Nei due giorni del convegno ci ritaglia, l’organizzazione, una pausa, con tanto di scampagnata di qualche ora a Cortona. Salendo lungo la stradina che porta alla chiesa di santa Margherita, mi trovo accanto il sorriso largo, spontaneo dell’ansimante e loquacissimo Piganolli (l’ultima volta, quando mi invitò a Torino per un seminario internazionale, ansimava decisamente meno); in testa due miei allievi, freschi di dottorato, radiosi per le loro brevi relazioni a metà del primo giorno. Da un piccolo spalto intravediamo la pianura; a sinistra un ampio lembo del Trasimeno. Alcune casette hanno giardini ingombri di gerani fioriti, tinti di rosso e di lilla, e qualche quadratino di terra da cui svettano gambi di rose. Il caldo, benché maggio, sprigiona squarci roventi. Nugoli di moschini, qui e lì, bersagliano la vista; fanno ancora più fastidiosa la salita. Al Diocesano da Tartucci, un’ottima ricercatrice di Bologna, con cui intrattengo una corrispondenza da qualche mese, ci viene illustrato con dovizia il compianto sul Cristo morto di Signorelli. Non annuisco; spero si deduca da ciò la confessione della mia crassa ignoranza sulla pittura. Da molto tempo mi sono stancato di fingere la conoscenza di ciò che ignoro.
Ieri sono stato esaudito dal direttore dell’Archeologico di Arezzo: un’apertura riservata, il tempo per vederlo da vicino, da solo valeva tutta la collezione. Rimango in un’estasi quasi bambinesca davanti al cratere di Eufronio con l’Amazzonomachia di Eracle.
Ester mi ha elencato al telefono tutte le meraviglie che avrei mancato: la cappella Bacci di Piero della Francesca, il crocifisso di Cimabue, la casa di Vasari. “Io sono rimasta pietrificata davanti alla lunetta di una stanza. Vasari ci ha dipinto l’allegoria della poesia fanciulla. Devi vederla. Una grazia, una leggerezza”.
Mi rigiro tra le mani una parola: incanto. Lo spunto me l’ha dato a cena una cameriera, parlando con una sua collega: “hanno messo all’incanto la casa dei miei nonni”. M’è parsa, sulle labbra di questa ragazzotta di vent’anni, un’espressione molto alta, quasi fuori luogo; poi ho pensato all’incanto che mi hanno dato le pitture dei paesaggi, delle architetture che ho visto in questi due giorni. Incanto, parola bifronte almeno in superficie, non considerando l’etimologia, s’intende; a volerla condire con un’aggettivazione, che sarebbe cara proprio al lessico di un Piganolli, una parola enantiomorfa. Incanto si dà, quando tramite un’esperienza sovvertitrice viene smarrito il senso e il contatto con la realtà. Un’elevazione dal fango logoro del quotidiano verso un altrove che ha qualcosa del sacro, esclude i non incantati, prigionieri ancora dell’ordinario; dal basso verso l’alto. Eppure l’incanto è anche la caduta di valore di un bene, il proprietario è costretto a cederlo, non ha saputo custodirlo, e chi lo riceve non ha altro merito se non la calamita del denaro. Dall’ascesi al degrado; dalla separazione, seppur provvisoria, dalla realtà all’esilio capriccioso nella più bassa concretezza.
Terminato il convegno, durante il viaggio di ritorno, provo a fare schermo davanti all’eccitazione dei miei allievi simulando sonnolenza; e li lascio guidare e chiacchierare sottovoce. Mi piace sentire vicino i fuochi di certi loro ardori, scrutarli quasi non visto, goderne la fiamma senza far nulla, perché si tenga desta. Rimangono stupefatti, al momento dei saluti: propongo loro di vederci nel fine settimana, mangiare qualcosa sul mare, visitare insieme le necropoli rupestri di Blera e di Vitorchiano; dai tempi in cui ero matricola, non ci capitavo più. Accettano euforici.
* Questo brano è estratto dal romanzo di Danilo Laccetti Nella neve perenne (terza parte, cap. 13).