Mio padre mi svegliava prendendomi per un piede. D’estate, verso le sei e mezza del mattino, entrava nella penombra della nostra camera – illuminata solo dalla fessura che lasciavo la sera abbassando la persiana – si avvicinava al mio letto e dopo aver scostato un po’ le coperte, mi prendeva un piede e lo muoveva lentamente facendo perno sul tallone. La manovra durava qualche secondo finché non mi svegliavo del tutto. Aveva ideato questa soluzione per non disturbare mio fratello, di tre anni più giovane di me, che dormiva nel letto a fianco e che in effetti, avendo fra l’altro un sonno più pesante del mio, non si svegliava. Certo, a ripensarci, avrebbe potuto dirmi qualcosa in un orecchio o accarezzarmi una spalla, ma credo che quel gesto esprimesse efficacemente l’incertezza del nostro linguaggio privato e un’incomprensione di fondo che superava l’affinità di vedute e perfino qualche analogia caratteriale.
Non mi svegliava sempre in questo modo, mio padre, quella era la sveglia delle giornate in cui dovevo seguirlo al lavoro. Nei primi anni Ottanta del Novecento, chi come me frequentava le scuole medie in una valle del Trentino, d’estate si trovava spesso a lavorare. Bisogna essere giusti: paragonati alla fatica sostenuta da adolescenti dai miei genitori, quegli impegni non erano così pesanti, ma costituivano – oltre che un contributo all’integrazione di un reddito familiare che le presone cresciute nel secondo dopoguerra consideravano sempre precario – un sicuro mezzo pedagogico per confermare il primato delle vie della pratica rispetto a quelle incomprensibili dello studio. I miei genitori, come quelli dei miei coetanei, si interrogavano con difficoltà sul ruolo dei libri nell’educazione: al di là di un generico apprezzamento teorico restava perciò decisiva l’altra fonte, quella dell’evidenza empirica, se così si può definire l’esperienza di un mondo che viveva ai margini della scrittura, immerso in un’oralità che dominava le relazioni quotidiane e che nel lavoro regolava di fatto i contratti, l’apprendistato, i vari rapporti di lavoro oltre che, naturalmente, la reputazione.
Ancora avvolto nelle coperte io non mi alzavo subito, mi giravo dall’altra parte immaginando una giornata alternativa fatta di corse in bici, di letture, calcio e varie stronzate con gli amici. Confidavo in ulteriori dieci minuti di dormiveglia, sperando che in quell’intervallo una decisione improvvisa di mio padre, frutto di un’intuizione altrettanto inattesa sul mio futuro, lo inducesse a lasciarmi a casa. Ero ottimista perché cinque minuti dopo arrivava mia madre che, sempre senza fare troppo rumore, si sporgeva sulla soglia della camera e mi diceva: «È ora». Mia madre me lo diceva anche per conto suo, più o meno una volta in settimana, da giugno ad agosto inoltrato, e ancora più presto, alle cinque e quaranta del mattino, quando dovevamo alzarci per andare a irrorare i novemila metri quadri di vigneto che allora possedevamo.
Finalmente in piedi, facevo colazione con pane e latte, prendevo la borsa con i vestiti da lavoro e seguivo mio padre in garage.
A circa settecento metri di altitudine, verso le sette del mattino anche in pieno luglio non faceva mai così caldo. Nel furgone mi sedevo un po’ di traverso, mettendo la testa contro il finestrino nella speranza di dormire ancora un po’. Finivo invece il più delle volte a discutere con mio padre del giornale radio, di cui è sempre stato un appassionato cultore e da cui traeva spunto per i suoi commenti sulle questioni sociali ed economiche mondiali, le più lontane da noi, per le quali coltivava una predilezione mai spenta. Dubitava degli Americani – però con una segreta ammirazione per il self made man – e ammirava invece, più che gli Svizzeri che aveva conosciuto bene, i Tedeschi, convinto che il costume dell’efficienza affidabile si dovesse in fondo non al calvinismo, ma al protestantesimo. Difficilmente arrivavamo a un punto d’incontro: in lui, che pure era stato un ottimo studente negli anni della scuola dell’obbligo – uno dei pochi coetanei a concludere le postelementari – la diffidenza nei confronti dello studio era diventata insuperabile. Ad essere precisi, in un momento particolare della sua vita si era affacciata una possibilità alternativa: concluse le scuole dell’obbligo, una zia gli aveva promesso di sostenere i costi per permettergli di frequentare le scuole superiori, ma in quei giorni di incertezza in lui aveva prevalso il senso di responsabilità, dato che tempo prima suo padre si era infortunato gravemente e che lui era il primo dei figli maschi. Fatta la sua scelta, non era tornato su quel momento: se lo aveva fatto, lo aveva fatto in silenzio.
Dieci chilometri più avanti ci fermavamo lungo la strada in un edificio dall’intonaco scrostato che ospitava un negozio di alimentari dalle condizioni igieniche precarie, gestito da una donna che mi sembrava abbondantemente oltre la soglia della pensione: da lei compravamo i panini per la merenda delle nove. Ricordo ancora il modo in cui rovesciava la fetta di gorgonzola direttamente sul piatto della bilancia, pesandola senza metterci sotto la carta: si annotava il peso su un notes posto a lato e poi recuperava incredibilmente la fetta ancora integra con un magistrale colpo di paletta per finalizzare l’operazione – dopo un rapido ma non irrilevante passaggio nella sua mano sinistra – inserendola direttamente nel panino di mio padre, già tagliato.
In media, in qualunque direzione ci muovessimo, ossia qualunque fosse la nostra meta sul territorio provinciale, facevamo circa mezz’ora di strada. Il più delle volte lo seguivo sul cantiere dove posava in opera i pavimenti e i rivestimenti, ma in alcune occasioni, più rare, venivo lasciato da solo a concludere l’ultima fase di un lavoro. Per lo più si trattava di un bagno i cui rivestimenti in piastrelle dovevano essere sigillati: dovevo riempire le fughe di stucco, ripassarle con un bastone appuntito, poi ripulire il tutto per ottenere il risultato finale.
Ricordo in particolare la volta in cui ero stato lasciato solo a finire un bagno di una casa privata a Mezzolombardo, una ventina di chilometri a nord di Trento. Mio padre era salito a Faedo, a quindici chilometri di distanza, dove stava lavorando a un nuovo appartamento. A mezzogiorno la padrona di casa, una signora biondo cenere cordiale e un po’ svanita mi chiamò a tavola dove mi aspettavano il marito e il figlio che avrà avuto uno, forse due anni meno di me. Ricordo la trama della tovaglia, la porta finestra che dava sul poggiolo. Insomma, un’atmosfera di calda comprensione. Mentre la coppia mi guardava con apprezzamento, sottolineando con qualche cenno di capo il mio impegno nel lavoro, io mi sentivo in imbarazzo e invidiavo un po’ il figlio che mi osservava dal suo piatto di sotto in su con un’aria non particolarmente sveglia, perché nonostante mi si celebrasse come giovane artigiano – «si vede che sei figlio di tuo padre» – non era per quel tipo di attività che avrei voluto essere apprezzato, ma per i miei studi. Al contrario, mi trovavo ad approvare con un cenno di capo le lodi che la coppia rivolgeva inverosimilmente al figlio per la media della sua pagella, senza poter parlare della mia. Per essere precisi, a fine pranzo avevo anche tentato di accennare obliquamente alla mia, ma loro non mi avevano offerto una comprensione degna di nota: mi guardarono in silenzio, poi la madre mi sorrise, come a darmi un piccolo incoraggiamento («ma non si dicono le bugie»). Insomma, il riconoscimento era per lo più un’illusione, o il frutto di un equivoco. D’altra parte, se in generale si valutava con piacere un buon voto, un eccesso di studio e di interesse, ossia quel che si sarebbe potuto dire il mio caso, slegato dalla necessità di ottenere un risultato appariva allora poco più che una decorazione inutile, quando non proprio una pratica definitivamente incomprensibile.
2.
Lavorare molte ore in silenzio senza essere interrotto, come facevo quando mio padre mi portava in un cantiere, lascia ampi spazi all’immaginazione, tanto da suscitare la convinzione che un lavoro manuale possa essere il più adatto per chi vuole dedicarsi all’arte: è un errore frequente, che nasce da un’illusione. Nei primi giorni trascorsi in solitudine si è tanto contenti di non avere attorno qualcuno che rompa, da stendere mentalmente vari progetti a cui ci si vorrebbe dedicare; poi, però, quando si comincia a svilupparli, serve una convinzione straordinaria per rimanervi legati col necessario raccoglimento, mentre le giornate si succedono senza che in apparenza questo sforzo conduca in avanti. In effetti, ci si stanca anche di sognare, se si tratta solo di un sogno: non ci si stanca mai invece di lavorare plasticamente a un oggetto materiale. Così, con maggior ragionevolezza, direi che tutti i lavori non sfiancanti che lasciano un po’ di tempo libero possono andar bene, non solo i lavori manuali. Non è detto che tornare a casa da un cantiere sia più incoraggiante che tornarci dopo aver fatto cinque interviste ad altrettanti imprenditori, o dopo aver insegnato quattro ore a scuola. In termini generali, non è facile dire quale prospettiva tenga maggiormente in vita la speranza. Per me, da ragazzo, nella quotidianità di un contesto in cui la parola scritta entrava solo sotto forma di un ordine o di una fattura, era difficile pensare che a qualcuno là fuori sarebbe importato qualcosa di quel che avevo in testa: la speranza diventava più che altro una manifestazione fantastica, e in questa forma mi ci sentivo a casa.
Come tutte le occupazioni, anche il lavoro del piastrellista portava con sé vantaggi e svantaggi, ma c’era sicuramente di peggio. All’epoca della scuola media molti coetanei ad esempio si rompevano la schiena spaccando pietre nelle cave di porfido. Un mio amico, che d’estate lavorava in panificio – a volte già di notte, in alcune fasi della produzione, a seconda di ciò che gli chiedeva suo padre – alle sei di mattina girava per il paese distribuendo il pane fresco porta a porta come si usava allora, prima con un motorino, poi con l’ape car. Tutto sommato, anche quelle non erano poi grandi occasioni.
Rifinendo i rivestimenti del bagno, mi perdevo dunque in qualche progetto, al di là di quel che trasmetteva la radio che mio padre mi aveva lasciato perché mi sentissi meno solo. Così, mentre rifinivo le fughe delle piastrelle color nocciola, pensavo agli impegni della mia squadra di calcio, oppure a qualche libro, soprattutto ai romanzi di Verne letti in quell’epoca (su tutti, direi Viaggio al centro della terra, I figli del capitano Grant e Ventimila leghe sotto i mari), ma anche Capitani coraggiosi di Kipling; oppure La freccia nera di Stevenson, a cui anni dopo avrei sovrapposto nel ricordo Ivanhoe di Scott, trasferendo l’azione del secondo nell’epoca del primo. La lettura allora non costituiva solo l’occasione di varie scoperte, ma anche la conferma dell’esistenza di uno sguardo che aveva saputo vedere al di là del presente, la testimonianza di qualcuno che, in un altro spazio e in un altro tempo, ce l’aveva fatta a uscire da una realtà troppo ristretta e che ora offriva il conforto di una voce incoraggiante, amichevole.
Ivanhoe lo avevo preso in biblioteca: aveva la copertina rosso fragola, con una striscia orizzontale bianco e grigia che si interrompeva davanti all’armatura di un cavaliere. Walter Scott era uno dei pochi che portavano degnamente un nome che a me era sempre sembrato piuttosto grigio: sapevo che i miei lo avevano scelto perché ricordasse la mia origine svizzera, ma non mi avevano detto a chi si fossero ispirati (e a me pareva impossibile che si fossero convinti unicamente a partire dal nome).
Alla radio, tranne i programmi di lettura dei libri ad alta voce – costretto a casa da un’influenza, in una primavera avevo seguito Eugenie Grandet di Balzac – ascoltavo quasi esclusivamente musica: niente trasmissioni formative noiose e avvilenti come quelle del Dipartimento Scuola Educazione che allora si incrociavano in tv, niente dibattiti sull’attualità politica o programmi di opinione che piacevano a mio padre.
Insomma, tiravo avanti.
Questo racconto è opera di fantasia. Il riferimento a persone o cose è puramente casuale. (wn)