da Tra donne sole
Cap. 1
Arrivai a Torino sotto l’ultima neve di gennaio, come succede ai saltimbanchi e ai venditori di torroni. Mi ricordai ch’era carnevale vedendo sotto i portici le bancarelle e i becchi incandescenti dell’acetilene, ma non era ancor buio e camminai dalla stazione all’albergo sbirciando fuori dei portici e sopra le teste della gente. L’aria cruda mi mordeva alle gambe e, stanca com’ero, indugiavo davanti alle vetrine, lasciavo che la gente mi urtasse, e mi guardavo intorno stringendomi nella pelliccia. Pensavo che ormai le giornate si allungavano, e che presto un po’ di sole avrebbe sciolto quella fanghiglia e aperto la primavera.
(…)
A me pareva di non essermi mai rilassata un momento. Forse a vent’anni, quand’ero ancora una bambina, quando giocavo per le strade e aspettavo con il batticuore la stagione dei coriandoli, dei baracconi e delle maschere, forse allora mi ero potuta abbandonare. Ma in quegli anni per me carnevale non voleva dir altro se non giostre, torroni e nasi di cartapesta. Poi, con la smania di uscire, di vedere, di correre per Torino, con le prime scappate nei vicoli assieme a Carlotta e alle altre, col batticuore di sentirci per la prima volta inseguite, anche quest’innocenza era finita. Strana cosa. La sera del giovedì grasso, quando papà s’era aggravato, per poi morire, io piansi di rabbia e l’odiai, pensando alla festa che perdevo. Soltanto la mamma mi capì quella sera, e mi prese in giro e mi disse di levarmi dai piedi, di andare a piangere in cortile da Carlotta. Ma io piangevo perché il fatto che papà fosse per morire mi spaventava e mi impediva dentro di abbandonarmi al carnevale.
Cap. 12
Rosetta respirò forte, non cercò di sorridere. Momina disse: “A che ora avevi preso il sonnifero?”.
Ma Rosetta non rispose a questo. Si scrollò le spalle, guardò in giro e poi chiese a voce bassa, esitando: “Davvero ha creduto che mi fossi sparata?”.
“Se proprio ci tenevi” disse Momina “era meglio spararsi. Ti è andata male”.
Rosetta mi guardava intimidita, dal fondo degli occhi – mi parve un’altra in quel momento – e bisbigliò: “Dopo si sta peggio che prima. È questo che spaventa”.
Cap. 19
Quand’ero bambina invidiavo le donne come Momina, Mariella e le altre, le invidiavo e non sapevo chi fossero. Le immaginavo libere, ammirate, padrone del mondo. A pensarci adesso non mi sarei cambiata con nessuna di loro. La loro vita mi pareva una sciocchezza, tanto più sciocca perché non se ne rendevano conto. Ma potevano far diverso? Al loro posto avrei fatto diverso? Rosetta Mola era un’ingenua, ma lei le cose le aveva prese sul serio. In fondo era vero che s’era uccisa senza motivo, non certo per quella storia del primo amore con Momina o qualche altro pasticcio. Voleva stare sola, voleva isolarsi dal baccano; e nel suo ambiente non si può star soli, non si può far da soli se non levandosi di mezzo. Adesso Momina e gli altri se l’erano già ripresa: c’eravamo andati insieme a pigliarla a Montalto. Ripensare a quel giorno mi faceva pena.