Davanti al monumento a Dante mi ero quasi dovuto ricredere. Per quanto in astratto se ne possa tener conto, in certe circostanze risulta difficile riconoscere che una coincidenza fortuita incide materialmente sulle nostre vite più di quanto non possa un progetto costruito dopo un lungo lavoro. Recuperando la giusta dose di umiltà – e benché l’evenienza possa sembrare poco gradita – bisogna invece ammettere che dal punto di vista materiale i risultati migliori non sempre coronano la strada più faticosa. Impegnarsi non basta, né basta il talento; talvolta, neanche l’essere critici con se stessi. Da nessuna di queste tre fonti avrei infatti ricavato ciò che una circostanza fortuita mi pose davanti senza peraltro chiedermi di rinunciare a ciò in cui credevo.
Ecco in breve la faccenda. Riccardo Bretti, che era cinque anni maggiore di me e aveva finito Economia e Commercio, mi aveva chiesto se volessi partecipare a una ricerca su parte del territorio trentino: retribuita, si intende, e coordinata dall’Università di Brescia (quindi, dotata anche di un po’ di quel particolare prestigio illusorio noto solo a chi ha esperienza universitaria). Non posso dire che ci conoscessimo a fondo: sapeva che avevo scritto su un quotidiano; probabilmente gli scambi che avevamo avuto gli erano bastati per capire che avrei potuto svolgere il lavoro in modo accettabile. Il progetto a suo parere avrebbe richiesto uno sforzo di circa due mesi e non avrebbe interferito con gli studi (ero entrato nell’ultimo quarto di esami). Mi sembrava inverosimile, tanto più che i soldi mi servivano: non avevo ancora un computer mio – un portatile vero – e ne avevo bisogno. Bianca accolse la notizia con una risata, giudicandola subito come una delle rare occasioni in cui nella vita ti capita qualcosa senza sforzo. In un eccesso di ingenuità, io avevo supposto che da questo impegno sarebbero potute fiorire ulteriori offerte, fondate sulla bontà del risultato che avremmo prodotto; avrei invece scoperto presto che si tratta di un campo poco fraternamente solidale.
Bretti lo avevo incontrato a Trento in alcuni incontri sul terzo settore. Mi aveva avvicinato in uno di questi, dedicato alla promozione delle associazioni di volontariato di secondo livello, che i Servizi provinciali incoraggiavano al fine di coordinare il lavoro di più associazioni operanti su un determinato territorio. Concluso il dibattito, mentre in piedi discutevamo della proposta, mi aveva detto del lavoro. Me lo aveva detto improvvisamente, come se si trattasse di una delle varie questioni che lo occupavano. Che queste avessero o meno un riscontro non era facile da comprendere; più tardi avrei capito che quel mostrarsi così efficiente aveva uno scopo espressivo, più che materiale, ossia che l’immagine delle sue relazioni esclusive mirava a incidere sulla coscienza dell’interlocutore, più che chiarire il ruolo che di volta in volta lui avrebbe svolto nei progetti che queste relazioni portavano con sé. D’altra parte, nell’ambiente che frequentava, parlare di come guadagnarsi il pane non era ritenuto elegante, né del resto aveva bisogno di porsi il problema («Non si vive mica di solo pane, no?»). Così questi rilievi nel suo discorso assumevano un ruolo quasi incidentale; a volte, trattando di organismi pubblici e del coinvolgimento di politici locali, si interrompeva distogliendo lo sguardo, come destato da qualcosa di più gradito: «Sai che mi è capitata questa offerta? Anzi, dovresti partecipare anche tu». Subito però riprendeva le fila della questione principale, rinviando il chiarimento delle ragioni per cui avrebbe voluto coinvolgermi alla fine dell’argomentazione che gli stava più a cuore e che invece a me, colpevolmente, a quel punto appariva secondaria.
Una cosa era sicura: mi sarebbe toccata la Bassa Valsugana, ambito che negli anni Sessanta e Settanta del Novecento era stato interessato da un forte insediamento industriale, che poi invece, nei Novanta, con le prime delocalizzazioni era entrato in una crisi difficile da risolvere. Se le industrie erano state attirate dalle agevolazioni pubbliche, ora, prive le casse della Provincia di possibili richiami, sembrava difficile ridestare l’attrattiva di questa zona. Sarebbe servita un’idea originale, ma certo questa non si poteva prevedere né programmare.
«Insomma,» mi disse, «ti telefono presto. Facciamo una riunione, ma credo ne basti una sola per mettere in piedi il lavoro. Poi ci muoveremo autonomamente».
«Benissimo, fammi sapere».
E in effetti, per la maggior parte del lavoro me la sbrigai per conto mio.
2.
Nel frattempo, qualcosa era successo. Avevo seguito la vicenda a distanza, con perplessità mista a un crescente fastidio. Confermando le più inverosimili voci sul suo conto, Clara aveva interrotto gli studi di Lingue e se n’era andata di casa per convivere con Paolo Govoni, il perito che lavorava alla centrale idroelettrica. Si era saputo tutto dopo, naturalmente, e c’era voluto un po’ di tempo perché Wilma e Carlo, per così dire, elaborassero il lutto. A Carlo in realtà ce n’era voluto meno, anzi, aveva superato lo sconcerto iniziale rilanciando, o per meglio dire organizzando un ricevimento perché qualcuno non dicesse che le cose gli erano sfuggite di mano. Non aveva esagerato, perché alcuni amici gli avevano suggerito che in fondo, mostrarsi liberale al punto da accogliere il colpo di testa della figlia con misurata benevolenza avrebbe mostrato a tutti quanto in realtà fosse di aperte vedute (ne avrebbe ricavato un risultato di immagine). Solo in segreto aveva fatto i suoi conti, minacciando Clara fisicamente se non avesse tenuto fede all’impegno e non si fosse laureata. Wilma aveva pianto quel che c’era da piangere, compiacendosi però dentro di sé per l’impressione che nutriva ormai da un paio d’anni, ossia che, a dispetto di ciò che poteva apparire, la figlia su cui puntare era l’altra, Lucia. E questa aveva accolto di buon grado la decisione della sorella che ai suoi occhi si finalmente si staccava dall’ossequio delle aspettative familiari.
Clara l’avevo incontrata un mese dopo, poco fuori il Municipio. Tornava dalla spesa.
«Sai,» mi aveva detto col suo tono brusco, «se io avessi figli non vorrei che studiassero fino a farsi illusioni, quelle che ho avuto io, o che tu hai ancora. D’accordo, magari io arriverò anche alla laurea, ma pensa ai miei genitori alla mia età. Lo so, erano altri tempi, ma vorrei che ti concentrassi su questo perché secondo me vale anche oggi: sapevano ciò che volevano. Quando hai capito che certe cose non te le puoi permettere cominci a pensare al valore di ciò che hai, capisci che la vita, per così dire, non è una corsa a premi e che in tutto ciò che ti sfugge devi cercare qualcosa di più solido».
Mentre concludeva questa frase non guardava verso di me, aveva volto gli occhi azzurri verso l’insegna del ristorante Al cervo.
«Che non si tratti solo di una competizione dovresti saperlo comunque».
«Sì, ma studiando è inevitabile qualche malinteso, e sai bene che lo sforzo non è mai ripagato per intero. Per questo credo che sia importante sapersi accontentare. Del resto, i criteri di selezione li conosciamo, e lì c’è proprio poco che succede per caso».
Non sapevo se si riferisse al mondo universitario, al lavoro di suo padre o a ciò che le relazioni di suo padre le avevano consentito di capire; il suo discorso sembrava agitato da un fremito quasi impercettibile, eppure evidente a chi la conosceva, come se qualche nuova amarezza l’avesse colta di sorpresa.
«Sono stufa. Una può anche stufarsi, no? Ne ho viste anche troppe. Mi dà più soddisfazione cucinare che entrare in Facoltà».
«In effetti l’ho pensato anch’io, anche se in cucina valgo poco».
«Ma tu credi davvero che sia decisivo conoscere le ragioni per cui un’autrice minore avrebbe scritto un racconto irrilevante – che nessuno legge o cita – cinque giorni prima di quanto la comunità scientifica riteneva fino a quel momento? Sì, in astratto può avere la sua importanza. Ma si tratta di testi che nessuno legge e di faccende che nessuno studia, che ci vengono vendute come decisive solo da chi ci ha costruito intorno una carriera, approfittando di stagioni così favorevoli da sembrare irripetibili. Anzi, da esserlo, irripetibili. Mi sembra tutto completamente arbitrario».
Non avevo voglia di portare la discussione fino in fondo, ma naturalmente, a fronte di una delusione, restava pur sempre in piedi la questione inaggirabile, ossia il rapporto individuale con il sapere, che nessuna truffa didattica poteva mettere in dubbio, e che ad ogni modo dovevamo pur affrontare.
«Dunque l’università è una perdita di tempo?»
«No, naturalmente. Non tutta; ma molta sì, anzi troppa. Metti che sia una casalinga che ha letto molta letteratura portoricana; potrei essere un’insegnante che ne ha letta tanta; cambierebbe qualcosa? Credi che gli studenti delle superiori apprezzerebbero? Anzi, pensi che sarebbe indispensabile sottoporre loro la questione filologica dei cinque giorni, rispetto ad altri argomenti? Pensi davvero che ciò che conta siano le operazioni che impari a fare su un testo, non importa quale? E che l’ampiezza del rilievo culturale, la sua ricezione non conti se non in termini politici?»
Risposi negando, ma senza andare troppo oltre. Osservavo le sue scarpe da ginnastica consunte. Bianca trovava Clara priva di umiltà: ora potevo capire cosa intendesse. Non che Clara non avesse le sue ragioni, che avrebbe forse dovuto tradurre in un saggio; ma qui suonavano fuori luogo. Ecco forse dove si potevano trovare, paradossalmente, le illusioni che detestava. Scambiando l’astratto per il concreto, l’eccessiva fiducia di Clara nell’intelligenza le aveva tolto la comprensione delle istituzioni. E in questo, per quanto la potessi comprendere, mancava di umiltà. Anch’io avevo impiegato un bel po’ di tempo a capirlo: al di là della retorica, infatti, le istituzioni formative, e quindi anche l’università, più che luoghi di scambio culturale sono in primo luogo realtà che mirano al rilascio di un diploma attestante la conclusione di un ciclo di studi. Nelle sue critiche condivisibili Clara era giunta a una conclusione equivoca: avendo idealizzato l’università come luogo di discussione – e dato che il dibattito non vi si svolgeva al livello delle sue esigenti aspettative – aveva poi finito per svalutarla al punto da interrompere gli studi, mentre ormai l’università non era molto più che una scuola guida che dopo l’esame finale rilasciava una patente valida per tutti gli usi consentiti dalla legge. Il resto era il risultato del dialogo, delle discussioni al bar, degli articoli sulle riviste, dei libri, di un’attività culturale gratuita svolta da associazioni più o meno spontanee a cui lei, per ragioni intuibili, ormai evitava di partecipare. Non che una critica sul contenuto dei corsi non fosse legittima, anche in termini strettamente inerenti allo statuto di una disciplina, ma l’istituzione agisce per mano delle persone che la animano: la nostra, bisognava riconoscerlo, non andava tanto lontano.
3.
Alla riunione con Riccardo era presente anche uno statistico, Ermanno Rib (robusto, taciturno, occhiali neri e capelli lunghi fino alle spalle). La mattinata era servita soprattutto a condividere i documenti dell’università (il questionario) e i criteri generali di impostazione del lavoro; in estrema sintesi, il fatto che dovessimo mettere a suo agio l’interlocutore, farlo parlare, intervenendo con il nostro commento solo a posteriori, in fondo alla trascrizione del colloquio. Riccardo si era assunto la responsabilità dei risultato nei confronti del docente direttore della ricerca, che peraltro si era appoggiato a una cooperativa sociale (Riccardo ne era il referente, sarebbe stata questa a pagarci); tuttavia, ogniqualvolta si trovava a descrivere i passi da compiere, anche se cercava di conservare un discreto rigore non riusciva a reprimere in sé la considerazione del tutto relativa in cui teneva il progetto, che gli interessava – me lo aveva detto senza esitazione – solo allo scopo di ottenere un altro incarico. Questo progetto, che secondo lui al direttore doveva essere sembrato più che altro una seccatura (e che richiedeva di essere chiuso al più presto), preludeva infatti, senza che se ne potesse cogliere alcun nesso, a un progetto di maggior ampiezza. E pensare che che mi ero documentato sui possibili sviluppi della ricerca.
«Senti, devo dirtelo per il tuo bene, tu non puoi prendere tutto sul serio allo stesso modo,» mi aveva avvertito, «devi cominciare a valutare gli impegni in ragione di ciò che ti viene pagato: questo progetto va bene, ci caviamo un mese di stipendio ma, visto che è distribuito su tre mesi, non possono mica pretendere che stiamo a farlo ogni giorno per il meglio, no? Se vogliono di più, devono darci di più».
In ambito privato forse il discorso avrebbe potuto funzionare, ma visto che nei progetti pubblici il dettaglio del budget era una voce definita, era inutile pensare che il responsabile potesse ritoccare l’importo verso l’alto. Naturalmente questo era noto anche a Riccardo, che conosceva la contabilità ma che aveva tradotto l’esigenza del surplus non pagato nella legittima aspettativa di nuovi benefits, come se fossero questi, e non il risultato – che anzi nella sua generica attendibilità si riduceva a un dato ininfluente – a muovere le cose. Il dato determinante, l’unità su cui si ragionava, era un “lavoro finito” e consisteva dunque in una grana in meno per chi, per varie ragioni e privilegi, si trovava a gestirne una grande quantità. Togliere un’unità da quelle spalle poteva rivelarsi vantaggioso per ambire a sgravarle di altri problemi: la qualità doveva essere accettabile, niente di più.
Cresciuto nel culto del lavoro, non sapevo staccarmene. Ero rimasto indietro. A una mia domanda precisa, Riccardo mi aveva risposto stizzito: «Il risultato lo garantiamo, no?» ma non riuscivo a convincermi che si potesse garantire un’interpretazione davvero originale dei dati – un’analisi qualitativa – se il nostro modo di procedere era condizionato a priori dalla necessità di non dedicare troppo impegno al lavoro.
E così, in un’istante di improvvisa comprensione, prima che fosse soffocata dal suo pragmatismo, Riccardo aveva tagliato corto:
«A forza di buttarti via, lo spreco sarai tu».
4.
Gli interlocutori che dovevamo incontrare, oltre a quelli istituzionali, erano per lo più titolari di imprese artigiane. Mi ero comprato il mio primo cellulare, indispensabile per questo lavoro: azzurro, di plastica, uno dei più economici, con scheda ricaricabile.
E così avevo fissato le interviste. Il primo giorno, dopo aver incontrato in mattinata il proprietario di una segheria e il vicedirettore della filiale di una banca, nel pomeriggio dovevo vedere il titolare di una carpenteria in legno. Lo aspettavo osservando una parte del capannone risistemata da poco e non ancora conclusa. Nel sottoscala, dotato di una grande finestra, si scorgeva un tavolo abbandonato con una sedia. Saranno stati quindici metri quadri: forse il futuro ufficio. Poco distante arrivava il suono di una radio che trasmetteva i Depeche Mode (Home).
Visto che l’artigiano era in ritardo, chiamai Bianca per salutarla.
Un quarto d’ora dopo mi venne incontro un uomo di quarant’anni coperto di segatura. Energico, con i capelli lunghi raccolti in una coda dietro la nuca.
«Mi scusi, sono giornate infernali». Dicendolo accennò proprio al sottoscala che stavo osservando.
«Possiamo metterci qui, che dice?»
«Nessun problema».
In realtà, qualche problema c’era. Di sedia ce n’era appunto una sola; sul tavolo e sul pavimento si erano depositati almeno due centimetri di polvere. Intorno, ciottoli, pezzi di nylon, residui di imballi. Marco Imbriani, così si chiamava, uscì un istante e tornò con una sedia di ferro e un pezzo di tessuto-non-tessuto col quale pulì alla meglio il tavolo e la sedia già pronta sollevando una nuvola impenetrabile. Mi fece sedere su quella che aveva portato. Uscì poi ancora un’ultima volta rientrando con un sacchetto che conteneva una decina di penne di plastica blu della ditta, che mi pose davanti:
«Le accetti come dono per il ritardo e per il disagio di doverci parlare proprio qui».
Feci la mia introduzione, rimarcando l’importanza di fornire un punto di vista attendibile.
A metà colloquio, mi chiese di spegnere il registratore.
«Vedi,» mi disse, passando a una forma più colloquiale, «se considerassi la faccenda solo dal punto di vista dei numeri, forse oggi non ne dovremmo neanche parlare. Noi siamo piccoli, non possiamo permetterci certi centri di taglio, ma uno degli errori più comuni che si fanno quando si guarda al lavoro è pensare che tutto funzioni solo se si è sulla cresta dell’onda. Perché dovremmo spendere per competere con i colossi austriaci, ad esempio? Lo faccia chi ha la dimensione per farlo. Io faccio quello che posso per migliorare e anzi vendo qualcosa che nel senso della qualità può competere con i prodotti delle grandi imprese, anzi perfino superarli (perché cerco di rispondere direttamente alle esigenze specifiche e sono presente sul campo), ma non ho massa critica. Col legno ce la siamo cavata: dico qui e in Primiero, dove forse sono anche un passo avanti rispetto a noi. Cerco ogni giorno di andare avanti: la materia prima è a portata di mano, la tecnologia – a parte le macchine per i grandi numeri – è ormai più o meno la stessa per tutti. Vuoi che ti dica che la differenza non la si fa solo con le innovazioni nella produzione in serie? Te lo dico. Innovazione è fare quello che gli altri non fanno. L’intelligenza con cui rispondo ai problemi che ogni giorno mi vengono posti non è preventivabile. E non è neanche uno standard, perché certi problemi si pongono proprio perché escono dalla norma. Capisco che voi siate qui per raccogliere i dati in vista di progetti per migliorare il settore, ma miglioreremmo veramente – e forse lo fareste anche voi – se consideraste che un’azienda artigiana, anche quando produce oggetti, produce sempre anche servizi. Ma per me la questione sta tutta in una domanda: fammi capire, tu credi di avere una vita, del tempo libero?»
Non ero incline a vivere collezionando esperienze. Glielo dissi, che il lavoro mi serviva in primo luogo per ragioni materiali (comprarmi il computer), ma credo avesse capito che non ne facevo un uso strumentale. E proseguii. Noi eravamo lì per sondare i bisogni delle aziende (infrastrutture, formazione) perciò era prevedibile che alcuni avrebbero risposto interpretando la nostra presenza come una delle tante scocciature con le quali l’ente pubblico cerca di mostrarsi vicino al mondo artigiano, ma non era il mio caso. Imbriani aveva più concretezza di quanta ne avesse il vice-direttore di filiale che avevo incontrato in mattinata e che mi aveva parlato esclusivamente dei (pochi) servizi alla comunità, delle (misere) borse di studio per i diplomati e per i neo-laureati, badando a non sfiorare neppure l’impegno generale nel mercato finanziario (quello che sette anni dopo avrebbe portato la banca a una fusione d’emergenza per evitare il fallimento).
«Viviamo in un territorio complicato,» riprese Imbriani, «non si può dire che i costi di trasporto non contino. Questo però può essere un vantaggio, anche se la competizione è difficile. Se sei sveglio, fai la differenza. Quindi, se vogliamo capire cosa può essere utile alle imprese dobbiamo partire da questo dato di fatto. Però ti devi sbattere, su questo non ci piove, devi smettere di mostrarmi che sei qui per caso».
5.
Bianca pensava che il colpo di testa di Clara rispetto all’università fosse dovuto, più o meno inconsapevolmente, alla sua condizione di privilegio. A parte qualche piccolo problema di salute, infatti, era arrivata a ventidue anni senza aver mai dovuto superare dei veri ostacoli. A scuola andava bene perciò sembrava che tutto il resto, di conseguenza, dovesse venire da sé. Neppure suo padre le aveva mai mosso obiezioni su ciò che aveva scelto di studiare, per quanto fosse noto che avrebbe preferito un altro indirizzo, più concreto. In effetti, Carlo me lo aveva confidato durante la mia supplenza in Biblioteca, mentre stavo scrivendo una lettera per conto degli Uffici comunali: a suo dire Lingue serviva a poco: «Tanto valeva studiare Economia, e imparare poi una o due lingue sul campo», posizione che al di là di alcuni aspetti teorici trascurabili, non era irragionevole. Che poi volesse andare a convivere, beh, questa era una scelta pressoché normale e comunque rappresentava una questione secondaria. Ma giocare a fare la casalinga era, secondo Bianca, una commedia imbarazzante. Accalorandosi sulla questione, si spostava i capelli dalla fronte, come se anche questi, nei frangenti in cui qualcosa la forzava ad abbandonare il suo solito equilibrio, contribuissero a esasperare la sua sensibilità.
«Sì,», le dissi, «e anche sul merito c’è un problema: in che misura l’università è davvero dentro il dibattito di una disciplina? che cosa può veramente garantire che lo sia? Viviamo in provincia, i professori che arrivano non sono i più titolati, non lo sono per principio o almeno non lo sono tutti; non siamo a Harvard. In teoria, Clara avrebbe anche ragione di pretendere che questa sia la sede dell’eccellenza, ma in pratica – e lo sai, io per primo ho fatto fatica davanti a certi esami – deve accontentarsi. Anzi, non ha motivo di non accontentarsi. Che cosa dovrebbe dire: io voglio laurearmi, ma non posso farlo a meno che non mi laurei a Oxford o a Cambridge?».
«Appunto. Allora vacci, a Oxford, e non stare qui a lamentarti. Peggio ancora non stare qui a dire che, visto che non puoi laurearti a Oxford, allora tanto vale fare la casalinga».
Avevo cominciato a trascrivere le interviste su un computer che la biblioteca metteva a disposizione del pubblico, previa prenotazione. Le stampavo e le correggevo a penna. Stavo facendo il giro dei negozi di Trento per capire dove comprarmi il portatile. La macchina da scrivere meccanica ormai la usavano in pochi: avevo pulito la mia Adler e l’avevo messa nella sua custodia, pronta per raggiungere l’angolo degli scatoloni in soffitta, ma la tenevo in camera come un talismano a cui non mi sentivo di rinunciare. Così, seduto con Bianca davanti alla biblioteca, mentre due maestre passavano con una classe di schiamazzanti ragazzi delle scuole elementari, tornai su un argomento di cui avevamo già discusso. Da un certo punto di vista l’università rappresentava una scuola di umiliazione, ma questo era un dato da accettare, come si fa con l’odore di gasolio sul ponte dei traghetti o delle navi che ti permettono di andartene dal posto in cui sei cresciuto. Il resto, purtroppo, ossia il dialogo, appariva episodico, accidentale; per altri versi – davanti a chi era tanto coinvolto nello studio di una disciplina da sperare che quella fosse una condizione ordinaria – si manifestava come un fenomeno illusorio. Il rapporto diretto con i docenti, sebbene a parole fosse incoraggiato, nella pratica era invece ricondotto alle crescenti seccature settimanali. Si limitava a poche indicazioni: «Mi scusi sa, ho molto da fare».
In questo contesto invariabile, più che gli studi arrivavano appunto a contare le occasioni estemporanee e parzialmente incoerenti con il curriculum. Il mondo del lavoro si manifestava in modi così imprevedibili, almeno nei dettagli, da trarne vari insegnamenti, mettendo in luce che ogni analisi quantitativa, per quanto prudente, lascia sempre in ombra aspetti potenzialmente decisivi. Certo, se l’esperienza dei fenomeni cresceva, questo periodo lasciava tuttavia in ombra qualcosa che solo più tardi si sarebbe rivelato fatale, ossia che il tempo dedicato a sopravvivere sarebbe stato liquidato con un sorriso discreto, alla stregua di un viaggio esotico, da chi invece era rimasto coerentemente al lavoro sui propri studi, in forza di una maggior comprensione da parte dei maestri o di un maggior sicurezza materiale che remavano entrambe, con spietata coerenza, verso traguardi di carriera ufficialmente rappresentati come eventuali e perseguiti invece con feroce determinazione.