire? Ah, sì:
Un giorno un Bulgakov era saltato contro S. e l’aveva fatta volare in terra. L’animale aveva saltato come per scavalcare con un balzo la bambina in piedi davanti a lui, ma il salto era riuscito malamente e le era crollato addosso rovesciandola in terra. S. aveva sentito la pelle molliccia della pancia della bestia premerle il volto con il suo teratofetore, poi era caduta sbattendo la testa ed era scoppiata a piangere.
***
Le vele delle barche lontane sembravano farfalle.
***
Non aveva mai incontrato suo padre prima: il nonno non voleva. Aveva un fucile in un armadio a vetri.
***
La prima volta che un ragazzo le aveva chiesto di prenderlo in bocca le era tornata in mente quella volta da bambina, e la pancia del Bulgakov. Vedeva la pancia del ragazzo contrarsi mentre la cosa che aveva in bocca pareva surriscaldarsi per volontà propria, una volontà impossibile, cieca e indifesa, che non sapeva far altro che continuare a surriscaldarsi fino a scoppiare. Le era sembrato persino di sentire l’odore di cane-guardiacaccia che avevano i Bulgakov e i loro padroni. Il ragazzo sospirava.
Dopo era stato come riprendersi da uno svenimento, o forse era anche brevemente svenuta, chissà, perché il ragazzo ora aveva spostato la pancia da davanti i suoi occhi e le stava chiedendo se non stava bene.
Lei si era alzata per andare in bagno a pulirsi. Star bene. Era qualcosa che nemmeno lontanamente si collocava sulla retta che congiunge lo star bene e lo star male; quello che provava si trovava su un piano non euclideo dell’animo; la pancia e quella cosa (non voleva pensarne il nome o i nomi che le si danno; non perché trovasse volgari quei nomi, anzi al contrario perché appena lo faceva, non appena le dava uno dei nomi che conosceva ecco che la cosa perdeva tutta la sua terribile e festosa cupezza, annacquando irreparabilmente quel miscuglio di esilarante stupidità e furia cenozoica –– S. aveva anche provato a cercare termini stranieri, casomai l’improbabilità di suoni come hímvessző o filahiana potesse conferire una qualche sia pur minima aura alla cosa, ma era stato inutile, voler catturare la cosa in una sequenza di fonemi di qualsiasi tipo era semplicemente ridicolo, e ridicole erano le parole che S. aveva pescato qua e là, perché ciò che era idiota era l’idea che un suono potesse anche in via puramente convenzionale magnetizzare il più mero nonnulla della cosa, qualsiasi altra parola suonava viceversa per lo meno remotamente adatta a ciò cui era stata appiccicata, sì, a saperle ascoltare le parole erano così, tutte tranne questa, e non era per via di questa o quella lingua, era che per cogliere la cosa avrebbe dovuto essere una parola priva di pensiero… ma il pensiero è appunto il limite di ogni parola, non è possibile dire o scrivere niente senza che un qualche pensiero si aggrappi disperatamente a quei segni e quei suoni manco fosse un naufrago nella tempesta, ma la cosa non era pensiero, era anzi il congedo finale e, purché non la si nominasse, sommamente esoterico da ogni pensiero, ma vallo a spiegare a chi un momento prima ti aveva messo in bocca la cosa, e allora forse era proprio così, l’unico vero nome che le si poteva dare era prenderla in bocca, e nel sortilegio che ne sarebbe seguito anche la persona che era attaccata alla cosa credendo di esserne il padrone si sarebbe fatta parola e come parola si sarebbe dileguata anche lei in una zacchera appiccicosa da inghiottire o da sputare nel lavandino, a seconda, ed eccolo qui tutto il famoso incanto della poesia, non devi far altro che prenderla in bocca e sentirla diventare incandescente, come nel manuale di un torturatore spagnolo, tienila in bocca e falla diventare incandescente, fino a che non comincerai a vedere una pancia di cane che si contrae davanti alla tua faccia, e quando la vedrai quello sarà il momento in cui la carne si farà verbo e potrai vedere l’intera poesia davanti a te, la sua pancia, la pancia della poesia, sì, l’antichissima pancia dei poeti apparirà davanti te contraendosi di piacere e vergogna, una pallida pancia di pirata francese, se vuoi, spettrale e rigata di tatuaggi e cicatrici, o una pancia di demone in cui dopo un po’ riconosci un secondo volto privo di mente e come tutti demoni e gli angeli e come Dio stesso privo di anima, e se proprio prima che tutto sia finito alzerai solo un po’ gli occhi allora vedrai, come un bambino ai piedi della mamma, salendo su su su fino al volto, i suoi occhi tremuli di bambola liquefarsi nei tuoi, piangerai i suoi occhi e solo allora sarai libera di inghiottire o di sputare. ––– Ma i nomi che davano alla cosa erano, tutto all’opposto che volgari, troppo pudichi e claustrali, tutto il linguaggio per intero abdicava e sbriciolava fin nel più sacro e segreto papiro di fronte a quel calore senza mente né intelligenza alcuna.
Uscendo Sarahs lo trovò in piedi, subito fuori dal bagno; si copriva il davanti con le mani, come fosse ferito. Sarahs non aveva mai visto un sorriso come quello, quasi ritagliato nella plastica di un manichino, gli occhi ancora liberi da ogni traccia umana, appendici marine che sembravano fatte, più che per vedere, per toccare o addirittura mangiare.
– Da quanto sei qui fuori?
– Da…
– Dove vai?
– Torno di là
– Non mi stavi aspettando?
– Sì, ma…
– Perché te ne vai?
– C’è qualcosa che non va?
(((
Non c’è niente che non va, tutto sempre e senza pace non fa che andare, lo sapresti anche tu ormai se almeno per un secondo smettessi di pensare a me che te lo prendo in bocca, ecco cosa, non c’è niente che possa non andare, no, ma è solo che ora qui nel corridoio con la cosa nascosta dalle mani mi sembri un guscio di granchio alieno, vuoto e senza vita, e anche solo per guardarti devo mordermi la lingua fino a farla sanguinare, e per poterti parlare devo concentrarmi sul sapore del mio sangue sulla lingua, perché non hai voluto, nemmeno prima hai voluto finalmente farti verbo e abbandonare per sempre l’anima ai demoni celesti, e così ora eccoti qui, un guscio di granchio sottile e vuoto, scommetto che se avvicinassi un poco l’orecchio alla tua bocca sentirei il suono del mare come con le conchiglie, e mi basterebbe soffiare solo un pochino più forte contro i tuoi occhi per sbriciolarli come bende di mummie di duemila anni.
)))
– Ti ho solo chiesto dove stai andando, visto che sei stato qui impalato fuori dalla porta come una specie di cane da caccia
– Stavo… non sapevo… volevo…
– Mi stavi aspettando?
– Sì… No…
– Cosa c’è? Cosa succede?
– È che sei subito andata via e…
– Mi stai spaventando
– No, no no no no no, non volevo…
– Dove vai? Perché cammini così?
– Torno di là
– Dove di là
– Di là, in camera…
– Quale camera
(((
Se solo avessi saputo farti verbo e rendere la camera il cuore di un labirinto egizio, sarei tornata tra le tue braccia come dentro un sarcofago, sarei rimasta così dentro le tue fredde pareti dorate finché i cani da caccia con corpo di uomo non fossero venuti a strapparci il cuore per fare di noi le loro puttane sacre. E invece eccoti qui a balbettare come uno scemo sperando di azzeccare la risposta che tra mille potrebbe essermi gradita, e non riesci nemmeno a capire che non esiste nessuna risposta per chi non ha saputo farsi verbo, non c’è salvezza per un sarcofago che resta vuoto, e il cielo resterà eternamente chiuso per una puttana che non voglia dare il suo cuore in pasto ai cani neri sdraiati nei corridoi delle piramidi.
)))
– Dove eravamo prima
– Perché vuoi tornare di là
– Per stare un po’ insieme, così, sdraiati
– Così. Sdraiati
– Sì, mi piacerebbe. Non vuoi?
– Ormai sei uscito. Sei qui. Sei venuto qui
– Cosa vuol dire
(((
Non conosci la verità sugli angeli? Il sacerdote scomunicato che si è occupato della mia educazione religiosa mi ha raccontato tutta la storia. Sono stati in realtà gli angeli dei cieli, i primi ribelli. In principio era il Diavolo, e la bocca che aveva sul ventre vomitò tutti i diavoli, e i diavoli cominciarono a vomitare il mondo e le creature, e proprio quando stavano per vomitare l’Uomo e la Donna alcuni di loro vollero fuggire ronzando verso il cielo e abbandonando la terra, volando all’indietro in santa e nuda simulazione di una battaglia contro i diavoli che cercavano di farli tornare, ecco, in verità gli angeli fuggivano dilatando le loro schiere verso il vuoto come i sempre più rarefatti armonici di una corda pizzicata, sicuri che prima o poi in fondo a quel vuoto avrebbero trovato un nuovo Re la cui creazione fosse Parola prima che Vomito. L’hanno trovato o ne sono ancora in cerca? Gabriele stava fingendo quando ha parlato a Maria? Secondo alcuni è appunto l’introvabilità del Re a rassicurare, secolo dopo secolo, gli angeli sulla sua infinita potenza. Altri rilevano che il primo peccato non fu dunque la superbia contro la potenza, ma la delusione per l’assenza di Dio. Quel che è certo è che una volta innalzatisi in cielo gli angeli non potranno mai fare ritorno sulla terra, non più di quando il suono di una chitarra potrebbe tornare ad annidarsi nelle corde dalle quali è uscito, eppure tu eccoti qua, una così povera cosa di fronte ad un angelo o al suono di una chitarra, e tuttavia pensi di poter tornare nella stanza da cui ormai sei uscito. Tanto varrebbe per un fiore rattrappire nuovamente in gemma. Povero piccolo fiore, perché fuggi all’indietro?
)))
– Vuoi tornare a letto?
– Sì, mi piacerebbe
– Va bene. Io mi metterò sul divano allora
– Perché?
– Non posso?
– Perché non vieni anche tu?
– Perché non voglio tornare di là. Sto cercando di dirtelo nel modo più gentile che posso, ma tu––
– Va bene. Allora vengo con te sul divano. Ci sdraiamo
– Sei stanco?
– No… Sì…
– Sei stanco o no?
– Tu sei stanca?
– Vorrei capire quello che vuoi tu
– Vorrei stare ancora un po’ con te
– Lo stai facendo. Lo stiamo facendo
– Sì ma così in piedi è strano
– Che c’è di strano? Per tutto questo tempo tu sei stato in piedi da solo davanti alla porta del bagno a aspettare che io venissi fuori
– Mi puoi dire cosa c’è?
– In che senso
– Ho fatto qualcosa prima?
– Cosa vuol dire
– Qualcosa che non va
– Me l’hai già chiesto
– Sei arrabbiata?
– No, vorrei solo capire cosa vuoi fare e lasciartelo fare, molto semplice ma se non mi dici cosa vuoi––
– Voglio stare con te
– Quello lo stai già facendo. In casa ci siamo solo noi due
– Tu cosa vorresti fare
– Stavo andando a sedermi sul divano
– Bene
– Bene
– C’è qualcos’altro?
– Voglio solo andare di là
– Va bene
– Invece di restare qui impalati davanti alla porta del bagno
– Lo vedi che è strano?
– Lo so che lo è, sei tu che––
– Io cosa
– Non riesco a capire, ma è un gioco?
– No, in che senso?
– Vorrei andare di là
– Va bene
– Va bene?
– Che c’è?
– Vorrei andare di là
– Ho capito
– Allora mi faresti passare?
– Sì, sì, ah, sì, bastava che veniss––
– Cosa fai?
– Ti faccio pass––
– Perché continui a camminare così all’indietro?
– Perché stiamo parlando
– Sì ma è strano e sei anche nudo e––
– Perché ridi?
– Ma ti faccio paura?
– No
– Non mi offendo
– No… dovrei avere paura?
– Sto facendo fatic–– Mi sembri a disagio
– È solo che ho paura di averti contrariato
– Ah ecco, mi sembrava che avessi paura
– Non di te però
– Però hai tutto un modo di fare strano e così a culo nudo in corridoio mi stai un po’ agitando
– Non volevo
– Forse abbiamo corso un po’ troppo
– Perché?
– Ci conosciamo solo da un paio di settimane
– Però sta funzionando
– Non lo so più
– Perché?
– Tu sai cos’è una puttana?
– Non ho mai detto che tu–– posso rivestirmi?
– Se ogni cosa che dico ti scusi qui finiamo all’alba
– Sì ma io non ho d––
– Come ora, che per arrivare in salotto ci abbiamo messo un quarto d’ora
– Però io non ho detto che sei una puttana
– Cioè?
– Prima tu hai de––
– No ti ho chiesto se sai cos’è
– Lo sanno tutti cos’è
– Per questo non sta funzionando
– Perché tutti sanno cos’è una puttana? Cosa fai?
– Vado via
– Via dove
– Torno in albergo. Comunque sarei dovuta partire domani all’alba. Mi dispiace, davvero. Meglio se chiamo un taxi e torno in albergo
– Va bene ma almeno spiegami sul serio perché, cosa c’entrano le puttane, non c––
– A che serve, ti ho già detto che non sta funzionando, lo hai visto anche tu com’era in corridoio col culo nudo e i cani neri, eravamo non so come fuori posto no? tutti e due no? e lo sai anche tu che è solo un paio di settimane che ci conosciamo e anche se da dire è insomma a cosa serve dire che capita che abbiamo solo fatto tutto troppo in fretta ecco ma che male c’è, capita a tutti, non ce l’ho con te, quello che vuoi guarda, è solo colpa mia va bene? adesso però davvero vado, non mi––
– I cani? No sì ma no ma aspetta un secondo voglio capire
– Capire cosa
– Cosa ho sbagliato c––
– Perché dici così
– Cosa ho sbagliato così non rifarò lo stesso errore con altre persone, e in più le putt––
– È un’idea stupida. Cosa avresti sbagliato? Ti ho già detto è tutta c––
– Perché così di colpo sei così così dura? Mi spieg––
– Dico solo che mi sembra un’idea stupida anzi no peggio, è un’idea sul serio è un’idea crudele
– Cru––?… No ma senti ma fammi mettere almeno un paio di mutan––
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Un guardiacaccia stava ispezionando con un metal detector uno spazio cementato. Non stava cercando oggetti, disse al nonno di S., verificava soltanto la presenza di metallo. I Bulgakov correvano insieme, dall’altra parte del fiume.
(I rioni di Schwazrschwarz instaurano con le loro tubature una sorta di micorriza che diffonde nell’ambiente i semi e i bulbi di una giungla austroamazzonica che in breve prevale sulle forme di vita locali – radici e tubature che s’innervano a tali profondità da attingere a falde acquifere intatte –– nonché a sacche di aria georiscaldata che viene liberata nell’atmosfera attraverso un processo che, in mancanza di meglio, possiamo definire di vulcanismo vegetale, lungo l’interno di tronchi di mangrovie fatte appositamente soffocare e rese cave dal morto calore sotterraneo –– acqua che risale a formare le tiepide e miasmiche pozze necessarie per l’allevamento dei pescigatto della cui carne gli abitanti di Schwazrschwarz che presto verranno, come partoriti dal fango e dal terriccio della micorriza, sono ghiotti. Ecco: lo stregone capo addenta il ventre di un pescegatto vivo, incurante del fango che gli lorda i denti: un nuovo rione si è installato. Il metal detector serve dunque per verificare l’estensione dell’infiammazione urbana. Le guardie forestali come il nonno di S. hanno l’ordine di cementificare (misura meramente temporeggiatrice) le aree di più spiccata emersione delle radici metalliche, pur sapendo che ogni resistenza è (ecco, appunto) inutile: presto le radici preistoriche, le scimmie e i camaleonti alati di Schwarzschwarz sciameranno dal terreno e dal cielo).
Il nonno di S. e due giovani guardiacaccia che S. non ricordava di aver mai visto perlustravano un argine in piena. Il fango rosso aveva inghiottito il cemento. I quattro (S. tenuta sulle spalle dal nonno) stavano cercando un passaggio per arrivare al paesino di là dal canale in piena. Dove il canale si allargava per impaludarsi in una radura che presto sarebbe diventata una risaia, il sole ragnava una bava di arcobaleni. Il nonno di S. si fermò per scattare una fotografia –– di nessun valore documentario, dato che nell’inquadratura cercava deliberatamente di inquinare l’immagine coi raggi filiformi e colorati; da sopra la testa dell’uomo, la bambina sbirciava l’immagine senza parlare. Spostando l’inquadratura a caccia di altri riflessi il nonno notò una caravella, naturalmente un giocattolo di legno ma decisamente accurato, che traballava contro un sasso che emergeva nella corrente. Il gioco violento di luci la faceva sembrare un relitto autentico, ingigantendo di conseguenza ogni proporzione nell’inquadratura, il canale si dilatava fino a farsi Mississippi, il sole era un immenso pianeta di fuoco, il nonno e la bambina erano librati in volo sopra il fiume immenso o erano diventati a loro volta dei giganti.
– Forse è una vecchia nave in bottiglia, – disse il nonno, – finita in acqua durante la piena del canale. È fatta troppo bene per essere soltanto un giocattolo.
– La prendiamo, nonno?
Accanto alla nave galleggiava la testa di gomma di un giocattolo zingaro.
La testa era bifronte: su un lato c’era un volto umano, forse di un re… Alcuni giocattoli sono l’ultimo luogo in cui l’uomo può trovare allegorie da contemplare; da bambina era più il tempo che S. dedicava a scrutare ogni dettaglio dei suoi giocattoli, specie delle bambole, che non quello di gioco effettivo. E chissà che i primi sacerdoti dell’umanità fossero bambini. Come potrebbe un vecchio concepire un dio, se non mettendosi una bambina in spalla a mo’ di corona?
A parte la barba, la testa del re di gomma ricordava una fotografia che il nonno di S. aveva scattato qualche giorno fa a uno straniero. Il nonno fece una serie di scatti alla testa che rotolava nell’acqua.
Su quella che avrebbe dovuto essere la nuca c’era invece il muso di una scimmia che scopriva i denti.
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I denti di gomma dell’animale fissano l’obiettivo con pupille colorate, la testa del re scimmia travolta nella corrente appare enorme, un giocattolo a grandezza naturale appiccicaticcio di un tenue muschio di alghe verdastre. È solo dopo aver scattato una decina di fotografie alla testa di gomma che l’uomo realizza che quella testa non è che la prima epifania, potremmo dire la futura pietra angolare del rione che presto inghiottirà i torrenti, i palazzi, i giardini e le tende di Waltzwaltz.
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Mentre l’attentato “FIAT” nella stazione di Venezia inizia a spalancare insanguinate voragini di vetro nero tra la folla, Sarahs non riesce a staccare gli occhi dalla mano mozzata che in un ultimo spasimo sembra implorare le sue mani di tenerla un po’, di raccoglierla e portarla lontano da lì.
Per un breve secondo è come se Sarahs potesse allungare una mano sotto le coperte del letto in cui la bambinaia la mandava a dormire, frugare tra le lenzuola e ghermire i suoi stessi piedini di bambina, aggrappandovisi come un naufrago in mare. Sente la lana, e il ticchettio dei ferri da calza della signora e della bambinaia, e vede la minuscola chiazza di luce strisciare implacabile lungo il muro.
Poi i Nerini fanno irruzione nell’atrio della stazione e iniziano a sparare.
[continua l’11 marzo]