Comincia con un pezzo di bravura e di chiarimento il nuovo libro di poesia di Massimo Gezzi, “Sempre mondo” (Marcos y Marcos, 2022). La poesia si intitola “Per chi”, trentotto versi in cui l’autore si interroga su cosa lega “lo spazio percorso” al “tempo dimenticato”, e quel qualcosa che li lega è “il punto d’intersezione” tra i due, il nodo, e quando “il nodo / si rompe accadono le cose”, “una frase attesa a lungo / e infine pronunciata”. E è da lì che “si riconoscono / le direzioni, si distinguono / gli sbagli, le deviazioni, soprattutto / gli errori fondamentali senza i quali / nulla esisterebbe in questa stanza / e anche in quella in cui adesso siedi tu.”
I successivi quarantasei testi sono spartiti in quattro sezioni [Un’educazione sentimentale, Cronaca nera, Quattro lettere di Paul Signac a Èmile Verhaeren, Basta il tempo] di suddivisione netta.
E se la prima sezione porta con sé gli anni giovani di “un’educazione sentimentale” – della figlia («Ti guardo dallo specchio, / in un momento di strada libera: / “Tranquilla”, ti prometto: “Arriveremo”.») e degli alunni, per il lungo tempo della pandemia per forza e a malincuore tenuti “a distanza” (nel quale tempo “il vuoto più penoso” “non è la lontananza”: “è che parlandoci così, da lucina / a lucina, da schermo a videocamera, / è impossibile guardarsi negli occhi.”) –, la seconda “reagisce” alla lettura di notizie di cronaca, opponendo, a tale maniera, le idealità e le prassi di quella educazione individuale (“un’educazione” e non “l’educazione”) all’imperfetto, spesso avverso e doloroso, altre volte nero, di quanto verrà dopo.
Nella terza sezione il nodo si spezza, è l’inatteso più inatteso e definitivo, muore una persona amica e prossima a te, e non è più cronaca o storia, ma pagina di diario e lettera; di questo dicono le quattro lettere di Signac all’amico Verhaeren, quattro lettere che potevano essere, quelli i sentimenti, ma non vennero scritte, e è Gezzi a scriverle per conto di Signac e le inoltra all’amico Èmile, ma insieme le inoltra anche all’amico poeta Antonio Santori (1961-2007) in occasione dell’anniversario della sua morte, un nodo che si spezzò, le parole attese a lungo, e infine pronunciate.
Chiudono il libro le sedici poesie di “Basta il tempo”, perché il tempo prosegue, prosegue sempre e sempre prosegue, e non potrà essere che uno schiudersi allora, uno spalancarsi, archetipi di vita, il mare in primo luogo – anche nella sola foggia di “approdo” al suo ramo di una gazza -, o sponda di lago, perché questo, questo del tempo che sempre prosegue, è lo sfondo che svolge “la storia trascurabile di ognuno”. “Basta il tempo per renderla infinita”, scrive Gezzi, poi si corregge, “Che ovvia e insopportabile sciocchezza: / basta il tempo.” Sì, basta il tempo, l’illimitato non ci riguarda.
È la penultima poesia del libro. Resta il corsivo dell’ultima: una notte sta terminando e “il primo cenno di luce / negli occhi porta pure / un ronzio, un motore che si accende / e mette gente nella nuova / mattina che comincia”, e la rinasce al mondo, sempre mondo.
*
Buio all’alba
Oggi sembrava che il giorno non spuntasse,
al suono della sveglia.
Hai guardato le montagne, hai detto
che era ancora notte e che tu
te ne tornavi a letto, perché il buio
non ti piace. Ho cercato di convincerti:
fa brutto, ho spiegato, le nuvole
soffocano l’alba, c’è nebbia, piove fitto,
ma tu non hai voluto saperne
e hai fatto dietrofront. Per un attimo
è salita anche a me la paura
che il giorno non venisse:
troppo scuro rispetto a ieri,
ho pensato, e troppo all’improvviso.
Che parole userei se fosse vero?
Se questa fosse l’ultima mattina
da dividere e una strage,
una sciagura della storia
ci obbligasse a salutarci in un istante,
come ad altri sta accadendo proprio adesso?
Come potrei dirlo a chi proteggo,
mentre lei sta borbottando
che ha fame e nonostante faccia buio
rispunta sulla soglia e si convince
che forse un po’ di luce è già cresciuta
rispetto a prima, e magari è abbastanza
per cominciare la giornata.
Altre domande
“Siamo poveri?”, mi chiede.
“No, non lo siamo”.
“Allora siamo ricchi”, ribatte.
“Nemmeno”, cerco di dirle senza sembrare
ridicolo a me stesso o a tutti quelli
che non mi ascoltano. “Ma perché
ci sono i poveri?”. Brava, penso.
E adesso prova a dirle
qualcosa di sensato: sforzati, balbetta.
“Perché qualcuno vuole avere
più denaro di quanto gliene serva
per vivere, star bene”.
“Noi no, non è vero?”. “Noi no”, la rassicuro.
Ma ho mentito, ho barato e forse un giorno
non mi perdonerà.
Essere in comune
Non posso non vederlo: quella luce che qualcuno
ha acceso, all’improvviso, continua a tradurre
in presenza questa minima tenace
resistenza alla notte. Così molte volte abbiamo visto
una macchina passare, con la luce interna accesa
che lasciava risplendere un ricciolo, una spalla,
o in una tromba delle scale un’ombra scura
salire oppure scendere, o stare immobile nel buio.
Questi contorni, queste voci qui sotto,
la città con il suo sonno, il suo rumore
d’acqua vasta, mentre tutti nelle stanze
disintegrano il giorno nello scrigno
del letto – tutto questo non basta
per essere in comune.
Farther On
da Emily Dickinson
Le nostre vite sono svizzere –
così immobili, così fredde –
finché un bel pomeriggio
le Alpi dimenticano le tende
e guardiamo più in là.
Dall’altra parte c’è l’Italia!
Ma come un guardiano severo –
le Alpi solenni
le Alpi sirene
per sempre si mettono in mezzo.