La bocca della lavatrice se ne sta lì, aperta. Col suo cibo accanto, in un cesto, pronto per essere inghiottito dallo stomaco vorace del cestello. Che brama lo sporco, vuole fagocitare il sudicio della giornata che ci si è appiccicato addosso. Ficco le mani nel mucchio e scelgo i colori scuri separandoli da quelli chiari, destinati al prossimo bucato. Infilo le braccia dentro la macchina e ci deposito le nostre fatiche. Tieni, rendici di nuovo puliti, le dico. E, dal suo interno, mi risponde un sentore di lavaggi precedenti, di stoffa bagnata e saponi che hanno appena reso puliti altri asciugamani, altre lenzuola, altri indumenti. Quegli stessi che sto indossando in questo momento, probabilmente, e che i miei figli stanno strusciando contro un autobus, o i banchi di una scuola. Domani saranno nel cesto ai piedi della lavatrice, in un nuovo mucchio.
Mi si rattrappiscono i sentimenti. Compressi, si ribellano, scivolano fuori dalla bocca in sbuffi. Sollevo la faccia verso la finestra e vedo un azzurro che mi rovescia addosso la voglia di uscire, e di aver finito, ancora prima di cominciare, tutti i lavori di casa.
Eppure non mi sono mai sottratta al lavoro. Quando mi alzavo presto la mattina per prendere il tram fino al mio primo impiego, e altre volte in auto per un’ora, o in bici saltellando a perdifiato sui sampietrini; avevo sempre un’idea eroica di quello che andavo a compiere, tutti i giorni, in mezzo agli altri. Un po’ avventurosa, anche. Scoprire le mansioni, le facce, i caratteri… un’impresa quotidiana impegnativa, certo, ma da non prendere come assoluta. Un gioco, piuttosto: a volte bello, altre difficile o noioso, a seconda; qualcosa in cui tuffarmi tutta intera, per poi riemergere la sera nella mia casa, o fra i miei amici.
Non ho avuto modo di rapprenderci lo spirito, in quelle attività. Sono rimaste isolate e scintillanti, fresche d’esperienza, anche quando sono finite male: dopo essermi sottratta a gestioni brutali del potere, o in seguito a cessazioni improvvise, dovute al caso. Anche sul vuoto beffardo che seguiva la mancanza di un lavoro, o sulla ricerca di un impiego, sull’apnea della speranza… su tutto brillava la luce della scoperta, della prima volta, anche nel dolore.
Negli anni successivi, il mio tempo e il mio impegno li ho declinati su progetti miei. Libri, film, riviste, corsi… progetti conquistati parola per parola, o realizzati in uno slancio di entusiasmo. Ficcando la curiosità qua e là, nelle pieghe della vita solita trovavo queste esperienze diverse, e le abbracciavo senza indugio, finendo col naso fra nuove emozioni. Delusioni anche, a volte, o fatiche sterili. Ma sempre nel mio, nel nuovo, nell’irripetibile.
Il lavoro che si deve, non che si vuole fare, l’ho svolto a casa. Gestendo spese, lavatrici e piatti, andando e venendo da scuole, pediatri e supermercati.
E in questo ripetersi quotidiano dei gesti ho sentito per la prima volta lo sforzo inutile, le situazioni che si ripresentano. I panni di nuovo sporchi. Il frigo di nuovo vuoto. Il quaderno di nuovo pieno di esercizi sbagliati. Le piante di nuovo da annaffiare.
L’ingranaggio fondamentale del lavoro, il motore di qualsiasi settore: la ripetizione del gesto. Chiudere l’ultimo faldone, per poi infilarlo nella bocca vuota del contenitore e sapere che il giorno dopo dovrai riprenderlo, e tirare di nuovo fuori gli incartamenti, aggiornarli, rimetterli a posto.
E, nella gabbia di gesti dovuti, il tempo filtra dalle finestre, si manifesta nelle temperature. Il fuori pervade, invita, dà una nostalgia cattiva di un altrove dove si potrebbe essere, se si fosse veramente liberi.
A fine giornata la gabbia apre un poco la porticina, ti lascia uscire; e il fuori ti si squaglia davanti, in una sera profumata, un cielo tiepido o un gruppo di ragazzi che passa. Voglia di andare e basta, senza un dove.
Questa sensazione di dove. Forte. Anche nel percorso dal supermercato a casa. Il dove dove sto andando, e quello da dove vengo. E poi quel dove, tutto intorno, nel quale non passerò neppure, e nel quale non so come potrei sentirmi, se mi ci avventurassi. Il mio dove si restringe sempre agli stessi spazi, intorno agli stessi gesti. Eppure ce n’è ancora tanto, altrove…
Nella vita girovaga che ci ha portato a vivere lunghi periodi all’estero, solita cosa. Niente di quell’avventura spensierata nella quale ci immaginava chi non si era mai spostato.
Il solito mettere su casa e disfarla. Il solito cercare medici, scuole e posti dove fare le cose banali. Esprimendosi senza poter usare la lingua del luogo, trovandosi inceppati in meccanismi misteriosi perfino nella quotidianità più semplice. E il solito lavoro dentro e fuori casa, il solito lavoro fra spese e pediatri. Lavoro.
Ciò che non ti fa essere altrove. Ciò che ti fa ripetere gesti che portano a un risultato subito cancellato, subito superato. Gesti che il tempo annulla, perché va avanti, e la tua piccola costruzione quotidiana è superata. Ne occorre un’altra. Un’altra e un’altra.
Inizio a versare il liquido per il bucato e lo osservo cadere, delicato, nella vaschetta. Profuma, e sa quasi di gioia. Renderà tutto pulito e bello da indossare. Finché questo tutto non assorbirà di nuovo la vita di fuori, strade, sudore, smog e polvere. E dovrà essere di nuovo infilato qui dentro, a respirare pulizia.
Sporco che si riforma, disordine che si ricrea, cibo che manca. Restituiscono il ritmo della vita stessa; quel respiro di costruzione, decostruzione, soddisfazione e frustrazione creati dalle necessità vitali. Quelle basiche, da cui dipendono la sopravvivenza del corpo, la salute e il benessere psicofisico.
In queste incombenze non è permesso nemmeno sognarlo, un altrove; non ci si può distrarre, alienarsi da se stessi e dal proprio corpo, o da quello dei propri cari. Avanti e indietro, su e giù, le necessità sono quelle, sono da soddisfare e sono primarie.
Chiudo lo sportello e seleziono il lavaggio, osservo l’acqua penetrare e iniziare a mescolarsi con il sapone. Con lo sforzo di un mugghio stanco il cestello inizia a girare. E mi rialzo con fatica; sollevando, ogni millimetro di più, la consapevolezza di uno sforzo infinito. Non cesserà mai.
E quando avrò riempito e svuotato milioni di lavatrici, quando avrò cucinato e mangiato milioni di piatti. Quando avrò…. ne resterà memoria? Ne sarà valsa la pena? A cosa sarà servito?
A niente, come tutto il resto.
In un angolo della mia scrivania è poggiata una delle ultime rubriche di papà, di quando lavorava. Decine di nomi di clienti, contatti, luoghi e numeri di telefono. Sono segnati in ordine, con amore. Sono il prodotto di una vita di impegno.
Fra qualche giorno dovrò buttarla, come tutto il resto.
E se mio padre fosse stato un luminare della scienza, se avesse inventato un vaccino in grado di salvare milioni di persone? La sua vita sarebbe servita di più? Ne sarebbe rimasto qualcosa?
Nell’infinito futuro, quando non ci saranno più né la terra né la razza umana, a cosa saranno servite le nostre piccole sopravvivenze? I panni lavati? I vaccini scoperti?
Nella mia mente si apre un boato di niente.
Di quelli che mi capita di provare sempre più spesso, ultimamente, anche in momenti belli come quelli in cui parlo di libri a un evento che ho organizzato io stessa, in cui esco con gli amici a mangiare e chiacchierare di tutto, o accompagno mio figlio ad una gara sportiva e mi ritrovo a condividere le emozioni di altri bambini e di altri genitori, tutti insieme.
Così come può accadere a chiunque; magari a metà di una lezione, davanti alle facce giovani e piene di futuro degli studenti. O davanti allo schermata con l’andamento dei mercati. Durante la presentazione di una nuova campagna pubblicitaria… I pensieri, che se ne stavano a fare i belli e i saputelli nel momento presente, vengono risucchiati all’improvviso, sopra la stanza, sopra la città e il tempo. E vanno a spaventarsi, lassù, in un vuoto futuro; per poi precipitare di nuovo nella mente, con un brivido di spavento.
Mi fanno visita di frequente, queste folgorazioni del “nulla”: da quando ho finito di svuotare la casa dei miei genitori, e l’ho osservata, grande e inutile, che non conservava più niente.
Nemmeno una traccia dei gesti amorevoli compiuti per decine di anni, da mia madre, sugli oggetti. Del lavoro prodigato per decine di anni, da mio padre, sui suoi fiori.
L’ombra del nulla mi incombeva addosso, mentre osservavo le stanze vuote, i terrazzi pieni solo di foglie secche. E ha continuato a stringermi fuori ogni senso da tutto ciò che facevo e vedevo. Anche quando sono tornata a Roma.
Questo senso di inutilità, questo vuoto futuro, si è mangiato ogni momento di presente, finché non aveva più niente da mangiare e ha proseguito, cancellando ogni gesto fatto, ogni parola detta, ogni lavatrice riempita.
Si è fagocitato l’esistenza e ha lasciato, al suo posto, questo senso di fatica a vuoto, di superflua girandola di affanni. La vita stessa un lavoro, un andirivieni di incombenze senza un dove, altrove, in cui rifugiarsi.
Lascio la lavatrice, la finestra con il suo pezzo di azzurro, e ignoro il resto dei doveri. Perché stanno scorrendo una dentro l’altra, veloci, le immagini del bucato, del lavoro di casa, il lavoro in generale, e il lavoro della vita. Si alzano veloci, scorrono, e precipitano dentro un’altra immagine, che le contiene tutte.
L’ho vista tante volte, e l’ho sempre messa da parte. La sentivo troppo dolorosa, nella sua verità manifesta. E invece adesso la cerco, su internet, e presto la trovo; l’immagine stessa del mio disagio col mondo.
Il mandala.
Mi appare nel video di alcuni monaci buddisti che disegnano florilegi complicatissimi di curve, simmetrie e colori. Di loro si vedono soltanto le schiene piegate su un lavoro all’apparenza immobile. E, nei dettagli, si scorgono le loro mani che sfregano delicatamente alcune cannucce da cui cadono, in una quantità quasi invisibile, le polveri colorate. Chini, pazienti e silenziosi, i monaci lavorano ore e ore, nelle loro tuniche arancioni, muovendosi lenti e attenti sopra il loro disegno, svelandolo poco a poco. Non a milioni di persone. Non per essere festeggiati e acclamati e portati in spalla attraverso folle ammirate. Ma per mettersi in disparte, durante la cerimonia che segue la fine del completamento del disegno, lasciando che altri monaci, mormorando preghiere, lo cancellino.
In pochi minuti, via il lavoro paziente di giorni. Il disegno bellissimo non esiste più.
Inutile mantenerlo. Inutile spruzzarlo di sostanze fissanti che lo preservino, che ce lo tramandino. È stato creato con il destino di passarci sopra con le piume e scomporlo, strapparlo ai nostri occhi ammirati.
Immagine viva del senso del lavoro, tutto. Anche quello della vita. La paziente costruzione minuto per minuto, il sottile strato di fatti che si accumula sul pavimento del tempo. Di ogni vita. Spazzata via dall’evoluzione delle cose. Dalla nostra stessa natura. Dall’impermanenza che contiene ogni singolo istante e fa trasformare le nostre cellule, in ogni momento; ci cambia e, in un’innumerevole sequenza di movimenti impercettibili, ci porta verso il dopo.
Persino le piramidi si stanno sgretolando. E il concetto di Dio cambia attraverso le epoche. Di immortale c’è solo la trasformazione. L’infinito lavoro.
Eppure l’immagine dei monaci avvolti di arancione, che pregavano osservando le polveri trascinate dalle scopette degli altri monaci non erano tristi; non mi hanno destato tristezza.
Perché il mandala esiste. Prima, durante e dopo la sua esecuzione. Il mandala è nella nostra dimensione, non in quella dell’infinito futuro. E il mandala non è solo lavoro. È bello.
Per questo l’immagine dei monaci chini sul loro disegno continua a creare nella mia mente un’impressione gioiosa; anche quando lo hanno finito, anche quando il disegno è ormai cancellato. Perché stanno rappresentando la futilità del tutto, l’eterna trasformazione, sì, ma nella bellezza.
In un istante leggero, il mandala mi fa passeggiare lungo le volute dei suoi colori brillanti, le corolle, le cupole, i rami e le stelle del disegno. Mi restituisce milioni di momenti di lavoro, luminosi di armonia.
Mi sorride, in tutte le forme e i colori dei suoi segni, e mi dice che la bellezza è il mio potere personale. Facendo conti sul computer o sbattendo un tappeto sul terrazzo. Mettendo benzina in un serbatoio. Osservando una reazione chimica al microscopio. Scrivendo un libro. Stendendo un bucato.
Posso regalare al lavoro la mia gioia di farlo. Di farlo al mio meglio, di farlo per gli altri, di farlo in letizia.
La vita una polvere di minuti, che cadono giù dalle canne dei giorni, scivolando nei disegni colorati del mandala.
Direi una racconto , anzi uno sfogo quasi sublime. A parte le tue capacità di scrittrice, che son notevoli, è il tuo mettersi a nudo, senza cercare vie traverse. La semplicità del tuo “ragionamento” sconcerta in modo positivo ; a tratti mi sembra di essere un tizio seduto su di una comoda poltrona e tu su di un comodo lettino irto di un bel po’ di aghi. “Nella mia mente si apre un boato di niente” è bellissimo, colpisci nel segno, urli quel che quasi tutti proviamo . L’inutilità dell’affanno. Poi all’improvviso arriva il mandala , che è gran cosa , che spiega la tua realtà ed immerge la mia in una tinozza di verità che mi appartiene e solo ora me ne accorgo. Una delle etimologie del mandala viene da “raccogliere l’essenza” in sanscrito ( mi son solo documentato, non ho la scienza infusa), ecco tu mi hai funzionato da mandala, ne sono contento. Da l’inutilità del gesto ripetuto a la bellezza del gesto ripetuto. Siamo ruote che girano. Un abbraccio Fra e complimenti.