Presiden arsitek/ 47

“Lui, lui è Marjo Salvati!”, stava gridando il portiere indicando Luijgi, “Se ve lo dico io, che lo vedo tutte le mattine!... Lui, è lui il signor Salvati”; sulle prime, Kecilja avrebbe voluto alzarsi per dar manforte al portiere e confermare che quello era suo marito, ma si trattenne, perché fu attraversata dal ricordo, molto vago, che Marjo dovesse aver fatto qualcosa di male insieme a Giacomo, e non voleva tradirlo, almeno fino a che non si venisse chiaramente a sapere di che cosa suo marito fosse accusato.

di in: Presiden arsitek

Tutto andò come doveva andare: Luijgi ebbe tutto il comodo di fare il proprio concerto e Giacomo trovò gli abiti che occorrevano perché Luijgi potesse ingannare Marjo meglio che mai. Dopo che nella propria camera d’albergo Luijgi ebbe indossato gli abiti che Giacomo gli aveva portato, i due dunque si diressero alla casa di Marjo, che si trovava in corso Milano.

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ADRA: Eccolo finalmente, il nulla più perfetto e ottuso dell’esistenza: e morto ogni slancio: e perduta anche la grazia postuma del ridicolo. Mosche salgono tutt’intorno, piccoli demoni precari. Ricordare sempre che il demone è un angelo che ha fatto una scelta, prima di Satana la libertà non esisteva ed ogni angelo era condannato al bene. Parrebbe che anch’io in un certo punto della mia esistenza abbia fatto chissà più quale scelta che ha annerito per sempre anche le mie ali e impiastricciato anche i miei occhi di fanghiglia. Ma forse per chi sceglie di precipitare essendo uomo e non angelo la scelta non è una per sempre ma mille, e impercettibili, una lenta nera fila di formiche che non fanno che scendere lentamente lungo il muretto… e a te non resta che seguire il loro cammino a perpendicolo.

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T–––Š B––––K [Dai materiali secretati del Processo contro il medesimo T–––š B––––k dai familiari dei/-lle tester/vittime del videogioco NITA™, materiali comprovanti l’attuarsi di una potenziale coagulazione delle visioni indotte dal videogioco anche al di fuori della realtà dei/-lle tester/vittime, ovverosia del progressivo sfilacciarsi di quello che con non del tutto accettabile surrogato fantascientifico chiameremo qui brevemente “continuum” a favore – o sfavore, dipende poi dalle inclinazioni di ciascuno – di un multicacuminarsi del reale ossia di un dilatarsi parossistico e abnorme dell’ampiezza della funzione d’onda, ossia per farla breve ossia poetica capita che un/a tester/vittima risvegliandosi da sonni pindarici si ritrovi in mano, nel mondo cd reale il sonaglio d’oro che aveva sognato. La fabbrica di giocattoli produttrice del prototipo NITA™ cautelativamente ritirato dal mercato sta attualmente vagliando il significato dell’apparizione costante di mogli inesistenti in rapporto ai personaggi del videogioco, a partire naturalmente dalla coppia principale di Robin Hood e Lady Marion / Mathilda]: Sto cercando dei fogli di una carta e una misura particolare per mia moglie (io non ho una moglie). Da giovane mia moglie era stata una pittrice, poi dopo il primo matrimonio aveva smesso, ma ultimamente mi aveva accennato che le sarebbe piaciuto tornare a dipingere, e anche se è un colpo basso quello di anticipare i desideri (forse voglio divorziare, e tuttavia non ho una moglie) mi fermo in una specie di colorificio e cerco della carta e dei colori. Mia moglie dice che sono sufficienti i tre colori primari, più il bianco e il nero. I cinque colori accecano il cuore dell’uomo, le dico, e lei mi fa una linguaccia da vecchio film muto.

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Qualche tempo dopo Rosahs stava salendo un sentiero verso certe rovine quando sentì la punta di un dito sulla spalla, ed era Glaucho. Non si salutarono, come se fossero ancora in fila nel corteo funebre e i fiori stessero ancora tremando tra le mani delle donne, ma camminarono per un po’ affiancati e in silenzio, e Rosahs anzi non voleva parlare a nessun costo. Per la verità Rosahs non avrebbe saputo dire quando di preciso Glaucho aveva iniziato a parlare, fatto sta che ad un certo punto si rese conto che lo stava ascoltando e che stava annuendo macchinalmente. Glaucho le stava raccontando di quando era bambino, del condominio in cui viveva quand’era bambino e dei giochi in cortile con gli altri. Per farle capire meglio come erano i giochi che faceva si mise a ciondolare su e giù per il sentiero, facendo l’ubriaco, tirandosi in giù la pelle degli zigomi con gl’indici, la bocca piegata in una smorfia da maschera greca. Son finito con il culo dentro un cespuglio di spine, disse Glaucho. Rosahs rideva. Ma guarda, si diceva, nello stesso tempo come parlando all’amante morto, ecco, ma guarda un po’ questo pupazzetto d’avorio che ti faceva ridere quando eri morto, che m’aveva toccata in mezzo alle gambe mentre dormivo per finta (e ora, con Glaucho che ciondolava davanti a lei come un girotondo di carta gialla, trascinata da un’onda maggiore, Rosahs si rese conto di quanto quel gesto, e la sua stessa finta, avessero ormai creato un’intimità scalena e bruciante tra lei e il giovane), e che ora sale per il sentiero cantando, caracollando come un gatto cui abbiano sfondato il cranio con una biglia di ferro.

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(Ulteriori frammenti dal nastro della Truut, estratto primo) La madonnina d’oro stava giocherellando con qualcosa. Quando il papavero si avvicinò, vide che erano due minuscoli cagnolini. Non erano più grandi di due tarantole, ed erano quasi del tutto privi di pelo. I loro movimenti nondimeno erano talmente rapidi che all’inizio il papavero credette che sul serio quelle due creature rosa fossero delle specie di orribili ragni tropicali, e si riavvicinò alla bimba madonnina uscita dalla cenere solo dopo che i cagnolini iniziarono a guaire e ad accoccolarsi l’uno sull’altro, cercando il calore del respiro e il battito del cuore, mentre se fossero stati ragni avrebbero cercato buchi neri e corde di violoncello.

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(Continua l’allegato alla lettera del prof. Favori al prof. Zanna) Esiste anche la possibilità che un barsàla riesca a catturare un uomo; di solito le vittime sono nuotatori incauti, che si avvicinano alla creatura per distrazione o avventatezza: infatti, è molto facile individuare il luogo in cui un b. è attivo, dato che i continui e frenetici guizzi della lingua dellanimale creano un caratteristico e perpetuo ribollire della superficie marina; più raramente, si è trattato di persone cadute in acqua durante l’attacco di un b. ad unimbarcazione.

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ADRA: Le tre larghe finestre quadre dell’appartamento in cui vivo (quattro per la verità) mettono sul cielo occidentale e su un hangar il cui tetto è stato decorato col gigantesco disegno di uno scheletro cui la curvatura della lamiera e il pigro palpito dell’afa estiva imprimono a volte l’illusione di un respiro. Quando ero bambino avevo visitato Campo della Sfinge a Venezia, e avevo immaginato di lanciarmi da uno dei colonnati più alti e sottili della Torre Incompiuta, e senza precipitare di planare invece come una foglia morta sul prato intorno alla Sfinge, atterrare sul prato senza farmi nulla. Mi ero quasi lanciato sul serio. I bambini sono leggeri come foglie e l’aria di Venezia li tiene sospesi sopra i suoi minareti e le sue ciminiere azzurre. Correvo verso il colonnato esterno, il silenzio di mio padre vetrificantesi dietro di me… sarebbe stato il passo buono, quello verso il precipizio, l’unico passo sensato per qualunque essere umano è il passo verso il vuoto. Il passo libero, non fosse che tutto l’universo non è se non una caduta nel vuoto in tutte le direzioni, un infinito bambino in volo da una torre incompiuta.

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La casa dove abitavo da bambina era vicina a un vivaio. Era una casa molto grande dove abitavano anche altre famiglie, e c’ero io e altri bambini, e andavamo tutti i giorni a vedere le palme del vivaio, che erano proprio addosso al recinto di filo di ferro. Anche adesso, quando dico “vivaio” è come una parola magica, mi ricordo tutto. Le palme erano verdissime, e in mezzo non ci si vedeva quasi niente, e noi stavamo lì delle ore per vedere la tigre, perché eravamo sicuri che in mezzo a quelle palme si fosse nascosta una tigre, restavamo lì per un sacco di tempo a cercare di vedere qualcosa in mezzo al verde scuro e al marrone scuro delle piante, e ogni volta che sentivamo un rumore correvamo come dei matti lungo il recinto verso il punto dove avevamo sentito il rumore, e a volte ci sembrava di aver visto una piccola coda gialla, altre volte come degli occhi, ma forse erano solo delle vespe o degli uccelli. Ricordo che quand’ero piccola le vespe mi sembravano gigantesche. La cosa più strana però era che certe volte il recinto di ferro ci sbatteva addosso proprio come se gli fosse andato contro un animale molto pesante. Poi un giorno sono venuti, hanno portato via le palme e hanno arrotolato il recinto. Dalla finestra di casa mia aspettavo di vedere quando la tigre sarebbe uscita per mangiare gli uomini, ma quando andammo a vedere il prato senza palme pensammo che invece la tigre se n’era andata via con loro.

– Come ti chiami?

– Terhesahs.

– Terhesahs e poi?

– Terhesahs Fazzoni. Quando ero piccola mi prendevano sempre in giro, e mi chiamavano Terhesahs Cazzoni.

– Dove abiti, Terhesahs?

– Qua vicino, vai su per la strada dietro il fiume, e c’è una casa con fuori un albero di mimose.

– Ti senti meglio?

– Sì. Grazie.

– Io mi chiamo Mijkhele Rovere. Piacere.

– Piacere. Dove hai messo i guanti?

– I guanti? dici questi guanti qui? me li ero infilati in tasca. Ti piacciono?

– Sì. No.

– Come si chiama il padrone del bar?

– Giorgio. È mio fratello.

– Giorgio e poi?

– E poi è mio fratello.

– È vero, che tonto che sono.

– Sì.

– Che cosa c’è?

– Niente.

– Sei sicura?

– Sì. No.

– Che cos’hai?

– Niente.

– Allora perché fai così?

– Così?…

– Sì, così.

– Ma…

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Erano le nove di mattina. Quel giorno, del tutto ignaro della disavventura che stava per capitargli, Marjo Salvati si era svegliato molto scosso a causa di un incubo avuto quella notte. Nel sogno, si trovava in un paesino del centro Italia, in una casa dove da piccolo trascorreva le vacanze estive assieme ai genitori. Era una casa che faceva parte di un gruppo di villette a schiera che condividevano alcuni spazi, tra cui c’era anche una piscina. Marjo si trovava appunto in quella piscina, e si divertiva a immergersi sott’acqua, ma ad un certo punto aveva dovuto interrompere il gioco perché, da sotto il pelo dell’acqua, si era accorto che qualcuno era in piedi sul bordo della piscina, e lo stava fissando. Marjo era riemerso per vedere chi fosse lo sconosciuto, ma aveva continuato a vedere tutto in modo sfocato, come se tra lui e l’uomo ci fosse stata una vetrina grondante di pioggia. Finalmente, l’acqua era scesa dagli occhi di Marjo il quale, mandando un urlo tale da strapparlo all’incubo, aveva visto, prima di svegliarsi, che l’uomo sul bordo della piscina non era altri che lui stesso, il volto immobilizzato in un’espressione di profonda rabbia e di odio.

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ADRA: Gli scheletri respirano.

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T–––Š B––––K [Dai materiali secretati… etc.]: La ragazza al bancone, quando le chiedo dei fogli da disegno, mi fa vedere diversi tipi di carta da imballaggio, e ogni volta sostiene che la carta che vorrei io non esiste più. Io vorrei dei fogli di carta di una misura particolare, un po’ più grande di un A3, bianca, spessa, quasi lucida. Dopo un po’ arriva un secondo commesso con un intero album di fogli della misura giusta. Anche per i colori non ci sono problemi. Ricordo perfettamente il momento in cui mia moglie mi ha parlato dei colori primari e di come fossero diversi, in particolare appunto il rosso, dai colori che uno si aspetterebbe.

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(Ulteriori frammenti dal nastro della Truut, estratto secondo) La madonnina prese i due microcani sul palmo e chiudendo le due mani a formare un nido iniziò a soffiare dentro le mani il suo fiato gelido. Poi iniziò a bisbigliare ai cani chiusi nelle sue mani (una delle due mani era in effetti una protesi d’oro) una serie di parole, una preghiera o una filastrocca o tutt’e due.

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Sedettero. Le rovine erano lambite da un torrente magro e gelido. Glaucho si liberò delle scarpe e immerse i piedi nell’acqua con una smorfia deliziata di terrore. Con i piedi che affondavano sempre più nel fango ghiaccio e gorgogliante, le disse che a un’ora di macchina dal paese c’era un piccolo lago, così gli avevano raccontato, una pozza a dire il vero, formata da una cascata, e le chiese se l’indomani non vorrebbe andarci con lui, dicendole ti passo a prendere domani alle undici e mettiamo in piedi un picnic, però il nome del lago l’ho dimenticato. Né si mostrò contrariato quando Rosahs gli rispose che ne avrebbe parlato anche alla loro amica, quella della cena, perché venisse con loro.

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– È uno scherzo? Non capisco.

– Cosa…

– Guarda.

– Ah, non mi ero accorta, mi scusi tanto, non volevo, io…

– Non è niente.

– Io…

– Non è niente, ti dico, però adesso rendimelo.

– Non sapevo che il guanto era tuo.

– Come, non sapevi che il guanto era mio. Se l’ho sempre avuto in tasca, di chi dovrebbe essere, secondo te? perché te lo sei messo in bocca?

– Hai già pagato il caffè, signore?

– Per favore, stai calma, non volevo farti piangere di nuovo, scusami, è solo che il guanto è mio e ci sono rimasto un po’ così, a vedere che lo prendevi e te lo cacciavi in bocca.

– Sì.

– È sporco.

– Sì.

– Non piangere, se vuoi che ti regalo il guanto basta che me lo chiedi, però te l’ho detto, costano proprio pochi soldi, vai in farmacia e te ne danno un paio pulito.

– Io voglio questi. Voglio questi.

– Non devi agitarti, sono solo guanti di cotone. Va bene. Vorrà dire che questi te li lascio, e io ne comprerò un altro paio, va bene? però mi prometti che se te li do tu poi non piangi più?

– Sì.

Una volta uno dei ragazzi che quando vedono il mio dipinto si mettono a ridere è venuto a portarmi una rosa. Quando me l’ha data, rideva, e anche tutti gli altri amici suoi, ridevano come matti e si piegavano fin sotto il bancone, e non potevo vederli, ma potevo sentirli ridere intanto che sistemavo la rosa in un vaso d’acqua. Il primo, quello che mi aveva dato il fiore e che doveva restare in piedi, cercava di non ridere, ed era tutto rosso e sembrava che avesse delle mosche che gli volevano scappare dalla bocca. Quando ho messo il vaso con la rosa sulla vetrina dei panini, hanno smesso di ridere.

– Ecco. Non dovresti infilarti i guanti in bocca in quel modo, lo vedi come sono sporchi.

– Lasciami in pace! Paga il caffè! Vai via!

– Ti ho solo detto di non metterti i guanti in bocca, cosa c’è da urlare in quel modo?

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ADRA: Era questo ciò che torturava mio padre quando si ingabbiava la testa tra le mani quasi a volersela staccare dal collo per farne un’orripilante grolla cui dissetare i suoi figli? E che altro poteva essere? Per che altro pietrificarsi per ore intere, di solito la sera, con la testa ingabbiata nelle mani, seduto fuori dal bungalow o dalla roulotte, o accanto all’amaca che appendevamo sempre per prima, come una bandiera a segnare la conquista di un pianeta alieno e che poi nessuno usava mai? Il suo scheletro respirava dentro la sua carne, implorando la libertà. L’attrazione gravitazionale verso l’esterno, una forza centrifuga o osmotica, un qualche primordiale errore nel gradiente di pressione psichica hanno lacerato mio nonno e mio padre dopo di lui: a questo il cuore, a quello il cervello; e a me che resta da farmi spappolare? R cazzo, ciài spappolato r cazzo! Mi sillaba un cinepanettiero coatto a tre centimetri dalla mia faccia da schiaffi, con tanto di mano alla bocca a mo’ di consigliere frodolento: che però strilla invece di bisbigliare, ad ilare visibilio degli affezionatissimi spettatori.

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T–––Š B––––K [Dai materiali secretati… etc.]: Quando dorme mia moglie ha delle specie di scatti muscolari con le gambe che fanno tremare il letto come si ci fossero brevi scosse di terremoto. Il tubetto di magenta e quello di giallo sono pronti. Noto appena quello di giallo, che è più piccolo e forse tira al verde, in ossequio alla legge della differenza del colore rispetto alle aspettative enunciata da mia moglie. Quello magenta è grosso come un salsicciotto, ed è un po’ schiacciato. “Il blu ciano è più raro,” mi dice il commesso. Ne ha ancora un vecchio tubetto. Com’è strano anche il blu. I colori primari sono come colori visti dopo che per lungo tempo si è fissato il sole, colori visti con le ampolle degli occhi piene di sangue, scorticate. Uno dei gatti che avevo era cieco da un occhio, e ne abbiamo dovuto scorticare la superficie perché tornasse a vedere, ma forse i gatti non vedono il colore, anche se è possibile che dopo la scorticatura dell’iride quel gatto in particolare debba essersi pur fatto una certa idea delle radiazioni del rosso.

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Quando Marjo, dopo essersi svegliato, entrò sotto la doccia, era ancora attraversato da brividi di paura per quello stranissimo sogno, e sotto l’acqua grondante quasi temeva, come un bambino, di veder apparire nuovamente, dietro il vetro smerigliato della doccia, la figura del proprio doppio. Per farsi coraggio e per cercare di svegliarsi del tutto, Marjo aprì un getto di acqua fredda, e si mise a cantare una buffa canzone che cantava da ragazzo.

Mi sono innamorato di Marina,

una ragazza mora ma carina…

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I due porcellini d’India emettevano dei fischi che somigliavano in modo impressionante alle parole “mamma” e “papà”. Ovvio che era assai improbabile che le due bestiole capissero il significato di quelle due parole, ma era certo che le usavano per richiamo. Iniziava come un fischio poi, giusto prima che i porcellini d’India richiudessero i denti da vampiro lattante, usciva come un sospiro che suonava sempre come “mamma” o “papà”, identico alle voci che ci chiamano quando stiamo per addormentarci. I cunicoli dei due porcellini d’India arrivavano fin sotto la casa e appunto la notte, appunto prima di dormire, si sentivano sempre quegli strani versi, e quei fischi, “mamma” e “papà”, dei due animali che si cercavano attraverso il labirinto di terra. La vecchia pensione, vicino alla casa di Rosahs, avevano dovuto abbandonarla, o almeno così sembrava. Alcune porzioni dei cunicoli erano ricoperte da filamenti di seta, cune di minuscole specie di pipistrelli invertebrati. Questo Rosahs lo disse ad alta voce, “cune di minuscole specie di pipistrelli invertebrati”.

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(Ulteriori frammenti dal nastro della Truut, estratto terzo) In poco tempo i due cani iniziarono a crescere, tanto che la madonnina dovette appoggiarli per terra.

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ADRA: A questo, cioè a mio padre, una lenta morte: tale che a volte quando lo vedo passeggiare nudo nell’afa dell’alba direi quasi di indovinare dietro il suo corpo sempre più trasparente i contorni della finestra e del balcone, e non è lontano il giorno in cui nell’abbracciarlo le mie mani si richiuderanno vuote contro il mio petto. È già ora uno spettro che passeggia sulle mura di casa, solo senza nessuno da torturare. Con buona pace di un’infinita tradizione contraria, gli spettri vagolano nudi. Già che un fantasma conservi le proprie linee corporali è cosa bastantemente idiota senza che occorra in sovrappiù figurarsi fantasmi accessori, larve di orologi e coltellini, ectoplasmi di gonne e cravatte, spettri di mutande e mutandoni appesi ad asciugare. Me li figuro io i fantasmi come brividi ilari e scodinzolanti che ti colgono all’improvviso aggrappati come minuti folletti ai baffoni di Barba Domani, talmente che non si danno loro apparizioni se non forse fuggevolissime. Tali me li figuro perché tali li ho incontrati, benché non si trattasse né di mio padre né di mio nonno. E forse ne vidi anche un secondo, in sogno, che mi rivelava una coppia di cani da corsa (puntualmente risultati vincitori: non però nel giorno in cui io, in base a una ricostruzione balordissima, avevo fatto la mia puntata: e nel rivelarmeli lo spettro era già deluso di quell’errore che al suo antivedere era già presente, e già si voltava contrariato verso il lago dove doveva fare, io credo, ritorno, mescolandosi agli altri spettri quasi tutti radunati in un campeggio discosto dall’abitato, in una delle baie più appartate e orrorcartolinescamente tetre e miasmiche–––––––– ma in fondo il denaro che avessi vinto con quella scommessa avrebbe messo una nota stonata: non è forse il vero premio sapere che un’anima dopo morta possa effettivamente parlarci, non importa se per darci dei numeri o afferrarsi alle nostre caviglie o bisbigliarci un cavernoso e roco “Coglione”? Non è forse il guscio che conteneva la perla che abbiamo gettato, il vero veicolo del miracolo? Non è forse il miracolo tutto fuorché piena e autentica soddisfazione, perfetto equilibrio? Poiché il perfetto equilibrio e la perfetta giustizia si compiono solo nella morte. Precipitare dalla finestra quadrata per undici piani e ritrovarsi di colpo aggrappato ai capelli di Barba Domani, morbidissimi fili biondi che per le minuscole zampine dello spettro sono spessi come funicelle, e la leggerezza dell’animula è tale che la larva dondola aggrappata ai fili d’oro, mentre Domani fugge immobile come uno scheletro nell’afa di Schwarzschwarz).

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Nel frattempo, durante il tragitto fino alla casa di Marjo, Luijgi aveva convinto Giacomo che potrebbe essere imprudente fare a un uomo appena sveglio uno scherzo come quello che avevano ideato, e si era finalmente dichiarato contrario alla sua esecuzione. Dopo una breve discussione, i due avevano dunque deciso di presentarsi insieme a casa di Marjo, e avevano anche stabilito che il primo a farsi avanti dovesse essere Giacomo, che avrebbe preparato con un breve discorso l’apparizione di Luijgi.

Quando suonarono al suo campanello, Marjo stava ancora cantando.

…ma lei non vuol saperne del mio amore

cosa farò per conquistarle il cuor?

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T–––Š B––––K [Dai materiali secretati… etc.]: Il tubetto di blu è più leggero e di una marca più vecchia degli altri due. Quasi nessuno ormai lo produce più. Forse il blu ciano è di meno perché il commesso (o i commessi che c’erano prima di lui, quando lui non era ancora nato: tanto sembra vecchio il tubetto) l’ha usato per fare dimostrazioni o prove di colore con altri clienti, penso mentre il commesso prepara il conto. Soppeso tra loro i due tubetti, magenta e ciano. Ciano è più leggero. Mi viene in mente che da bambino, o in un qualche remoto periodo della mia vita in cui ho sofferto di una grave crisi di nervi, ho avuto un pupazzetto di legno di nome Ciano. Ciano è più leggero. Cerco sul tubetto di ciano la scritta ciano, sia pure poco il colore, ma almeno sia quello giusto. C’è una sigla al posto del nome, con i colori alcune ditte fanno così, poi mia moglie accanto a me ha uno scatto più forte degli altri e io mi sveglio. Il letto traballa ancora. Non ho idea di come sono capitato qui. Cerco di risvegliarmi solo per scoprire che non si tratta di un sogno. Chi è la donna che dorme accanto a me? Ma già il suo tepore infetta ogni angolo della mia memoria. Sono, irreparabilmente, qui.

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Il momento peggiore era prima di addormentarsi. Io e mia sorella dormivamo dentro un lettone matrimoniale. Quando era ora di andare a dormire, mollavamo le bambole e gli altri giocattoli, ci infilavamo sotto le coperte, e la mamma spegneva la luce. All’inizio era tutto buio, ma dopo un po’ gli occhi iniziavano a abituarsi, e iniziavo a vedere, ma era sempre buio, vedevo male, e a volte vedevo cose che mi facevano paura. Avevamo un cesto pieno di maschere per bambini, e anche se le potevo riconoscere, al buio sembravano diverse, più spaventose, e avevano dei corpi e degli occhi che non c’erano quando la luce era accesa. Erano immobili come delle statue, ma mi facevano paura, e se a volte mia sorella piangendo mi diceva di andare a accendere la luce, io non ce la facevo quasi mai. Giravamo la schiena e ci raggomitolavamo in mezzo al letto e ci stringevamo il più possibile, e ci dicevamo sottovoce qualche cosa nelle orecchie, con le bocche tanto vicine che a volte per sbaglio ci baciavamo e ci mettevamo a ridere e gridavamo: “Che schifo!”

– Paga il caffè!

– Non in questo modo, Terhesahs.

– Paga!

– Se non smetti di strillare e di piangere così, non ti do neanche un soldo.

– Sì. Va bene. Paga.

– Aspetta. Prima una cosa. Dov’è andato l’altro?

– Chi, l’altro?

– Quello di prima, quello antipatico.

– Quello antipatico?

– Quello che ti ha detto cose antipatiche e voleva sapere quando finisci di lavorare, e la grappa. Gliel’hai detto, quando finisci di lavorare?

– Sì. No.

– Gliel’hai detto, o no?

– Non lo so.

– E allora magari lui sta per tornare qui?

– No.

– Perché, no?

– È andato. Via.

– Bene. Terhesahs, e a me lo puoi dire quando smetti di lavorare?

– No. Non te lo dico.

– Perché, no? voglio che me lo dici. A me lo puoi dire.

– No.

– A lui l’hai detto.

– Tra un’ora, smetto tra un’ora. Però prima di andare via devo pulire, anche di là. Vai via.

– Perché, anche di là? cosa c’è di là?

– Le cucine.

– Posso vedere le cucine?

– I cuochi sono andati via.

– Posso vederle?

– No.

***

Rosahs guardava attraverso la staccionata i vecchi strumenti da giardinaggio, e la siepe di rampicanti fioriti tra i cui petali si nascondevano i camaleonti. Alcuni fiori, in realtà, erano insetti: il fiore era una maschera; era questo ad attirare i camaleonti e a rendere la siepe tanto interessante; gli insetti fiore restavano immobili quando i camaleonti passavano, ma quando i camaleonti erano andati via si potevano vedere i petali richiudersi su sé stessi o cercare le foglie, e di sicuro non era il vento a muoverli così, né il sole. A volte cadevano a terra proprio come fiori morti, ma quelli che cadevano il più delle volte venivano divorati. All’amante di Rosahs piaceva andare a curiosare nella vecchia pensione; in realtà da quando era tornato non parlava d’altro, e diceva che la pensione abbandonata era meglio di un museo, tante erano le cose da vedere. Il guardiano della pensione era un uomo volgarissimo. A volte usciva sul terrazzino e senza curarsi se qualcuno lo stesse guardando o no lasciava andare una pisciata sopra la siepe dei camaleonti. La notte passava le ore suonando una gigantesca fisarmonica a manovella, le cui ance sterminate emettevano suoni bassissimi, da corno svizzero.

***

Aprì Kecilja, la moglie di Marjo. Giacomo, come fu entrato ed ebbe salutato Kecilja, chiese dove fosse Marjo, e Kecilja, indicando la fine del corridoio da cui si udiva venire lo scroscio dell’acqua e la voce dell’uomo, rispose che il marito era sotto la doccia, e che in breve sarebbe uscito. Prima che la donna andasse ad avvisare il marito, Giacomo decise di far entrare Luijgi, dicendole che era venuto con un amico che voleva presentare a Marjo.

Quando Luijgi entrò, Kecilja mandò un gridolino di stupore e, con un’espressione che tradiva la più forte perplessità, chiamò Luijgi con il nome del marito, dicendo “Marjo, ma sei tu? Ma da dove vieni?”, nello stesso tempo voltandosi verso il corridoio, da dove continuava ad arrivare il rumore dell’acqua e il suono della voce dell’uomo.

Un giorno la incontrai sola sola,

Il cuore mi batteva a mille all’ora

***

T–––Š B––––K [Dai materiali secretati… etc.]: Uno dei nostri gatti ha deposto delle minuscole uova bianche. Quando si schiudono, ne escono tre animali bianchi, che sembrano morti. Sono molto piccoli e piatti, non sembrano per niente dei gatti. Lì per lì, mi viene in mente che forse il gatto ha deposto in troppo anticipo le uova, per questo ne sono usciti delle specie di fogli embrionali non ancora arrotolati. Controllo se negli embrioni ci sia almeno un accenno di contrazione cardiaca. Il ritmo cardiaco è il segno certo della vita, penso, e constatato che nessuno dei fogli embrionali felini si contrae, provo a riscaldarli negli incavi delle mie mani. Abbastanza rapidamente, come in uno scontato trucco di magia, i tre fogli si gonfiano e animano in forma di tre gattini, e il momento in cui raggiungono la loro forma conclusa ha l’apparenza di un’esplosione. A volte è come se la forma delle cose, pur restando invariata, esplodesse in sé stessa. Un’esplosione nei propri limiti, qualcosa di simile all’accensione di una lampada al neon. Quando apro gli occhi, sono seduto davanti a un tavolo di legno, la fronte contro il tavolo. Quando ero bambino mi capitava molto spesso di addormentarmi in questa posizione. Qualcosa di molliccio si muove ai miei piedi. Miao.

***

– Sei da sola qui dentro?

– Sì.

– Sei da sola fino alla fine?

– Sì.

– E per chiudere?

– Ho io le chiavi.

– È vero, me l’avevi già detto.

– Sì.

– E secondo te verrà altra gente prima che chiudi?

– Sì. No.

– Magari puoi chiudere adesso.

– No. Mio fratello non vuole. Il bar è suo.

– Meglio se chiudi adesso. Non preoccuparti di tuo fratello.

– Non voglio chiudere adesso.

– È meglio chiudere subito. È meglio così, Terhesahs. Non preoccuparti di fratello.

– Come fai a sapere come mi chiamo?

– Me l’hai detto tu.

– Non è vero.

– Prima.

– Non è vero!

– Non ricominciare a piangere.

– Va bene.

– Non serve a niente.

– Sì.

– Bene. Prendi le chiavi e chiudi. Io resto dentro con te.

– Sì.

– Chiudi anche di dietro. Ti aspetto qui.

– Sì, ma non andare via.

– Ho detto che ti aspetto qui.

– I cuochi sono andati tutti via.

– Lo so. Vai a chiudere di dietro.

– Sì.

***

Sulle prime, anche Kecilja pensò di essere vittima di uno scherzo architettato ai suoi danni da Giacomo e da suo marito, e già si era girata con aria di muto rimprovero a Luijgi, rossa in volto; ma Giacomo e Luijgi si affrettarono a spiegare l’equivoco, mostrandole, come già era accaduto a Pisa con Giacomo, i documenti d’identità di Luijgi, e spiegandole che erano venuti lì apposta per far incontrare Marjo e il suo doppio, talmente meravigliosa era sembrata a Giacomo quella somiglianza. Giacomo le raccontò anche dello scherzo che avevano architettato, e a cui avevano rinunciato all’ultimo momento.

Ma Kecilja, proprio come Giacomo la prima volta che aveva visto Luijgi, era rimasta talmente turbata nei confronti del marito per via di quella burla che lei stessa s’era solamente immaginata di aver subito, che anche lei provò il desiderio di vendicarsi di tale burla mai avvenuta con una burla vera e propria, e si dichiarò al contrario dispostissima a portare a termine lo scherzo così com’era stato ideato. I tre quindi stabilirono di sedersi assieme al tavolo, muti, come se fossero sul punto di discutere una questione molto grave, e di mostrarsi in questo modo a Marjo; se avessero visto che questi rimaneva troppo turbato, subito si sarebbero rilasciati e avrebbero iniziato a ridere e a spiegare tutto. Luijgi volle persino preparare in bella vista i propri documenti, sistemandoli nel centro del tavolo.

Marina, Marina, Marina!

Ti voglio al più presto sposar!

O mia bella mora, no, non mi lasciare!

Non mi devi rovinare, oh no! no! no! no! no!

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La madre di Rosahs naturalmente non poteva soffrire quell’uomo. Per suonare la fisarmonica gigante non occorreva alcun talento musicale: bastavano braccia robuste per girare la manovella, il cui meccanismo doveva azionare, oltre ai tasti, anche il mantice. Quando ancora la fisarmonica era nella chiesa, servivano almeno quattro persone per farla andare. Dal ritmo della musica, si poteva capire se il guardiano era ubriaco o no. Presto la pensione sarebbe crollata su se stessa, per colpa dei porcellini d’India e dei loro cunicoli e, secondo la madre di Rosahs, anche per colpa del piscio dell’uomo e della sua fisarmonica che faceva tremare i vetri. Forse sarebbe stato meglio uccidere i porcellini, ma chi avrebbe cuore di ammazzare un animale che sa dire “mamma” e “papà”? Poi Rosahs scoprì qual era il trucco: l’amante si muoveva solo dopo aver ricevuto una spinta da qualcuno, foss’anche solo dal vento. Si trattava di una tecnica particolare di intreccio di rami di rosa (ma l’omonimia con la pianta, anziché consolarla, le parve insultante): i rami erano intrecciati in spirali reciproche, e la marionetta o simulacro sembravano vivi per davvero, purché uno non facesse caso al piccolo colpetto iniziale che dovevano ricevere per poter eseguire i loro movimenti. Il magazzino della pensione era pieno di quelle bambole. Ecco perché l’amante di Rosahs non faceva che gironzolare lì intorno: per ricevere il colpetto e venire di nuovo azionato; altro che museo. Rosahs ricordava che da bambina aveva visto un riccio costruito con lo stesso sistema: era sufficiente prenderlo in braccio perché iniziasse ad arrampicartisi sulle spalle. Aveva visto anche il simulacro di un picchio, ma non l’aveva potuto usare perché se azionato erroneamente poteva mutilare o persino uccidere.

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(Ulteriori frammenti dal nastro della Truut, estratto quarto) Il tempo di pulirli un pochino dalla cenere, che i due cani avevano preso l’aspetto come di due brave vecchiette, una con la testa molto piccola, l’altra con la testa molto grande. “Tu sei bella perché hai la testa piccolina e tu invece sei bella perché hai una testa molto grande. Adesso andate con il mio amico e se potete aiutatelo.”

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Fu dunque questa la scena che Marjo si trovò davanti dopo essere uscito dalla doccia e aver percorso il corridoio che dal bagno portava in salotto: il suo amico Giacomo, che non vedeva da molto tempo, era seduto al tavolo con Kecilja, sua moglie, assieme a un’altra persona che Marjo riuscì a distinguere solo per un attimo, perché immediatamente sui suoi occhi, per il terrore, scese un sottile velo di lacrime. Da parte sua Luijgi trasecolava e, davanti a Marjo che davvero era perfettamente identico a lui, dovette celare lo stupore per non rovinare lo scherzo, e si chiuse la bocca con una mano. A parte questo i tre recitarono alla perfezione la loro parte, e anche Luijgi, dopo la prima grandissima sorpresa, riuscì a dominare la meraviglia e a rimanere immobile e serio, come era stato deciso. Ma non appena videro che Marjo, al di là di ogni più funesto timore, si era portato una mano al petto e lacrimando aveva iniziato a indietreggiare balbettando grida di aiuto, Giacomo, Luijgi e Kecilja, per calmarlo, iniziarono a ridere e a cercare di farsi vicini a Marjo, dicendo, “Scusaci tanto, Marjo! Non pensavamo!… Si tratta solo di uno scherzo, questo, vedi? è semplicemente il tuo sosia… Si chiama Luijgi… Ora calmati, su, vieni qui…”, e già, toltili dal tavolo, gli porgevano i documenti di Luijgi, perché lui stesso vedesse con i propri occhi che non c’era nulla di strano.

Ma Marjo, al colmo del terrore nel vedere davanti ai propri occhi e nella realtà ciò che aveva creduto un semplice incubo, continuò a indietreggiare, gridando, “No! No! No! No! No!”

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Da bambina ero la prima della classe. La prima. Sempre. La mia compagna di banco invece era una deficiente, non parlava mai con nessuno. Nemmeno io, se è per questo. Eravamo sempre insieme, io e lei, vicine, senza parlarci e quasi senza nemmeno guardarci, come due cavalli, cioè io ero il cavallo, lei l’asino. Uguale. Ho ancora una valigia giocattolo in cui tengo i miei tesori. A questi oggetti sono talmente legata che impedisco agli altri di toccarli. Uno è una coccinella di peluche. Gli altri non li ha mai visti nessuno. Da bambina una volta ci avevo messo un gattino appena nato per portarlo sempre con me. La sua mamma lo cercava dappertutto.

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Attraverso il velo di lacrime, come attraverso una lastra di ghiaccio, il malcapitato vide che il demone suo doppio si era alzato a sua volta, e avanzava ridendo verso di lui, accompagnato da Kecilja e da Giacomo: ma, chissà, erano veramente Kecilja e Giacomo quelli che aveva davanti, o non piuttosto anche loro due fantasmi? Senza più sapere quel che facesse o quel che dicesse, scosso dal tremito, accecato dalle lacrime e reso folle dalla paura, Marjo indietreggiò ancora, si voltò per non vedere più il proprio spettro, si tappò le mani con le orecchie per non sentire più quelle risate, e fuggendo inciampò nel davanzale della finestra aperta. Con una capriola cadde all’esterno e prese un volo di quattro piani, sfracellandosi il cranio sull’asfalto, morendo prima ancora che il sorriso morisse dalle labbra di Kecilja.

La donna si precipitò al davanzale, sporgendosi e gridando, poi si volse e, vedendo Luijgi, sorrise di nuovo, come se fosse una nuova burla, poi guardò dalla finestra, guardò nuovamente Luijgi, sorrise un’ultima volta e infine cadde a terra perdendo conoscenza.

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ADRA: Minuscole larve luminose colavano dal mare invisibile tra le dita che stringevano la testa di mio padre leccandogli le palpebre per liberarlo dalla maledizione o viceversa per succhiare anche l’ultima vita dalle sue pupille, prosciugandone il chiarore fino a lasciarle spente e opache, grigie, quali sono oggi. Che l’architetto, come in un romantico baraccone degli orrori, abbia derubato mio padre dei suoi occhi? Ecco perché traballano come biglie azteche: troppo piccoli e rinsecchiti, gli occhi di mio padre, per il cranio dell’architetto. Dalla strada il borbottio meccanico di un’autoradio, come un tubare di tortore. Penserebbe, un antico che trascinassi scorticandolo fino al presente, che una qualche vita debba animare le automobili, un qualche demone? Delle persone stanno facendo una seduta spiritica. Sono due uomini e due donne. Litigano, forse, per un qualche contrattempo di ordine soprannaturale. Un ciarlatano vuole vendere il proprio elisir. C’era una volta c’era una colta c’era una volta c’era una volta

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T–––Š B––––K [Dai materiali secretati… etc.]: Anche la sedia è di legno. Mia moglie e mio figlio stanno parlando. Mia moglie sta spiegando a nostro figlio il modo in cui la mia vista sta peggiorando. Io non ho un figlio. Vede le cose come un negativo fotografico, dice mia moglie a nostro figlio, e quando nostro figlio chiede a mia moglie che cos’è un negativo fotografico, lei risponde Le luci e le ombre sono invertite. Il cielo è nero e la terra è bianca. Non è veramente così, dico io a questo punto, almeno non per i negativi fotografici. Cos’è un negativo fotografico, mi domanda di nuovo mio figlio. Non sa cos’è, non ne ha mai visto uno, né mai lo vedrà. Il nostro presente è una perpetua fantascienza, l’altro ieri è lontano e leggendario come un mondo di fiaba. Gli spiego quel poco che so dei rullini fotografici, poi il pensiero che nel mio passato ci sia stato un tipo di fotografia cui erano collegate intere classi di oggetti che mio figlio non consocerà mai, e che oggi la fotografia sia un fatto di bit, e che ambedue le cose mi appaiano nel loro nocciolo perfettamente incomprensibili mi sembra il frutto di un disegno estremamente malevolo, e a quel punto mi sveglio. Sono cieco. Sento mia moglie piangere nell’altra stanza. Io non ho una moglie. I “gatti” sono ancora lì.

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(Ulteriori frammenti dal nastro della Truut, estratto quinto) La madonnina della cenere spiegò al papavero che i due cani gli sarebbero stati di grande aiuto, ma che doveva essere molto buono con loro non fargli mai mancare per nessun motivo un pezzetto di carne cruda, o lo avrebbero sbranato.

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(Continua l’allegato alla lettera del prof. Favori al prof. Zanna) Un uomo o una donna catturati da un b. non muoiono, ma diventano essi stessi b.; la trasformazione, a quanto è dato sapere, non è dolorosa: tutti i racconti dei testimoni di questa metamorfosi concordano nell’affermare che il volto della vittima, mentre questa viene trascinata sott’acqua, non è deformato da alcun affetto, né di rabbia, né di dolore, né di terrore, né di estasi: semplicemente, non appena una persona subisce la presa del b., lo sguardo ne prende una fosforescenza opaca, quale si può vedere negli occhi di certe bambole.

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Eravamo andati nella campagna intorno al paese, il gattino con me dentro la valigetta di latta, poi mi avevano chiamato per la merenda e io avevo lasciato nel campo la valigetta di plastica rosa e azzurra con dentro il gattino e la valigetta era chiusa da una serratura di latta di cui solo io ho la chiave. Ancora oggi se mi metto in bocca della torta con le fragole mi sembra di sentire gli ululati lontanissimi del gattino che venivano succhiati via dal sole, e l’aria sopra il campo che tremola come quando vai sott’acqua. Guardavo il colore del sole quando si posava la gelatina, cullata dai lamenti sempre più dolci e lontani del gattino.

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Rosahs decise di prendere da parte il simulacro e spiegargli come stavano le cose. Il simulacro smascherato le cadde ai piedi, azzannandole una caviglia. O forse era Rosahs stessa ad aver messo di proposito il piede tra le spine: con quelle trappole non si poteva mai dire con precisione. Il sistema di spine della bocca del simulacro, simile a quello delle trappole per aragoste, la stava trascinando inesorabilmente verso la siepe. Il guardiano uscì. Rosahs non aveva mai sentito la sua voce prima. Per parlare usava un vecchio telefono nero. Non pisciarmi in testa, disse Rosahs. Drago, disse il guardiano. Non pisciarmi in testa, disse Rosahs di nuovo. Tu sai chi sono, disse il guardiano. Lo so, disse Rosahs. Allora dillo, disse il guardiano. Io vi ucciderò tutti. Sono capace di strapparti le braccia. Tu non hai idea. Tu sei, disse Rosahs, e poi disse chi era. Poi rise forte e poi si svegliò tremante e in lacrime, le braccia come se si fossero di colpo trasformate in neve, sputando un denso fiotto di saliva bianca.

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Quando si risvegliò, sebbene non fosse rimasta svenuta che per poco tempo, nella camera si era già operata una profonda trasformazione: alcuni vicini, avendo sentito il tonfo del corpo di Marjo che si sfracellava al suolo, si erano sporti a guardare cosa fosse avvenuto, e, visto il cadavere a terra contornato da una pozza scura che si andava allargando, avevano chiamato un’ambulanza, e la polizia. Nella stanza c’era già il commissario accompagnato da un agente, il portiere del condominio era stato fatto salire nell’appartamento, e ora tutti e tre stavano discutendo animatamente con Giacomo e Luijgi.

“Lui, lui è Marjo Salvati!”, stava gridando il portiere indicando Luijgi, “Se ve lo dico io, che lo vedo tutte le mattine!… Lui, è lui il signor Salvati”; sulle prime, Kecilja avrebbe voluto alzarsi per dar manforte al portiere e confermare che quello era suo marito, ma si trattenne, perché fu attraversata dal ricordo, molto vago, che Marjo dovesse aver fatto qualcosa di male insieme a Giacomo, e non voleva tradirlo, almeno fino a che non si venisse chiaramente a sapere di che cosa suo marito fosse accusato.

Il portinaio continuava la propria pantomima, aggirandosi per il salotto e afferrando fotografie di Marjo e mettendole sotto il naso al commissario, continuando a gridare, “Lo vedete se non è lui? Insomma, signor Marjo, ma cosa le salta in mente? Giù c’è un morto e lei si mette a giocare!”

“Il morto non è più giù di sotto, lo stanno portando via”, precisò il commissario, e, con l’aria di essersi stancato delle baruffe del portinaio, lo fece sedere su un divano, chiedendogli un po’ di calma; poi si rivolse a Luijgi, e, con aria complice, giungendo le mani e dondolandole davanti a sé, domandò, “Insomma, si può sapere chi è lei?” Luijgi si lasciò sfuggire un sorriso, poi estrasse il portafoglio e rispose, “Mi chiamo Luijgi”, e subito porse la propria carta d’identità al commissario (fosse stato così sollecito anche con il povero Marjo!), che però la tenne in mano senza aprirla.

“Luijgi e poi?”, domandò il commissario.

“Decor”, rispose Luijgi.

“Decor.”

“Sì.”

Solo a questo punto il commissario aprì davanti a sé la carta d’identità di Luijgi, guardando lui e poi la foto. Poi domandò, “E dunque il morto?”

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ADRA: C’era una volta una piccola moschettiera vestita con l’immondizia della spiaggia, una parrucca e un gonnellino di alghe, un tricorno di cartone di biscotti infracidito, una collana di occhiali da sole rotti. Chi la prendeva per mano la sentiva tremare come se fosse sul punto di trasformarsi in una mera vibrazione, una breve scossa nel palmo della mano. La moschettiera cercava lo squalotalpa, placido mostriciattolo che vive accoccolato nella fanghiglia del bagnoschiuma, aspettando forse il giorno che uno dei suoi nati, mettendo la testa fuori dal terriccio (file di denti aguzzi si aprono di sotto la sabbia fradicia) non senta la soffocazione dell’atmosfera. Così ora presto il padre si riunirà al proprio figliolo, e quel che c’era una volta ci sarà anche alla fine.

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T–––Š B––––K [Dai materiali secretati… etc.]: La tester riferisce dell’esistenza di una sequenza perduta del film 七人の侍 di 黒澤 明 in cui il samurai capitano osserva col suo solito sorriso di carnefice una fotografia tenuta segreta che ritrae i sette insieme ad un altro in un bosco, durante la loro prima impresa. Esaminandola da vicino, il samurai giovane scopre la presenza di una forma rannicchiata contro un albero, una specie di oblunga creatura marina ruvida e bitorzoluta come un gigantesco cetriolo di mare (non fosse per le piume… forse un cucciolo di megattera?). Il generale sorride al giovane samurai. “Grazie”, gli dice, “non avevo notato quella creatura. Teniamo questa informazione segreta: ci sarà utile il giorno della battaglia”. Il sorriso sornione del generale vuole forse alludere al fatto che il generale sapeva da tempo della presenza della megattera fantasma nel gruppo dei sette? Che magari lui stesso l’aveva evocato, offrendo la propria anima in cambio di una vittoria priva di gloria, oppure imprigionandola in una bambolina voodoo tenuta nascosta nella sua finta borsa da medico condotto? Dato che l’intera scena nonché il personaggio della Megattera Fantasma sono stati eliminati ben prima che si giungesse alla versione finale, non lo sapremo mai. [NOTA: A seguito di questa testimonianza, Adra si era offerto di partire alla ricerca del personale coinvolto nella creazione di questa mai udita prima Megattera Fantasma, entrando in effetti, a somma costernazione ed orgasmo di tutto l’entourage tecnico di NITA™, con tutto un gruppo di fuoriusciti ed emarginati dell’impenetrabile jet-set nipponico tra cui uno studioso della vita marina del Pacifico che gli sceneggiatori avevano contattato per conferire un qualche realismo al mostro. Il timore, che poi aveva prevalso, era che la Megattera Fantasma potesse risultare più fantascientifica che fantasmatica: per evitare questo, 黒澤 aveva realizzato un numero limitatissimo di inquadrature della creatura, sempre in zone di penombra, dove la creatura fosse a malapena visibile, le sue piume non più di qualche volatile rimasuglio impigliato in una spiga di riso appena falciata e subito sommersa dall’avanzare dei contadini nella melma prima della battaglia].

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L’amica non venne. Dopo l’incubo, e con in testa il ricordo nauseante e confuso della saliva (ricordava di aver sognato di mangiare un uovo crudo, sbriciolando coi denti frammenti di guscio e inghiottendo l’albume crudo) e di una siepe carnivora, Rosahs si sentiva completamente oppressa, alla prospettiva di una giornata in solitudine con Glaucho; nondimeno, quasi lasciandosi cadere come uno dei fiori viventi della siepe, si mise a preparare panini e bibite, indossò un costume da bagno, i pantaloncini e la maglietta, e scese le scale al suono del clacson di lui. Si avviarono verso le montagne, mentre il sole di mezzogiorno e il movimento del paesaggio parevano aver lentamente la meglio sul malessere della notte. Con i finestrini abbassati non c’era bisogno di parlare, e in più Glaucho non poteva sentire Rosahs mentre provava a chiamare sottovoce la mamma e il papà.

Il torrente cadeva da un alto sasso, una cascata sottile e luccicante che si allargava in una profonda pozza azzurro cupo; Rosahs e Glaucho si spogliarono e stesero le maglie accanto alla riva, all’ombra e sopra l’erba, e vi appoggiarono il cibo e le bevande che lei aveva portato. Glaucho aveva portato anche una bottiglia di vino bianco, che sistemò nell’acqua fredda. I due ragazzi si stesero al sole. Non parlavano tra di loro, ma di questo ormai Rosahs era contenta, non volendo altro che dissolvere l’incubo che le era rimasto addosso come un sudore di febbre, e godere del sole e dell’ombra, del suono dell’acqua e della freschezza dell’erba. Un grande uccello acquatico traversò il cielo sopra di loro con un volo lento, traendo un lento canto ipnotico, fino a che Rosahs non si addormentò davvero.

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(Ulteriori frammenti dal nastro della Truut, estratto sesto) Le due vecchiette guardavano il papavero con bontà e innocenza e non sembravano per nulla fameliche, ma il papavero pensò che era meglio obbedire alla madonnina. [RIASSUNTO DELLE PUNTATE ALTERNATIVE: Dove si viene a sapere che in realtà i due cani vogliono solo tenere d’occhio il papavero, che li farà cadere in un precipizio; la madonnina dei cani è intrappolata in un negozio di giocattoli di Jakarta; di giorno vede passare i soldati diretti verso Waltzwaltz e li chiama cosacchi: “Passan mucchi di cosacchi, sono secchi e han tanti sacchi, sulle mucche molte macchie, dentro i secchi latte in pacchi”; i cani uggiolano davanti alla vetrina, appiccicando il vetro dei loro nasi umidosi e infanti]

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(Continua l’allegato alla lettera del prof. Favori al prof. Zanna) Nel caso poi che la preda sia una donna, il corpo assume progressivamente fattezze maschili, ma in un modo assolutamente fluido; starei per dire “in modo naturale”, non si trattasse di un fenomeno che dopotutto contiene una forte dose di orrore, almeno per noi esseri umani. Quando infine il neonato b. si ritrova completamente sommerso, spalanca la bocca, e srotola nel mare la lunga spirale della propria lingua.

(Rimini, 4 gennaio 1963)

(Fine dell’allegato e della lettera del prof. Favori al prof. Zanna)

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“Il morto è Marjo Salvati, un mio amico”, intervenne a questo punto Giacomo.

“Marjo Salvati? Un suo amico? E la signora?”, domandò il commissario vedendo che Kecilja si era ripresa.

“Lei è la moglie di Marjo Salvati, Kecilja,… Kecilja,… mi scusi; Kecilja, perdonami, qual è il tuo cognome da nubile?”

Il commissario la chiamò. “La moglie di Marjo Salvati? Venga, venga signora, si avvicini anche lei.”

Kecilja si alzò, ancora molto confusa. Si accorse solo allora che una infermiera le stava tenendo la mano, mentre nell’altra teneva una boccetta, forse di sali. Si diresse verso il gruppo di persone in piedi vicino alla finestra, e, dato che continuava a non ricordare nulla di quello che era successo, mise la sua mano nella mano di Luijgi. Luijgi, meccanicamente, la strinse.

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– Mi regali uno dei tuoi guantini bianchi?

[continua l’11 marzo]

Immagini: G.P. Bombardelli, Necropoli (part.) – Collezione privata.