Contorsioni di un uomo notevole

Alla fine era arrivato anche il suo turno. Orgoglioso, Carlo Transi aveva spinto la mole del suo corpo sui gradini di legno fino al palco messo assieme nel primo pomeriggio dagli operai (sotto gli addobbi, due gomme abbondantemente usurate rivelavano il rimorchio di un trattore). Per uno di quei moti incomprensibili tipici dei raduni di piazza, fra i circa ottanta presenti si era fatta largo l’impressione prematura che tutto fosse finito e che dovesse incominciare la festa, ossia la ragione vera per cui erano usciti di casa: ma non era così. Mancava, appunto, ancora un intervento. Colti per un istante di sorpresa mentre si stavano sparpagliando, gli invitati si fermarono: il loro umore si divise fra quelli che vedevano nella circostanza un momento di rilievo e gli altri, molti di più, a cui sembrava invece la coda di una cerimonia interminabile (e, a dirla tutta, una gran rottura di coglioni). Sorridendo, Carlo esitò un istante per fare un cenno ai dipendenti, fra gli applausi delle autorità che avevano già parlato e che cercavano di lasciarlo passare, timorose di appoggiarsi ai pannelli disposti con poca prudenza sullo sfondo del palco. Il moderatore, un giovane biondo straordinariamente magro, gli passò il microfono.

«Eccomi» incominciò, slacciandosi la giacca a vento che portava sopra il completo, «Devo dirlo: è proprio un bel risultato». L’applauso cercò di rianimarsi. «È quel che si raccoglie quando si lavora insieme tutti quanti, no? Del resto, insomma, io l’ho sempre detto che dobbiamo restare uniti. E questa è la testimonianza di quel che riusciamo a fare, se restiamo, come dire, compatti». In occasioni come queste la sua inarrestabile buona volontà, pur consapevole di non accompagnarsi a doti oratorie altrettanto tenaci, non riusciva mai a prodursi nell’umile gesto di scrivere su un foglio di carta tre o quattro frasi di senso compiuto (o, alla disperata, di farsele scrivere da qualcuno). No, era convinto che sarebbe arrivato in fondo da solo.

«E devo dirlo, ringrazio tutti perché tutti hanno dato una mano. È un risultato importante», aggiunse abbassando la voce, mentre già sentiva aprirsi il vuoto del discorso: «Poco fa, prima di arrivare qui, Sergio Viale, il vicesindaco, mi ha fermato in mezzo alla strada. Era contento: diglielo – mi fa – che avete fatto un buon lavoro. E allora io sono venuto qui a nome suo e di tutti quelli che ne sono convinti. Anche a nome vostro, se volete».

Il pubblico applaudì ancora, forse perché, convinto da questa chiusura enigmatica, sperava di aver intravisto un possibile finale. Naturalmente si sbagliava.

«Mi ricordo quando abbiamo incominciato, intendo, quando abbiamo preso in mano il progetto: ricordo i primi trattori radunati davanti alla chiesa di San Remo il sabato mattina. Faceva freddo, eravamo in pochi lì e a dire il vero neanche tanto preparati, ma ci credevamo, questo è sicuro. E credere a qualcosa da soli è un conto, ma crederci insieme è tutta un’altra storia. Poi ci siamo messi d’impegno». Va detto che più di uno stava riprendendo il discorso. Che uso ne avrebbero fatto, non era dato sapersi. «Se mi guardo indietro, è come se i mesi evaporassero, non mi sono neanche accorto di quel che c’è voluto per arrivare fin qui. Ma alla fine ci siamo arrivati».

Fece una pausa: «Beh, il volontariato in fondo è questo: lavorare insieme per il futuro dei nostri figli». Persuaso di aver conquistato il pubblico si riprese e, rialzando la testa, arrivò alla conclusione: «Sì, mi posso fermare qui. Quello che avevo da dire l’ho detto e credo che l’abbiate capito».

E passammo ai festeggiamenti per l’inaugurazione del centro per la raccolta differenziata.

2.

Non era sempre andata così e, come si vedrà, non sarebbe nemmeno finita in quel modo, ma l’inaugurazione del centro raccolta, benché non fosse dipesa interamente da Carlo, va senz’altro contata fra i primi episodi del suo declino. Non che negli anni precedenti sul palco si fosse dimostrato più brillante, ma quelle occasioni avevano comunque potuto essere registrate come successi in virtù delle loro conseguenze materiali: ciò che le aveva distinte non era una frase meno incerta, quanto i vantaggi concreti che ne aveva saputo trarre. Qui, invece, il ricamo elementare fra un’autorità e l’altra che per alcuni anni gli aveva garantito una credibilità non trascurabile era scomparso, come se d’un tratto Carlo avesse esaurito la scorta di filo.

Ma bisogna pur dire due parole su questa scorta. Dopo essere entrato in azienda (tappi in latta per alimenti) e aver contribuito a far crescere la produzione fino al pensionamento del padre, arrivato finalmente intorno ai quarant’anni a prendere in mano l’impresa, si era accorto in breve che, anche in una cittadina di novemila abitanti, il prestigio sociale non derivava – anzi non era mai derivato – dal solo lavoro di imprenditore. Aveva capito che, in una fase economica non ancora preoccupante, l’ambito più a portata di mano per le sue aspirazioni era quello del volontariato. E qui si era dato da fare.  

Cominciò dalla locale sezione degli alpini, di cui per sei mesi prese provvisoriamente la guida dopo le dimissioni dello storico comandante. Prima di dimettersi a sua volta, all’elezione di un collega più anziano, Carlo fece in tempo a prendere stretti contatti con i vertici della Protezione Civile, stringendo rapporti di amicizia con i dirigenti in un campo in cui desiderava farsi strada. A livello locale, si fece subito nominare delegato. Quel suo tono robusto – forse un po’ elementare, come volevano i suoi avversari, ma indubbiamente efficace – piaceva soprattutto ai funzionari e ai quadri intermedi che potevano giudicarlo dall’alto di una formazione più elevata: e così piaceva ai piccoli dirigenti, che ne apprezzavano la concretezza, sia pure, si intende, da una posizione di maggior prestigio. Osservando il fenomeno più da vicino, non poteva dispiacere neanche alle figure di maggior rango perché le sue richieste, per quanto espresse in modo leggermente scomposto, erano misurate.

Carlo era consapevole delle proprie lacune: se non aveva saputo colmarle aveva però trovato il modo di renderle gradevoli ai superiori di cui a cena amava ridere con la moglie perché quelli si vantavano di correggergli l’italiano in virtù di chissà quale cultura, mentre lui non solo poteva contare su un reddito mensile tre volte maggiore del loro, ma stava acquisendo anche una certa notorietà pubblica, mentre di loro nessuno ne sapeva niente. Fu eletto presto consigliere comunale.

3.

Senza volerlo, lo incontravo con una certa frequenza nelle mie passeggiate pomeridiane per il quartiere: non era difficile, impegnato com’era a spostarsi da un ufficio all’altro. Lo ritrovavo poi a scaldarsi nelle riunioni serali. In mezzo a una stagione in fermento, io mi ero fermato: per quanto rimanessi fedele a un’intuizione di cui solo più tardi avrei potuto cogliere l’esattezza, non sapevo che direzione prendere, e devo ammettere che avrei buttato via ancora molti mesi prima di uscirne. Nel frattempo, passavo i pomeriggi a leggere in una sala rosso mattone della biblioteca comunale e al bar vicino, dove intervenivo nelle discussioni sulla nascita di nuove iniziative: ne potrei contare almeno cinque o sei diverse. Il volontariato era così vivace che gli statuti per la costituzione delle associazioni, fotocopiati negli uffici comunali, passavano rapidamente di mano in mano per essere modificati il minimo indispensabile al profilo del nuovo progetto e tornare poi in un mese nelle stesse sedi che li avevano diffusi, ma ora approvati e firmati dai soci al termine dell’assemblea costitutiva. Le proposte crescevano soprattutto nell’area sociale e in quella culturale, spesso fuse nelle finalità di un’unica iniziativa, ma stavano nascendo – ed era una novità – anche nel più giovane ambito socio-assistenziale e in quello del pronto intervento. Potrei perfino tentare una sintesi su quel periodo: rasserenata nei suoi interessi privati, che il decennio precedente aveva alimentato a dovere, lontana dalle nostalgie di una diretta partecipazione politica, la comunità cominciava a curarsi di alcune aree rimaste ai margini dell’intervento pubblico, contribuendo a creare un clima di fiducia. Dunque, conclusa la fatica dei lavori in cui ero occupato (prima in una cantina sociale, poi in un ufficio di contabilità), entravo in biblioteca e leggevo: mi muovevo nell’euforia di un’apparente libertà per cui invece provavo vergogna, al punto di correre da un evento all’altro – e la sera da una riunione all’altra – accompagnato dall’angoscia per un giudizio imminente, consapevole di non fare il mio dovere, o per meglio dire, di non farlo fino in fondo (e cosciente che prima o poi qualcuno me lo avrebbe ricordato). Studiavo, sì, con dedizione, ma studiavo ormai solo per me, secondo i ritmi di un lento abbandono.

In uno di quei pomeriggi in cui sentivo crescere l’amarezza fino a rendere enigmatica perfino la superficie della pagina che avevo davanti, dopo aver lasciato per un momento la biblioteca e un volume della Storia di Roma, ero sceso al bar. Cinque minuti dopo arrivò Carlo con un impiegato comunale che conoscevo: prendevano un caffè in piedi, risolta una complessa vertenza urbanistica. Parlavano di un avanzamento di carriera di un certo Sergio, funzionario nel Dipartimento della Programmazione Economica. Visto che si trovava in orario di servizio, il giovane impiegato della Ragioneria sembrava preoccupato di mostrare a me e al barista di non gradire eccessivamente quella compagnia, badando però di fare onore alla cortesia di Carlo, a cui dava corda sui temi urbanistici, ottenendo in risposta le impressioni ricevute negli ultimi incontri istituzionali. Avevo potuto osservare che, se il gioco dell’impiegato era troppo scoperto, la franchezza un po’ rilassata del discorso di Carlo esprimeva in realtà una strategia sottile quanto la prudenza di un diplomatico, e che i nomi dei dirigenti che citava con disinvoltura, noti al dipendente pubblico solo per questioni professionali, a lui lo erano perché li conosceva di persona e a volte aveva perfino pranzato con loro. Insomma, con l’esperienza Carlo stava diventando inarrestabile.

Congedato in fretta il suo interlocutore, a sorpresa si avvicinò al mio tavolo.

«Senti, una cosa mi sento di dirtela», fece, spostando la sedia per sedersi come chi ci si appoggia solo per pochi secondi, «dai tuoi interventi nelle riunioni, come quello che hai fatto ieri sera, mi sembri intelligente, ma sei senza entusiasmo, fatto raro per la tua età. Non c’è proprio niente che ti sollevi il morale?»

Lo diceva senza giudicare, con tono disinteressato. Tuttavia per me era difficile rispondere, con la «Gazzetta» aperta sulla pagina del basket. Alla fine dissi:

«Cerco di fare quello che posso».

«Ah, ecco. Mi raccomando. Ma quello che puoi, vedi di farlo. E vedi di farti vivo alla riunione di venerdì».

4.

La moglie di Carlo si chiamava Wilma. Alta, robusta, col naso leggermente arcuato in un viso armonioso, non era molto popolare. Vestita di abiti in acrilico – di cui possedeva un’intera collezione –, nelle occasioni pubbliche non mancava di segnalarsi e anzi riusciva inconfondibile, seduta in fondo alla sala. Intraprendente, determinata quasi quanto il marito, mancava però della sua intuizione sociale: finiva così per mettersi in mostra nelle iniziative meno rilevanti, fatto che i parenti riconducevano a una sua particolare modestia e che derivava invece più semplicemente da un errore di valutazione. In effetti, davanti alle sue dichiarazioni si coglieva un’ingenua volontà di apparire, che avrebbe potuto causarle qualche inconveniente ma che in una cittadina come questa, muovendo appena le acque, produceva poche conseguenze. Se c’era in vista la troupe di una rete tv locale, giunta appositamente per l’evento, Wilma non aveva pace finché non la raggiungeva e non si faceva inquadrare, suscitando nei presenti vari commenti animati. Ma non le dispiaceva sapere che gli altri erano al corrente dell’opinione che aveva di sé e per quanto comprendesse che non era questa la dote determinante in società – è la cortesia quella che favorisce le decisioni più atroci –, sapeva accontentarsene: non coltivando altre ambizioni questa, con un marito così, poteva permettersi di soddisfarla. Anche se forse non per intero. Sì, perché davanti a questa piccola notorietà le rimaneva addosso un leggero scontento, quasi il sospetto che tanta fatica non valesse la pena e che la vanità, in fondo, al mercato delle relazioni rendesse troppo poco. In effetti, la dote di cui si vantava di più con le amiche era un’altra, quella di saper fare i suoi conti, e in questi difficilmente si sbagliava.

Delle due figlie ormai cresciute, riteneva che Silvia le somigliasse di più e la preferiva a Clara, sostenendola soprattutto nelle sue iniziative a favore dei bisognosi; trovava Clara troppo autonoma e, anche se più seria nello studio, lontana dalla disinvoltura con cui la sorella si muoveva nella società della cittadina: a suo modo poteva essere spigliata, ma era nutrita di ambizioni incomprensibili, che non le avrebbero mai fruttato alcun successo su scala locale, la sola, a ben vedere, in cui le due sorelle potevano farsi luce. Che senso aveva cercarne altrove? E poi, dove? La scuola – lo diceva per esperienza, essendosi diplomata senza entusiasmo all’Istituto per il Commercio – rappresenta spesso una parentesi distorta che illude i migliori, infondendo loro l’errata convinzione di un successo a portata di mano, e rischia invece di scoraggiare chi punta su di sé e sulle proprie capacità di stare in mezzo agli altri. In effetti, i due anni in cui nella stagione invernale aveva lavorato come cameriera nei grandi alberghi alpini e d’estate come assistente nelle colonie marine parlavano da soli: parlava soprattutto ciò che ne era seguito. Chi sa star bene in mezzo alla gente migliora la fiducia in se stesso e di solito fa più fortuna. Insomma: parla poco, sorridi, non darti delle arie e andrai lontano. Chissà poi che cosa significasse per lei, andare lontano, quando le bastava tornare a casa dalla messa domenicale soddisfatta di aver sfoggiato l’abito migliore. Non era affatto semplice capire se convinzioni come le sue avessero reso i loro servizi in un’epoca ormai al tramonto o se non ne fossero invece il prodotto più vero, anche se in genere inavvertito.

Io conoscevo poco Clara. In effetti, nei modi esprimeva una distanza dallo stile familiare a cui teneva molto e che voleva fosse riconosciuta. Del resto, è sempre difficile comprendere gli errori delle persone care evitando di seguirle al punto da ripeterli. Così per lo più Clara leggeva, e restava in silenzio. Ma leggeva sul serio. Frequentava l’ultimo anno di liceo. Una volta mi ero seduto al suo fianco e avevo perfino azzardato un’osservazione sul suo libro, il Törless di Musil. Si era girata verso di me sorridendo ma, devo ammetterlo, con un certo distacco, senza darmi la possibilità di replicare.

5.

Dunque venerdì sera andai alla riunione dell’Associazione «Bosco Bianco», che operava in ambito sociale ed era ossessionata dai giovani e dalle loro misteriose “problematiche”. Saremo stati forse una ventina; cinque studenti universitari, tre o quattro più giovani e tutti gli altri oltre i quarant’anni. Ci trovavamo nella sala del Circolo anziani. In apertura il Presidente, un massiccio impiegato dell’azienda di trasporto pubblico, si rallegrò che finalmente si potesse dedicare un’intera serata al tema, relegato spesso allo spazio delle domande a fine conferenza. L’interrogativo era, naturalmente, il solito: «Che fare?». Salutò i presenti e aprì un grosso quaderno nero che teneva sul tavolo per gli appunti, mentre il segretario si serviva di un semplice quaderno scolastico a righe. Invece di proporre una riflessione per lanciare il dibattito, il Presidente ci diede subito la parola, riservandosi di parlare più avanti: «per non influenzare nessuno», disse.

Una cosa però era chiara: Carlo non c’era, probabilmente era stato trattenuto da qualche impegno politico. Il che mi spiacque perché, sebbene il suo contributo nei termini di un’analisi della condizione giovanile non potesse valere granché, aveva però un’altra qualità: trattava di soldi con una concretezza tale da riuscire quasi sempre convincente. In effetti, negli anni successivi, anche in contesti di volontariato (cittadini e più raffinati) alcuni soci sarebbero arrivati a pensare che in astratto sì, si possa anche parlare di soldi, come quando si parla di affari, ma che sia invece segno di una maleducazione imperdonabile parlarne in concreto e nei rapporti privati, anche – anzi specie – di fronte a chi ne abbia bisogno. In questa irrefrenabile volontà di sentirsi superiori ai bisogni materiali, in questa voglia di elevazione aristocratica quei soci credevano di prevenire le situazioni sgradevoli, sentendosi finalmente liberi di parlare di pace, di fame nel mondo (una fame lontana, mi raccomando). Ma all’epoca per fortuna questo fenomeno, che in città avrei incontrato a più riprese, non era ancora alle porte, e Carlo parlava delle risorse da impiegare in una ricerca o in un incarico facendo avvertire a tutti che il denaro era, appunto, una questione sociale, mentre invece il Presidente temeva di parlarne perché pensava, sbagliando, che il suo ruolo fosse quello di impiegarne il meno possibile.

Se Carlo mancava, c’era però sua figlia Silvia, che si era seduta in un angolo con due amici della squadra di calcio e che parlò per seconda. Prima di lei prese la parola un meccanico cinquantaduenne di una piccola frazione: lo conoscevo perché abitava vicino al negozio di dischi. Magro, con gli occhiali fotocromatici, aveva un solo motivo ricorrente: ai giovani mancavano gli spazi, mancava “una sede”. Una sede per farne che? Si era sempre tentati di chiedergli. E lui rispondeva prontamente: «Una sede per incontrarsi». Dopo averla ascoltata in due diversi contesti, pronunciata con espressione di perfetto stupore, mi ero reso conto che per lui questa affermazione andava intesa in termini ideali – il luogo dell’incontro definitivo – non tanto in quello della socializzazione (di bar, infatti, ce n’erano anche troppi). Renzo, però – questo era il suo nome – pensava che in un luogo neutro e adeguatamente predisposto i giovani finalmente si sarebbero aperti e avrebbero parlato dei loro problemi senza riserve: sarebbe venuto alla luce tutto, le loro angosce, i loro progetti. Forse anche il disgusto per il mondo degli adulti. Attribuiva alla sede materiale una virtù messianica. Non si capiva però davvero perché i giovani avrebbero dovuto preferire questa sede a un pub o a una pizzeria. Per confessarsi, gli spogliatoi della palestra e il muro del campo sportivo facevano già il loro dovere. Insomma, mi sembrava si dovesse dare ai giovani una ragione in più rispetto a quella strettamente logistica.

Alle tesi del meccanico non ci furono repliche; d’altronde, anche restando sul suo ragionamento, la sede o la si otteneva dall’ente pubblico o da un benefattore (caso remoto, in questa circostanza), oppure la si costruiva, soluzione praticamente impossibile. C’era dunque poco di che discutere.

Silvia aveva già agitato il suo braccio in aria, fra due trecce di capelli biondi – intenzionalmente vecchio stile – che le scendevano sul seno. Cominciò a parlare con tono fin troppo determinato. Ai suoi lati, come detto, Aldo e Luciano, due amici rumorosi, specie in contesti formali. La proposta prese una curva diversa: non si trattava di far parlare i giovani dei loro problemi, ma di metterli all’opera per un obiettivo specifico. La sostanza del suo discorso, sia pur con una prospettiva apprezzabile, per me non era meno scontata dell’intervento del meccanico. Si trattava di lanciare un’altra raccolta fondi: ce n’era forse una al mese, questa volta non per uno dei paesi africani di cui di solito ci si occupava, ma per la Bolivia. Silvia si era già impegnata, ci aveva già messo del suo partecipando a un mercatino che si era tenuto la settimana precedente a Trento e che aveva raccolto una somma non solo simbolica. In questa iniziativa c’era tutta la sua determinazione che testimoniava, un po’ accaldata, col maglione rosso decorato da piccoli fiori gialli attorno al collo: non si sarebbe fermata, in tutto degna di suo padre, se non davanti all’obiettivo sociale raggiunto, quello di aver dato un contributo più che ragionevole.

Aver potuto contribuire a lenire, anzi talvolta perfino a sanare una delle troppe storture del mondo le donava una sicurezza con la quale non avrebbe temuto di affrontare un convegno di matematici: va detto, però, che come in quel contesto, anche in numerosi altri mostrava di non padroneggiare fino in fondo gli argomenti, accontentandosi di mirare, per così dire, al bersaglio grosso; e il bersaglio grosso era sempre il Bene.

Il Presidente intervenne sul finire dell’intervento per esprimere il suo assenso, chiedendo ragione della modalità della raccolta, ossia se si sarebbe trattato di un altro mercatino, di una lotteria o della vendita di dolci (che si usava commissionare alle più sensibili fra le donne del quartiere). Silvia rispose che il mercatino si faceva già a Trento e che quindi al limite si sarebbe potuto contribuire con i vestiti usati che si era già incaricata di raccogliere: propose poi esitando una nuova vendita di torte, consapevole che questa modalità funzionava soprattutto come offerta una tantum, e che, nonostante questo, la situazione dei mesi precedenti aveva costretto a impiegarla già un paio di volte. La proposta era senz’altro degna, come già molte altre simili, ma non mi sentivo di apprezzare più di tanto i programmi di Silvia.

I suoi amici applaudirono in modo un po’ ironico per il contesto, suscitando lo sdegno di uno dei più assidui di queste riunioni, un corpulento ex-seminarista che per cercare di metterli a tacere arrivò perfino a citare le parole del papa (Giovanni Paolo II). Mi sembrava che, tanto per cambiare, ne sarebbe uscito poco.

6.

D’un tratto, senza che nessuno lo aspettasse, arrivò Carlo. Sedutosi senza neanche togliersi il soprabito chiese al suo vicino – Francesco Scenti, che gestiva un vivaio – un rapido sunto della serata. Il nervosismo acceso sul suo volto era sicuro indizio del dibattito che doveva aver sostenuto in una commissione comunale, dove non tutto doveva essere andato per il verso giusto. Mi chiedevo per quale ragione avesse voluto partecipare anche a questa riunione, dato che sua figlia non richiedeva un particolare sostegno. Il fatto è che Carlo prendeva questi incontri come una sorta di surrogato della vita in società, come se si trattasse di ricevimenti in cui è sempre meglio comparire sia per la cortesia dovuta a chi ha fatto pervenire l’invito, sia per non dispiacere agli amici che vi partecipano e che, anche in circostanze non del tutto piacevoli – come doveva essere appunto la sua –, sanno comunque fornire argomenti d’interesse alla serata, indicando nuove rotte da seguire. Insomma, era una delle tante strategie con le quali riusciva a non perdersi d’animo. E che questo fosse, fra le righe, lo scopo della sua presenza, fu ancora più evidente quando prese la parola per commentare la proposta di sua figlia. Non lo faceva da padre, lo mise subito in chiaro e del resto la proposta non aveva bisogno di sponsor. Benché fosse stato subito informato dal Presidente che il progetto era stato approvato, Carlo tornò a modo suo sull’esistenza disagevole delle donne boliviane, sulla loro umiltà dignitosa, «simile a quella dei nostri genitori, e sicuramente dei nostri nonni, se ci pensate», che di fronte a un destino avaro di prospettive permette di riaffermare i valori dell’umanità, «che in fondo consiste in questo, nella dignità, appunto, di accettare la propria sorte cercando di migliorarla senza creare difficoltà agli altri». «Mi piacerebbe,» si sentì di aggiungere, «che questo caso per noi fosse un po’ un esempio».

A volte, nella foga dell’esposizione, dimenticava che non stava intervenendo in una serata parigina, ma in un contesto in cui ciò che mancava non era l’onestà di fondo, riconoscibile anche nelle parole del meccanico, ma proprio quella raffinatezza che supponeva diffusa ovunque, mentre invece era così rara che lui stesso non l’aveva mai sperimentata, né lì, né certamente nelle sedute del consiglio comunale. Si stava rincuorando, e cercò di tirare avanti con qualche esempio orecchiato in altre sedi solo perché desiderava di non veder finire quel momento. In effetti, quando tornò a sedersi, sorridendo ai suoi vicini, era contento come se non si fosse mai allontanato dal tavolo del bar.

Io però non ero dello stesso umore. Visto che la serata stava perdendo il suo scopo, sentivo crescere in me il richiamo a cui cercavo di non dare retta, quello di non essere impegnato a fare il mio dovere, davanti al quale, la concretezza fuori del comune di una seduta mi avrebbe forse giustificato. Ma sembrava non ci fosse speranza.

Intervenne dunque Carletto, un elettricista grinzoso, di bassa statura, che conoscevo perché teneva con modesto successo dei corsi di teatro. Dato che era attivo anche in un’altra associazione, fondata in un paese a dieci chilometri dal nostro, disse che per i giovani loro si erano già impegnati in una tre giorni di attività che si era svolta due mesi prima con la partecipazione di Riccardo Boulé, un attore teatrale che per me era dotato della stessa intuizione della mia sfinge di plastica, prezioso souvenir del museo egizio e indimenticabile regalo di mia zia Marta. Dunque, il successo, i modelli intervenuti nella lunga processione di inganni che era stata quell’iniziativa (una pittrice dilettante, il giornalista sportivo più noto della tv locale, un poeta dialettale affermato in provincia) avevano reso Carletto tanto fiero da spingerlo a concludere l’intervento con un tono inatteso, che forse avrebbe dovuto tener conto dell’umiltà boliviana e che rischiava quasi di dare ragione a Carlo: «Vi dico come è andata. A me è sembrata un’ottima esperienza. Spero che possa servirvi come esempio».

Carlo aveva colto che ero di cattivo umore e con un’intuizione per me acutamente dolorosa aveva accennato al mio vicino, uno dell’associazione alpini, di spronarmi a intervenire. Questo mi si avvicinò per dirmelo:

«Carlo mi fa capire che dovresti dire qualcosa».

Io guardai verso Carlo con un misto di gratitudine per l’intuizione non comune e di fastidio per essere stato colto a disagio:

«Magari dopo», risposi a bassa voce, ma in modo che potesse capirlo. Lui reagì scrollando la testa.

Il Presidente propose di considerare i giovani come il campo di studio per una ricerca da affidare ai sociologi: era opportuno coinvolgere qualcuno dell’università perché, nelle sue parole, era indispensabile «capire chi fossero davvero», i giovani. Menzionò poi sua sorella, che era vicina di casa di un docente di Sociologia delle Comunicazioni. Per quanto potesse sentirsi soddisfatto della proposta, avrebbe guadagnato di più se, invece che guardare lontano, avesse cominciato ad ascoltare vicino: perfino Silvia si era spazientita. E così gli altri giovani presenti. Perciò fui costretto malvolentieri a prendere la parola, anche se mi ero ripromesso di non farlo: se lo avessi fatto prima, rispondendo all’invito, forse sarei stato ancora di umore accettabile, ma ormai era tardi: dissi più o meno che per cominciare a dare un po’ di sostanza al progetto si poteva valutare le testimonianze dei giovani presenti, le loro espressioni in ambito sociale e culturale. Insomma, non era obbligatorio pensare ai giovani solo come a degli utenti di un centro di ascolto.

Il Presidente rimase parecchio deluso perché, disse, avrebbe pensato di trovare in me un alleato, un sostenitore della ricerca. Lontano, Carlo scrollava ancora la testa. Era cosciente delle mie ragioni e sapeva che le esprimevo meglio di lui, ma – come mi avrebbe fatto capire – nei miei interventi secondo lui sbagliavo i tempi. Sapevo che la politica non sarebbe mai stata il mio campo e in effetti non mi sbagliavo, ma la sua osservazione era giusta. Fu un altro argomento per aggravare il mio malumore, che si aggiungeva al carico quotidiano. Mi chiesi, chissà perché, che cosa avrebbe pensato se avesse saputo – e io ero certo che non lo sapesse – che il giorno prima, nella garanzia di incognito offerta dai sobborghi di Trento, ero uscito con la migliore amica di sua figlia, l’altra.

Come tutti i racconti della rubrica, anche questo è opera di fantasia. Ogni riferimento a persona o cosa è da ritenersi puramente casuale. (wn)