Non siamo altro che eteronimi partoriti dalla mente di un perverso sconosciuto.
Il rigurgito di bile occasionato da certi frutti dell’ingegno umano necessiterebbe meno di un critico letterario che di un gastroenterologo.
Non c’è di che preoccuparsi, in questa ennesima notte di Valpurga, dal momento che il meglio che potrebbe capitarci sarebbe di non essere letti dai nostri contemporanei.
La mia inattualità deriva, innanzitutto, dalla pigrizia.
Quel che è accaduto nel Novecento dovrebbe rimanere nell’Ottocento – come auspicava Borges, sommo cacciatore-raccoglitore di rovine.
Sono sempre meno gli scrittori che si arrampicano – e di quando in quando volteggiano, senza tema di precipitare – sul trapezio delle parole, laddove i circensi più accorti si limitano a riscuotere raso terra gli applausi del pubblico infantile.
«In realtà non si scrive che per tre o quattro persone al mondo» (Mario Andrea Rigoni) – due delle quali sono morte negli ultimi sei mesi…
La rivista messicana con la quale collaboro mi chiede, da qualche tempo in qua, soltanto necrologi.
«Avrei preferenza di no»: la riluttanza è oggi il solo atteggiamento, per non dire sentimento, che potremmo opporre alla diligente arroganza della dilagante ignoranza.
Bouvard orfano di Pécuchet, l’accademico latino-americano medio suole operare sotto l’influsso di un precoce climaterio intellettuale e nondimeno eccellere nelle implacabili arti del conformismo tribale.
Tra l’idiosincrasia e l’idiozia, per non essere del tutto infelici, bisognerebbe optare sempre per la seconda.
La bellezza è soggettiva; la bruttezza, no.
Vivo in un paese nel quale è lecito recidere il fusto delle palme centenarie e delle fanciulle in fiore.
Recentemente una delle mie studentesse mi ha spiegato che Moby Dick altro non è se non un «tremendo manifesto di maschilismo puro»…