Miguel Gotor, a proposito del romanzo Storia aperta di Davide Orecchio, ha scritto su «La Repubblica» un articolo intitolato Parassita nel nome del padre, poiché il protagonista è un figlio disposto a riscattare il genitore, scrivendo il romanzo che lui non è riuscito a scrivere. Il senso positivo del termine parassita, non proprio di buona fama, consiste nella capacità di cavare quanto ancora possibile dalla vita del padre dopo la sua morte, “alla ricerca di una disperata quanto impossibile solidarietà”; di qui il valore creativo e ricostruttivo di quei funghi che “modificano l’aspetto e il comportamento dell’animale che invadono”. Tale processo di cannibalizzazione e restituzione della vita dei padri, che Gotor intravede anche in altri scrittori italiani contemporanei, vale appunto per la biografia, ma di certo più frequentemente si è offerta sul piano delle forme, assumendo il nome di Manierismo. Caratteristico del secondo Cinquecento, era già venuto a galla nelle passate età delle decadenze argentee, resistendo carsicamente fino al presente sotto la voce “postmoderno”. Il Novecento letterario poi, sorto sotto la costellazione della lirica autoreferenziale di Mallarmé e seguaci, della linguistica di de Saussure, o della critica del Formalismo russo e quindi dello Strutturalismo, non ha fatto che enfatizzare l’inseguirsi, sfidarsi e superarsi, ma anche comunicare e ibridarsi delle scritture. Torniamo quindi a riflettere sul nodo decisivo nell’opera di Michele Mari rispetto al passato letterario, che tanto disperatamente gli appartiene e lo ha nutrito, attraverso il ventaglio di opportunità squadernate in una raccolta di racconti come Le meravigliose rovine di Sferopoli (Einaudi 2021).
La scrittura parassitaria può partire da una semplice evocazione di uno sfondo, senza precisi connotati, un’atmosfera del genere horror come per esempio nel racconto che dà il titolo alla raccolta. Il viaggio di un automobilista in spazi sempre più desolati e metafisici, lungo una strada dai contorni onirici, le cui località, da note e pacchiane, diventano via via più inquietanti nella nomenclatura (Lande Vetrate, Calcinate Ustiario), nelle attività illustrate dalla guida (la “fucinatio”) e infine nelle conseguenze sul visitatore: delirio, soffocamento, urlo. Restando ancora nel generico si può poi evocare una nebulosa di testi non ancora definiti, come in Argilla che riprende la figura del golem, l’automa di creta creato dal cabbalista boemo Rabbi Löw: una leggenda ebraica già utilizzata con maerstria da Gustav Meyrink appunto nel visionario Il Golem (1915) e a fine anni Venti da Leo Perutz (Di notte sotto il ponte di pietra). In Con gli occhi viene ripescato, tramite lettere che si scambiano un affittuario preoccupato, l’amministratore di condominio e una reticente proprietaria d’appartamento, il tema della stanza chiusa da non aprire secondo misterioso divieto, per evitare spiacevoli conseguenze; e viene subito alla mente la fiaba nera, variamente rielaborata (ottima la versione di Mary McCarthy), di Barbablù, citata esplicitamente anche da Stephen King in Shining con la camera 217 del demoniaco hotel Overlook.
Il passo successivo consiste nella coagulazione in un testo preciso, di un suo luogo o personaggio, da trapiantare in un nuovo racconto. Così il teschio del Capitano, nell’omonimo racconto, intrattiene i suoi pari al Castello di P*** con una storia che alcuni di essi individuano come La maschera della Morte Rossa di Poe, mentre altri avvicinano il protagonista al Convitato di pietra presente nelle numerose variazioni sulle vicende di don Giovanni. Del resto ne Il tema della III C, in cui il maestro invita i suoi scolari a scrivere una storia paurosa per ciascuno, a leggere quindi e commentare quella degli altri, una bambina ritiene migliore quella di una compagna, pur avvertendo che “non vale perché credo che la ha copiata da un libro di storie paurose che ha a casa”. Ad essere richiamato può naturalmente essere il linguaggio, come Mari ha saputo fare agli esordi con quello leopardiano e qui con lessico e sintassi di Boccaccio, o certi cliché del genere quali la chiusa con la visione di un futuro non detto ma quasi certo e minaccioso; in una visione a specchio di eventi presenti destinati all’eternità: “Tutti i turisti morti del mondo pigiati, in cerca del biglietto cumulativo Basilica-Cappella della Stortura-Museo. Nel Museo, in un plastico, voi. State guidando sulla SP 921.” Oppure quando il golem vincitore sugli altri li fa a brani, li reimpasta in un supergolem a cui passa il cartiglio che insuffla la vita: “poi il titano fece il suo primo passo in direzione del più vicino abitato. Il suo nome era «creatore di golem».”
Al di là della semplice evocazione, vaga o puntuale, o dell’innesto che fa gemmare una nuova specie letteraria, si dà la vera e propria interpolazione. Ne Le fonti del mondo l’interazione parte dai versi della canzone di Jimmy Fontana con citazioni ad affinità tematica, commento, proiezione reciproca, e con la sorpresa in nota finale che si tratta di plausibili apocrifi inventati dallo stesso Mari, in un divertito pastiche amoroso-cosmico. Mentre in Variazioni Goldberg celebri fatti o detti di personaggi famosi vengono ambientati in modo da spiegarli con pseudofilologia e stravolgerli (“- O madre, mi scappa la cacca! – [sberla] – Quante volte ti ho detto di non usare certe parole! – strillò la signora Cambronne rifilando un secondo manrovescio.”), secondo l’estetica dello stesso “musico” Johan Amadeus, che “era uomo di lunghi sospiri: – Che noia -, dicea, – vorrei un pocolino variare. -”
Più facile del solito è prendere un testo apparentemente chiuso e aggiungerci una coda che compie lo scarto retrospettivo. Tuttavia Mari, se in Il falcone interviene sulla novella di Boccaccio al punto in cui Federigo degli Alberighi imbandisce il suo carissimo volatile all’amata, aggiunge ancora un paio d’interpolazioni prima di partire per la seconda parte, tutta nuova, che mette in questione il senso dell’originale. Monna Giovanna infatti è orripilata dall’imbandigione che priva il figlio del suo trastullo lenitivo e per spregio sposerà un deforme pretendente. Il parassita fa in questo caso spuntare un ramo affatto differente di narrazione, in grado di illuminare diversamente il protagonista, rivelatosi, con quel gesto, non generoso e nobile, ma mosso da “pompa e vanità di parvenza”, perseguitato quindi dal giustamente rancoroso falcone in forma di fantasima. Alla fine appare lo stesso Boccaccio che, forse impietosito dall’errore fatale dell’eroe cortese, gli annuncia appunto il proprio abbellimento letterario, divinando però anche il riscrittore futuro “che tutto e fededegno il fatto tuo narrerà, ristabilendo per sempre l’onta del nome tuo.”
Certo il parassitismo può essere generato da spinte differenti: l’ammirazione per il modello, la sfida al superamento, l’ironia per qualcosa di anacronistico in un nuovo contesto storico e sociale (come già successo nel Medioevo e con Boccaccio), la reinterpretazione etica come in Mari e oggi secondo dettami di politicamente corretto o addirittura di cancellazione culturale. Tuttavia l’atteggiamento di chi arriva gradus ad parasitum non sembra né quello censorio né quello avanguardistico di lotta fra le forme in corsa, piuttosto un abbraccio amoroso, una compenetrazione e inflorescenza dall’interno. Più che una trionfale e narcisistica presa di distanza, al modo del test ottico-psicologico della Giovane e della Vecchia, una immagine è contenuta nella precedente, e solo l’inclinazione dello sguardo fa prevalere l’una o l’altra, comunque sempre con in filigrana la seconda presenza. Gli organismi risultano intrecciati e il fungo non vampirizza ma spunta iridescente dalle commessure del tronco: dà fuori una strana novità magari a cresta di gallo.
Tocca però ripetere che in Mari raramente si tratta di un mero gioco formale, perché sempre nelle pieghe più libresche “fa capolino la più umana di tutte le materie: l’autobiografia”, come ha scritto Simonetti su «La Stampa». La già citata bambina della III C rimproverava la compagna per una banale copiatura, mentre Lojacono Carlo dichiara: “per me la storia che fa più paura è quella di De Cillis, perché dice che è una storia vera” e un altro scolaro ancora rincara: “A me la storia che ha fatto più paura di tutte è stata quella di Masetti, perché quell’idea che la mamma del protagonista è un ultracorpo ce l’ho avuta sempre anch’io, e se ce l’ha avuta anche un altro vuol dire che c’è la probabilità che è vera”, ricordando che tale suggestione è del Mari bambino di Leggenda privata. Galimberti Sara afferma definitamente che l’intreccio tra realtà e letteratura, lungo i binari dell’imitazione e delle profonde pulsioni esistenziali, è forse indistricabile anche nella scrittura di genere tanto formalizzata (ma pure così intrisa di terrori infantili): “Per me la storia più paurosa è quella di Racalmuto, non so perché. Forse perché mentre la scriveva vedevo che guardava sempre Lojacono, e siccome Lojacono faceva uno strano movimento con la testa, Racalmuto lo imitava e insieme sembravano due cavallini di quelli con la molla al posto del collo. Però il movimento di Racalmuto faceva più impressione.” Ed il già citato teschio del Capitano riciclava come successa a lui la storia della Morte rossa, in nome di un incoercibile desiderio di colpire l’attenzione dei teschi ascoltatori, “poiché non c’è limite alla sofferenza, pur pacificata come materia quella materia fu ancora capace di soffrire”; sensismo leopardiano in modalità “cordoglio e riso” (ancora Simonetti).
Del resto nel Dialogo fra Leopold Mozart, Wolfgang Amadeus Mozart e un venditore di formaggi quest’ultimo magnifica il gorgonzola in quanto “punto di arrivo della tradizione e insieme sua ironizzazione”. Un’ironia che dovrebbe allontanare il modello, come capita in certo postmoderno, ma che nell’autore parassita non è sempre leggera; anzi ribadisce la forza del legame con il putrescente passato. E così il formaggiaio, che esalta il suo puzzolente beniamino di fossa, prescrive al genio di Salisburgo, a Mari e a tutti i fanatici delle antiche forme: “guardatevi dalla brillantezza per la brillantezza. Vincetevi, non assecondate troppo il vostro mostruoso talento, tendete l’orecchio alla notte silente, allo struggimento dell’esule, al rantolo dell’agonizzante, al disperato richiamo della bestiola senza nome.”
E noi tutti seguiremo il formaggiaio!