Non è certo una novità. Almeno per i lettori che ancora frequentano quella terra incognita che è il nostro passato prossimo e remoto: la biografia di un autore non ha importanza, è l’opera che conta.
Lo affermava anche Alejo Carpentier (1904-1980), scrittore e saggista cubano, nelle sue Confesiones sencillas de un escritor barroco (1964). Tutti gli scrittori degni di questo nome, antichi e moderni, classicisti e barocchi, lo hanno sempre saputo.
Poi, improvvisamente, dagli anni ottanta del secolo scorso, la biografia dell’autore ha cominciato a diventare più importante della sua opera.
Che cos’è successo? Uno strano virus biofiliaco si è insinuato anche nelle menti più raffinate, tanto che, ad esempio, i diari, le lettere, perfino i disegni di Kafka, uno scrittore dalla vita assolutamente anonima, sono diventati più autorevoli dei suoi romanzi e dei suoi racconti. Per non parlare di autori come Hemingway, la cui vicenda biografica è stata a volte più romanzesca di quella dei suoi personaggi. In questo caso l’opera è stata sistematicamente sostituita dalla volontà biofiliaca – una sorta di gossip accademico – di conoscere l’uomo che si nasconde dietro l’artista.
Le cose non sono andate diversamente se l’autore aveva subito in gioventù il fascino di qualche regime politico, o se si era trovato invischiato in quella che tutti gli adepti della religione del progresso chiamano fieramente la parte sbagliata della Storia: le opere di Borges, Orwell, Malaparte, Cioran, Bellow, Kundera (la lista sarebbe lunga) invece di essere interpretate attraverso la lente estetica sono state spesso giudicate da un tribunale ideologico.
Come se il presente, in virtù del suo essere presente, avesse sempre ragione! Come se gli uomini venuti dopo fossero sempre più intelligenti di quelli venuti prima! Per caso qualcuno oggi conosce un uomo o una donna più intelligente di Platone? Un amico, un giorno, verso la fine degli anni novanta del secolo scorso, epoca in cui il tribunale emetteva dalle pagine dei giornali ogni mese una condanna a scrittori e pensatori del XX secolo (credo che in quel momento fosse il turno di Heidegger), mi disse che tutta quella gente aveva sbagliato mestiere: avrebbero dovuto fare gli aguzzini o scavare fosse nei cimiteri pubblici.
Carpentier, avendo appoggiato fino alla fine la rivoluzione cubana ed essendosi “macchiato” di una certa cecità rispetto a quello che, soprattutto nel corso degli anni settanta del secolo scorso, il suo amico Fidel Castro aveva cominciato a infliggere a scrittori e intellettuali che si opponevano ai suoi diktat, ha subito un po’ la stessa sorte: è stato da una parte fin troppo esaltato e dall’altra ostracizzato. Risultato: una valanga di pomposi studi accademici da parte degli specialisti latinoamericani e un silenzio da congiurati o una metodica ignoranza da parte degli scrittori e dei critici europei.
L’opera ha a che fare con la vita di chi la crea, certo. Ma da qui a leggere l’opera dopo aver compulsato i referti clinici, i registri della polizia segreta e le tendenze sessuali dell’autore… Negli ultimi tempi, poi, gli stessi scrittori sembrano essere stati contagiati dal virus che qualche decennio fa aveva infettato i loro lettori. Che quest’ultimi, con il passare del tempo, glielo abbiano trasmesso? Sta di fatto che succede che si ammalino gravemente e che mostrino il decorso della loro malattia in una serie di video; o che si innamorino e postino in rete le foto della loro nuova fiamma; o ancora che incappino in una depressione e scrivano nel loro blog allarmanti richieste di aiuto. Lo fanno per dovere di cronaca? Perché se non si mettono in mostra temono di non esistere? O forse l’esibizione dei loro peccati e delle loro debolezze fa parte di una strategia di mercato? I lettori biofiliaci hanno infatti, secondo le case editrici e i pubblicitari, il sacrosanto diritto di conoscere fin nei minimi dettagli la vita dei loro idoli. Si tratta di narcisismo all’ennesima potenza? O semplicemente la vergogna, il pudore e la discrezione non fanno più parte della scala dei sentimenti umani?
Quanto a me, credo che l’opera influenzi chi la scrive, l’autore, che, come l’etimologia afferma di straforo, è “colui che aggiunge”: aggiunge qualcosa a quello che c’era nel mondo. Da ciò due corollari: il primo è che la sua “aggiunta” è almeno onesta perché per compierla è costretto a sottrarre una gran parte della sua esistenza al mondo (l’opera non trasforma il mondo, non lo cambia, ma trasforma e cambia, quando ci riesce, coloro che ci vivono); il secondo è che, influenzato da quello che scrive, l’autore tende a far coincidere la sua etica con la sua estetica. Per questo la sua vicenda biografica è del tutto superflua: non aggiunge niente al mondo, sia che l’autore abbia frequentato per tutta la vita coppie di transessuali, sia che abbia eretto un monumento di carta alla fedeltà coniugale.
Carpentier, essendo morto nel 1980, non ha vissuto questa grottesca situazione in cui il rapporto tra opera e vita si è completamente rovesciato e che coincide con la fine della prima Modernità. Quest’ultima, invece, Carpentier l’ha vissuta, conosciuta e soprattutto arricchita in modo originale con i suoi romanzi, i suoi saggi e i suoi articoli.
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Qualcuno ha detto, giustamente, che la produzione saggistica e giornalistica di Carpentier è quasi tanto importante quanto quella romanzesca. E, inoltre, copre tutte le arti e tutte le letterature. Carpentier poteva scrivere di qualsiasi letteratura europea come se si trattasse della sua, ma senza mai dimenticare – e in ciò è stato più unico che raro – che per comprenderla in profondità bisognava compararla con le letterature degli altri continenti, in particolare di quello americano. Conoscitore di tutte le avanguardie e di tutti i modernismi del XX secolo, fu l’unico scrittore latinoamericano a vivere da vicino “la rivoluzione surrealista” e il primo a far conoscere sin dagli anni trenta del secolo scorso agli intellettuali parigini, come al solito riluttanti ad avventurarsi oltre i propri confini, “i punti cardinali” del romanzo latinoamericano senza il quale la storia del romanzo del XX e del XXI secolo sarebbe incomprensibile. In ogni suo saggio, come in ogni suo articolo, si respira qualcosa che si è quasi totalmente perduto: un vero cosmopolitismo, attento alla Storia, alle singole civiltà, alle identità culturali e ai décalage cronologici tra i diversi paesi. E qualcosa di ancora più perduto in questa nostra seconda Modernità – che nessuno ormai, dopo quarant’anni di equilibrismi filosofici e fulminanti carriere universitarie in suo nome, chiama più post-modernità – in cui al terrore e alla poesia del XX secolo sono subentrate nel XXI l’anestesia dei sensi e l’assenza di ribellione: una capacità di amare l’opera altrui senza alterare il proprio amore per il senso critico.
Mentre traducevo gli articoli, i saggi, le cronache e le interviste di Carpentier (una goccia nel mare della sua enorme produzione!) mi chiedevo se i temi, gli autori, le idee che vi sfilavano e perfino il modo in cui erano esposti facevano parte del mio mondo, o se invece erano stati seppelliti sotto un chilometro di “post-verità”, come oggi dicono quelli che la sanno lunga. Cioè, in pratica, di false verità. Di verità a cui si aggiunge il prefisso “post” perché non si è in grado di afferrare l’irruzione di una nuova realtà attraverso la creazione di un nuovo vocabolo o peggio, perché si desidera semplicemente intorbidare le menti. Che cosa avrebbe detto Carpentier di tutti i nostri “post”, “neo”, “trans” che dall’epoca della sua morte affibbiamo a qualsiasi parola? “Transavanguardia”, “post-umanità”, “post-letterario”, “post-comunismo”, “post-fascismo”, “neo-liberismo”, “neo-umanesimo”, “transculturalità” e così di seguito, ad libitum, fino alla fine della Storia… Ecco, lui, così attento a tutte le tappe storiche dell’umanità (dal Neolitico, in cui ancora vivevano molte tribù dell’America Latina negli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, fino ai continui sconquassi e massacri degli anni sessanta e settanta provocati da qualche dittatore), tanto da farne costantemente il punto di partenza e materia narrativa di tutti i suoi romanzi, da Il regno di questo mondo (1948) fino a L’arpa e l’ombra (1979) passando per Il secolo dei lumi (1962)e Concerto barocco (1974), avrebbe forse affermato che i nostri poveri suffissi posti davanti ad una moltitudine di parole note rivelano sì la necessità di qualcosa di nuovo, ma una necessità non supportata purtroppo da un vero coraggio di inoltrarsi nell’ignoto. Avrebbe affermato che, se non troviamo le parole per dire porzioni di realtà che ci sembrano nuove, ciò significa solo due cose: che non abbiamo rischiato abbastanza la pelle o che quelle porzioni di realtà sono state già scoperte e che stiamo solo rifacendo il verso a chi ci ha preceduto. Credo che, agli occhi di Carpentier, questo spreco di “post” e “neo” avrebbe rivelato anche un’altra cosa: la nostra resa, questa sì “post-storica”, a concepire come valore la continuità della Storia. Avrebbe rivelato la nostra totale perdita di fiducia nel passato come nel futuro e di conseguenza nella possibilità di ritrovare nell’uomo del XXI secolo caratteristiche e costanti dell’uomo non solo del XX secolo, ma di tutti i secoli precedenti.
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Carpentier non sarebbe Carpentier, ovvero il padre fondatore del romanzo latinoamericano del XX secolo – romanzo barocco, epico, storico (“La Storia della nostra America pesa molto sul presente dell’uomo latinoamericano; pesa molto di più del passato europeo sull’uomo europeo”), realista e allo stesso tempo meraviglioso (“La realtà del nostro continente è naturalmente meravigliosa”), se non avesse, attraverso le sue opere romanzesche, soprattutto a partire dal viaggio ad Haiti del 1943 e dalla risalita del fiume Orinoco del 1950 che gli avrebbero rivelato la sua missione “americanista”, reclamato, rivendicato e imposto la presenza della natura, dei miti, delle religioni, delle culture dell’America Latina all’interno dei confini del tempo e della Storia, fino a quel momento patrimonio esclusivo del romanzo europeo. Per quanto oggi, perfino le generazioni più giovani di scrittori latinoamericani tendano a trascurarlo, non dimentichiamo il grande gesto inaugurale di Carpentier: è stato attraverso le sue opere romanzesche, soprattutto quelle degli anni quaranta e cinquanta, che l’universalismo europeo ha dovuto riconoscere per la prima volta l’identità americana con la sua natura, le sue razze, le sue religioni, i suoi miti, le sue culture; che l’Europa ha dovuto accettare, seppure spesso a malincuore, che il romanzo, la musica, le arti dell’America Latina non erano appendici esotiche ma parti integranti del suo corpo storico e culturale; che, infine, la parabola discendente del Vecchio Mondo, iniziato con la Prima guerra mondiale, aveva qualche possibilità di interrompersi solo se l’Europa si fosse resa conto delle profonde contaminazioni reciproche che dal 1492 avevano segnato le culture delle due sponde dell’Atlantico.
Non sono nello stato d’animo di chiedermi se dall’anno della morte di Carpentier il declino del Vecchio Mondo abbia subito qualche intoppo o abbia al contrario continuato a declinare. Ciò che invece mi chiedo è: la cultura europea nel corso di questi ultimi quarant’anni ha ascoltato, letto, meditato sull’opera di Carpentier? Ha davvero riconosciuto come suo patrimonio spirituale il tempo e la Storia dell’America Latina? Dopo Borges, Bioy Casares, Arlt, Marechal, Reyes, Rulfo, Paz, Alejandra Pizarnik, Nicanor Parra, García Márquez, Sabato, Mutis, Monterroso, Monsiváis Elizondo, Macedonio Fernández, Fuentes, Vargas Llosa, Cortázar, Onetti, dopo Saer, Pitol, Arenas, Lamborghini, Puig, Wilcock, Piglia, dopo Villoro, Daniel Sada, César Aira, Fresán, Volpi, Palou, Rey Rosa, Alan Pauls, gli scrittori europei, e in particolare quegli italiani, hanno fatto i conti con le scoperte del romanzo latinoamericano? Hanno compreso che cosa ha significato e significa per la storia del romanzo del XX e del XXI secolo?
Un giorno, negli anni novanta del secolo scorso, dopo aver letto Notturno cileno di Roberto Bolaño, ho scritto che oggi un autentico scrittore europeo dovrebbe per forza di cose sentirsi latinoamericano. Bolaño, infatti, diceva di essere sia l’uno che l’altro, avendo appreso in egual misura da Rabelais che da Borges. Non so se Bolanõ concepisse, come faceva Carpentier, l’America Latina come una proiezione utopica e rigeneratrice dell’immaginario europeo, o piuttosto come una sorta di manicomio, ricettacolo di tutte le follie, le crudeltà e i sogni deliranti che l’Europa riesce a esorcizzare arrogandosi il ruolo di paladina dei diritti umani. Ma, restando nel limbo, non si conosce l’inferno. Il fatto è che se la “vocazione europea” dell’America Latina è presente da Carpentier a Bolaño, l’appello latinoamericano è rimasto, a mio avviso, pressoché lettera morta in Europa e nel nostro paese. Il culto di Bolaño non basta. Un autore, avrebbe detto Carpentier, non è sufficiente a creare uno “stile romanzesco”, così come non basta a farlo conoscere. A meno che l’America Latina per il lettore e per lo scrittore europei e italiani non sia quella Kitsch, magico-realista, sciropposa, telecomandata dalle agenzie pubblicitarie, tappezzata da tramonti tropicali, sentimenti assoluti e simpatiche canaglie che si incontra nei best-sellers di Isabella Allende, Luis Sepúlveda e Ángeles Mastretta.
IL REALE MERAVIGLIOSO IN AMERICA
di Alejo Carpentier
… quel che si deve sapere quando si parla di lupi mannari
è che esiste una malattia che secondo i medici
consiste nel trasformarsi in lupi…
Cervantes, Le Avventure di Persile e Sigismonda
Alla fine del 1943 ho avuto la fortuna di visitare il regno di Henri Cristophe – le rovine, così poetiche, di Sans-Souci, la mole, imponente e intatta malgrado fulmini e terremoti, della Cittadella Laferrière – e di conoscere Cap-Français, la capitale normanna dell’antica colonia, dove una strada dai lunghissimi balconi porta al palazzo di pietra un tempo abitato da Paolina Bonaparte.
Dopo aver sentito il sortilegio per nulla illusorio di Haiti, dopo aver trovato risonanze magiche lungo le strade rosse dell’altipiano centrale e dopo aver udito i tamburi del Petro e del Radá, mi sono ritrovato a paragonare la realtà che avevo appena vissuto con l’estenuante rincorsa al meraviglioso che caratterizza ormai da trent’anni certe letterature europee. Il meraviglioso, ricercato attraverso gli antichi modelli della foresta di Brocelandia, dei cavalieri della Tavola Rotonda, del mago Merlino e del ciclo di re Artù. Il meraviglioso, poveramente ispirato dagli spettacoli e dalle deformità dei personaggi da fiera – si stancheranno mai i giovani poeti francesi dei fenomeni da baraccone e dei pagliacci della fête foraine, da cui già Rimbaud si era congedato nella sua Alchimia del Verbo? Il meraviglioso, ottenuto con trucchi di prestigio, riunendo oggetti che di solito non si incontrano mai: la vecchia e menzognera storia dell’incontro fortuito dell’ombrello e della macchina da cucire sopra un tavolo da autopsia, del generatore dei cucchiai di ermellino, delle chiocciole nel taxi piovoso, della testa di leone posata sull’inguine della vedova delle esposizioni surrealiste. O, ancora, il meraviglioso letterario: il re della Juliette di Sade, il supermaschio di Jarry, il monaco di Lewis, gli espedienti da brividi del romanzo nero inglese: fantasmi, sacerdoti murati, licantropi, mani inchiodate sul portone di un castello.
A forza di voler suscitare il meraviglioso, i taumaturghi diventano burocrati.
Invocato attraverso formule risapute che fanno di certi dipinti una monotona accozzaglia di orologi liquidi, manichini da sarta, sfuggenti monumenti fallici, il meraviglioso si riduce a un ombrello, a un’aragosta, a una macchina da cucire, o a qualsiasi altra cosa sopra un tavolo da autopsia dentro una stanza triste in un deserto roccioso. Povertà immaginativa, diceva Unamuno, è imparare i codici a memoria. E oggi i codici del fantastico si basano sul principio dell’asino divorato da un fico, uscito dalle pagine dei Canti di Maldoror come inversione suprema della realtà, cui dobbiamo molti “bambini minacciati da usignoli”, o i “cavalli che divorano uccelli” di André Mas- son. Tuttavia è utile ricordare che quando André Masson ha voluto dipingere la foresta dell’isola della Martinica con l’incredibile viluppo delle sue piante e l’oscena promiscuità dei suoi frutti, la meravigliosa verità del soggetto ha divorato il pittore, lasciandolo poco meno che impotente davanti al foglio bianco. È stato un pittore americano, il cubano Wifredo Lam, a insegnarci la magia della vegetazione tropicale, la sfrenata creazione di forme della nostra natura – con tutte le sue metamorfosi e simbiosi –, in quadri straordinari e di un’espressività unica nel panorama della pittura contemporanea. Di fronte alla sconcertante povertà immaginativa di un Tanguy che da venticinque anni, ad esempio, dipinge sempre le stesse larve petrose sotto lo stesso cielo grigio, mi viene voglia di ripetere una frase che inorgogliva i surrealisti della prima ora: Vous qui ne voyez pas, pensez à ceux qui voient. Ci sono ancora troppi “adolescenti che trovano piacere nel violentare i cadaveri di belle donne appena morte” (Lautréamont), senza rendersi conto che il meraviglioso consisterebbe nel violentarle vive. Il fatto è che molti dimenticano, travestendosi da maghi d’accatto, che il meraviglioso comincia ad esistere in modo inequivocabile quando sorge da un’alterazione della realtà (miracolo), da una rivelazione privilegiata della realtà, da un’illuminazione insolita o singolarmente favorevole delle ricchezze inosservate della realtà, da un ampliamento delle categorie della realtà, sentite con particolare intensità in virtù di un’esaltazione dello spirito che conduce a una sorta di “stato limite”. La sensazione del meraviglioso presuppone una fede. Chi non crede nei santi non può guarire grazie ai loro miracoli e chi non è Don Chisciotte non può entrare anima e corpo nel mondo di Amadigi di Gaula o di Tirant lo Blanc. Prodigiosamente degne di fede risultano certe frasi di Rutilio nelle Avventure di Persile e Sigismonda sui lupi mannari, dato che ai tempi di Cervantes si credeva che esistessero persone affette da una malattia che le trasformava in lupi. Altrettanto degno di fede è il viaggio dello stesso personaggio dalla Toscana alla Norvegia sopra il mantello di una strega. Marco Polo credeva che certi uccelli volassero reggendo elefanti tra gli artigli e Lutero vide in faccia il demonio sul cui cranio scagliò un calamaio. Victor Hugo, tanto sfruttato dai contabili del meraviglioso, credeva negli spettri, perché era sicuro di aver parlato a Guernesey con il fantasma di Léopoldine. A Van Gogh era sufficiente aver fede nei girasoli per fissarne la rivelazione su una tela. Per questo motivo il meraviglioso, invocato senza crederci – come hanno fatto i surrealisti per tanti anni – non è stato altro che un artificio letterario, noioso nel suo protrarsi quanto certa letteratura onirica un po’ “aggiustata”, o certi elogi della follia di cui siamo più che sazi. Non per questo, naturalmente, darò ragione a quei partigiani del ritorno al reale – espressione che acquista un significato gregariamente politico – che si limitano a sostituire i trucchi del prestigiatore con i luoghi comuni del letterato “impegnato” o con i piaceri escatologici di certi esistenzialisti. Ma non esistono scusanti per poeti e artisti che lodano il sadismo senza praticarlo, che ammirano il superma- schio per impotenza, che invocano spettri senza credere che possano rispondere per mezzo di incantesimi, che fondano società letterarie, sette segrete e gruppi vagamente filosofici con parole d’ordine e arcane finalità – mai raggiunte –, senza essere capaci di concepire una mistica degna di questo nome né di abbandonare le più meschine consuetudini per giocarsi l’anima puntando sulla temibile carta della fede.
Tutto questo mi è diventato chiaro durante il mio soggiorno ad Haiti, ritrovandomi a contatto quotidiano con quello che chiamo il reale meraviglioso.
Mi muovevo su una terra dove migliaia di uomini ansiosi di libertà avevano creduto nei poteri da licantropo di Mackandal, al punto che quella fede collettiva aveva prodotto un miracolo il giorno della sua esecuzione. Conoscevo già la storia prodigiosa di Bouckman, l’iniziato giamaicano. Ero stato alla Cittadella Laferrière, opera senza precedenti architettonici, annunciata unicamente dalle Prigioni immaginarie del Pira- nesi. Avevo respirato l’atmosfera creata da Henri Christophe, monarca dalle brame incontenibili, molto più imprevedibile di tutti i re inventati dai surrealisti, inclini a tirannie immaginarie di cui, tuttavia, non sono mai stati vittime. Ad ogni passo mi imbattevo nel reale meraviglioso. Ma pensavo anche che quella presenza del reale meraviglioso non fosse privilegio solo di Haiti, bensì patrimonio dell’America intera, dove, ad esempio, non si è ancor finito di fare l’inventario di tutte le cosmogonie. Il reale meraviglioso si trova nelle vite degli uomini che hanno scritto la storia del continente e che hanno lasciato i loro nomi a chi ancor oggi li porta: i cercatori della Fontana dell’Eterna Giovinezza o della città d’oro di Manoa, fino a certi ribelli della prima ora o a certi eroi moderni delle nostre guerre di indipendenza diventati leggendari come la colonnella Juana de Azurduy. Ho sempre trovato significativo il fatto che nel 1870 alcuni dotti spagnoli partirono da Angostura per lanciarsi alla ricerca dell’Eldorado e che, ai tempi della Rivoluzione francese – viva la Ragione e l’Essere Supremo! –, Francisco Menéndez de Compostela percorse le terre della Patagonia cercando la città incantata dei Cesari.
Un altro aspetto da considerare è questo: mentre in Europa occidentale il folklore delle danze ha perso ogni carattere magico, in America è rara la danza collettiva che non racchiuda un profondo senso rituale e da cui non scaturisca un processo iniziatico: è il caso dei balli della santería cubana o della prodigiosa versione negroide della festa del Corpus Domini, che si può ancora vedere nel villaggio di San Francisco de Yare in Venezuela.
C’è un momento, nel sesto canto di Maldoror, in cui l’eroe, braccato dalle polizie di tutto il mondo, sfugge a un “esercito di agenti e spie” assumendo l’aspetto di vari animali e ricorrendo al loro dono di trasferirsi istantaneamente a Pechino, a Madrid o a San Pietroburgo. Ecco il vero “meraviglioso letterario”. Ma in America, dove non si è scritto nulla di simile, è esistito grazie alla fede dei suoi contemporanei un Mackandal che, dotato degli stessi poteri magici, ispirò une delle rivolte più drammatiche e insolite della Storia. Maldoror – lo confessa lo stesso Ducasse – non era altro che un “poetico Racambole”. Di lui è rimasta solo una scuola letteraria dalla vita breve. Dell’americano Mackandal, invece, è rimasta una grande mitologia composta da inni magici, conservati da tutto un popolo, che si cantano ancora nelle cerimonie vudù (è un fatto davvero strano che Isidore Ducasse, scrittore che ebbe un eccezionale istinto per il fantastico poetico, sia nato in America e si vanti così enfaticamente alla fine di uno dei suoi canti di essere un “montevideano”). E aggiungerei che, grazie alla sua natura vergine, alla sua ontologia, alla presenza faustiana dell’indio e dell’uomo di colore, alla rivelazione che produsse la sua scoperta, ai fecondi incroci che favorì, l’America è ancora molto lontana dall’aver esaurito il suo patrimonio di mitologie.
Senza che me lo fossi proposto, il romanzo che segue ha obbedito a questo genere di preoccupazioni. Vi si narrano fatti straordinari accaduti nell’isola di Santo Domingo in un periodo che non supera il lasso di tempo di una vita umana e dove si lascia il meraviglioso fluire liberamente da una realtà descritta nei minimi dettagli. Bisogna infatti sottolineare che la storia che si sta per leggere è stata costruita su una documentazione estremamente rigorosa che non solo rispetta la verità storica degli eventi, i nomi dei personaggi – anche di quelli secondari –, dei luoghi e persino delle vie, ma che cela, sotto l’apparente atemporalità, un minuzioso confronto di date e di cronologie. Tuttavia, per la drammatica singolarità degli eventi e per la straordinaria intensità dei personaggi che in un preciso momento storico si incontrarono nel magico carrefour del Cap-Français, tutto si rivela meraviglioso in una vicenda che sarebbe stato impossibile ambientare in Europa e che pure è reale quanto qualsiasi fatto esemplare racchiuso a fini di edificazione pedagogica nei manuali scolastici. Del resto, che cos’è la storia dell’America intera se non una cronaca del reale meraviglioso?
“El Nacional”, Caracas, 1948
Prologo a Il regno di questo mondo, Città del Messico, 1949