Il pulviscolo dorato, che vedeva muoversi sul fondo blu del cielo notturno e scomparire allorché veleggiava davanti alle ghirlande di lampadine, gli parve una mescola di pineta bagnata, sudore, creme abbronzanti e profumo da grandi magazzini, tanto tattile da poterlo palpare a piacimento ed affondarci le mani fino ai polsi: l’aura di lei, il suo spirito venuto fuori dal corpo e quello dell’estate. Ed anche una sfumatura di caramello bruciato, di pelle brunita, che galleggiava su batuffoli di zucchero filato accesi sui loro stecchini come fiammiferi di luce spettrale. Lui le lasciò nella sinistra il suo soffione dolciastro e si avvicinò al martello della forza; picchiando sulla base con i suoi muscoli da operaio fece alzare in alto la colonna, insieme alla risata di lei, che però ricordava forse qualche altro capace di far schizzare la luce su su fin verso i puntini dove stavano i Russi. E poi s’immersero nel tunnel della paura, fitto di gridolini, e salirono su quelle macchinine tanto simili alle lucidatrici che si vendono oggi ai grandi magazzini, che si scontravano di testa come sciocchi insetti corazzati. E che facevano anch’esse tanto ridere, con il colpo prima e la risata seguente a sbilanciare il corpo della ragazza; e il braccio di lui a trattenerla a sé. “Bruno, sono stanca”, disse a un certo momento, con quel labbro un po’ ripiegato da impiegata di concetto, che in un dettaglio smagliava tutto l’incontro e riduceva in fretta le ore passate a un mucchietto di giocattoli troppo infantili, rotti e dall’aria malinconica, proprio mentre l’indifferente e grassa nube dorata andava rarefacendosi insieme ai visitatori delle “giostre”.
“Ciao, ragazzi, ciao”, accoglie la voce Bruno, Ida e le sue amiche ritrovate sulla via buia del campeggio dopo una serata a ballare, cicalanti ed incespicanti; poi appare anche la canottiera bianca del sorvegliante come un lenzuolo appeso nell’aria, poi ancora il corpo atletico, il viso sorridente e i capelli lunghi da indiano. “Tutto a posto?”, chiedono ridenti le ragazze, “Non hai ancora picchiato nessuno questa notte Corvo Selvaggio?” Lui ride più forte, compiaciuto, dice che no e fa spazio verso le tende; Ines saluta Bruno, che non saprebbe se si fosse aspettato altro dalla scarsa intimità, e se ne va con il gruppo. Corvo Selvaggio offre il bicchiere della staffa e Bruno meccanicamente accetta: conosce già molti dei racconti con cui il guardiano incanta la sua platea, come per esempio la conoscenza di Adriano, quando in bottega da orologiaio quello smontava i Longines per pulirli, li rimontava lasciando fuori alcuni minuscoli componenti, e loro lo stesso camminavano alla perfezione.
Corvo Selvaggio s’infila a metà nel suo pulmino e spegne il trasmettitore da radioamatore, l’altro appoggio che lo tiene in contatto linguistico con il mondo delle storie; apre due sdraio di fronte alla sua minuscola tenda a tricorno: “Facciamo progressi?”, chiede a Bruno allungando la bottiglia e i bicchieri dalla pulizia inverificabile nel buio. Ma non attende la risposta, ritiene che sì, adesso Bruno fa la faccia lunga, ma che in verità non sia aspetta niente di più: lui, il vecchio operaio del mobilificio (Bruno ha trent’anni), ha orrore che la ragazza ci stia, perché perderebbe subito ai suoi occhi ogni attrattiva: se solo andasse al di là d’un bacetto sulla guancia si trasformerebbe in una donna pubblica da disprezzare, capace di inibirlo ancor più che la sua superiorità sociale. E invece non ha capito niente, perché quelle come Ines sono diverse, ormai i tempi stanno cambiando, The times are changing; ecco lo stesso moralismo, la ristrettezza di vedute dei comunisti (di cui per altro Bruno non aveva mai fatto parte, anche se non aveva il coraggio di dirlo), mentre loro, i giovani figli del proletariato militante, sì che camminavano nel futuro. La verità è che Bruno, gli operai, il partito con il suo grigiore sentimentale e mentale, non si meritavano l’estate. Continuasse pure a pagare le pizze, il ballo, le giostre a quelle impiegatine, e a far finta che gli andava bene così, mentre il mondo aveva preso a correre. Resosi conto di essere stato un po’ troppo duro nell’arringa, con quello che considerava in fondo un compagno, sebbene retrogrado, Corvo Selvaggio volle consolarlo mostrandogli come aveva continuato il suo racconto d’esperienze, perché il giovane era anche un narratore per istinto; anzi aveva scelto il lavoro estivo di guardiano notturno in campeggio in quanto sosteneva fosse il migliore, grazie alla calma della notte, per coltivarsi come scrittore. Bruno però ebbe un sussulto d’orgoglio, dichiarandosi stanco e rimandando a domani.
Sarà stata la bevuta notturna o una certa agitazione per gli eventi e le chiacchiere della serata, fatto sta che Bruno, dopo un breve sonno, si alzò per orinare. Da una finestrella delle latrine il suo sguardo lucido e intontito come quello d’un cane intento ai propri bisogni vide distintamente passare davanti alla tendina di Corvo Selvaggio, accesa all’improvviso da una luce accecante, sostare e poi allontanarsi, una siluetta femminile. Fu un attimo che gli salisse un rigurgito dallo stomaco. Senza nemmeno scrollarsi, scivolando e bestemmiando, si diresse verso il blu della tenda che l’alba appena sorgente stava per far crepitare sulla sommità come il disturbo di uno schermo televisivo. “Vieni fuori”, gridò, “impostore, vieni fuori!” Da dentro una luce lo colpì negli occhi facendolo indietreggiare e poi la voce pacata ma ferma di Corvo Selvaggio: “Ti avverto, Bruno, torna a dormire, o dovrò distruggerti.” “Vieni fuori”, continuava a gridare Bruno, ormai esasperato da quelle vacanze a Jesolo, così piacevoli e così frantumate, che presto sarebbero finite con il ritorno al lavoro, dall’irreale stupidità dell’avversario, mentre venivano fuori dalle tende come lumache limacciose le teste dei campeggiatori, a cominciare probabilmente da quelle di Ines, di Maria Rosa e delle altre. E allora si lanciò con rinnovato furore verso la piccola imboccatura della tenda: sul petto nudo gli si impresse il disegno di una ciabatta giapponese. Dopo aver picchiato la testa contro il parafango del pulmino vide Ines con un vestitino a pois, simile a un ventaglio rovesciato, fissato in vita da una cintura di stoffa nera, salire sul sellino posteriore di una Vespa color acqua marina, e il dettaglio di una scarpa rossa, pitonata al centro e con la punta metallica, mentre dava il colpo dell’accensione; infine un volo per l’aria dei due amanti che salutavano i terrestri con la mano.
Quando si svegliò Bruno era in ospedale con la testa fasciata, per accertamenti gli disse un’infermiera; non sembrava niente di grave, tra un paio di giorni probabilmente sarebbe stato dimesso. Qualche ora dopo, mentre fissava il soffitto, entrarono le ragazze tutte cinguettanti con dei regalini in mano: delle paste, un gran cappello sotto cui nascondere il grande bernoccolo. Ines era in mezzo a loro ma come un po’ distante, sulle sue, e quando le altre salutarono con dei bacetti sulla guancia già ispida, o soffiati dalle dita, restò ancora sola con lui. Appena irrigidita in quel segnale di privilegio. E fu lui a chiedere scusa. Fuori, appoggiato al pulmino, Corvo Selvaggio disse ad Ines: “E ci mancherebbe, chi sa che la botta non gli ha fatto entrare nella testa la realtà dei nostri tempi”; lei lo guardò in tralice senza parlare, poi entrò nell’uccelliera del veicolo dove chiacchieravano e ridevano tutte insieme le amiche. Bruno restava disteso nella camerata vuota, con il cabaret fragrante di profumi sul comodino e il cappello di paglia sul letto, all’altezza dei ginocchi; gli sembrava che tutto si fosse riaggiustato e aspettava di nuovo sereno di rimettersi nell’ultima sequenza di giorni tra spiaggia, tenda, ristoranti, temendo soltanto il guastarsi del tempo. Qualcosa infatti era cambiato nella luce che arrivava obliqua dalla finestra, come l’abbassamento di una nota. Percepì anche il suono insistito di un clacson, forse di saluto, prima di quello d’un motore in allontanamento, ma ora già si trovava nel dormiveglia.