Credo che Octavio Paz nel suo secolo di Christopher Domínguez Michael sia la prima biografia del poeta, saggista e premio Nobel (1990) messicano, nato nel 1914 e scomparso nel 1998, che esce in Italia. Mentre stavo correggendo le bozze del libro di Domínguez Michael, a un certo punto mi è sorta una curiosità. Quali opere di Octavio Paz sono oggi disponibili in Italia? A parte Il labirinto della solitudine, di sicuro il suo saggio più noto e tradotto in molte lingue, praticamente nient’altro. Negli anni Ottanta e Novanta, in seguito al Nobel e alla sua morte, alcuni saggi, L’arco e la lira, In India, La duplice fiamma e un’antologia della poesia, Vento cardinale e altre poesie, erano ancora reperibili. Poi, il silenzio. Un silenzio editoriale rivelatore. A chi importa oggi leggere uno dei tre o quattro (con Seferis, Yates, Eliot, Valéry) poeti-critici più importanti del XX secolo? A chi importa leggere le opere dell’intellettuale più influente dell’America Latina? A chi importa di un poeta messicano che ha attraversato tutte le tappe storiche del XX secolo, dalla Rivoluzione messicana alla Guerra civile spagnola, dalla Rivoluzione bol- scevica alla Rivoluzione cubana, dalla Seconda guerra mondiale alla Rivoluzione culturale cinese, dai campi nazisti alle purghe staliniane, dalla dissidenza ai regimi militari dell’America Latina, dalla fine del comunismo alla rivolta neo-zapatista? Che ha vissuto in America Latina, in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone, in India interrogandosi, forse come nessun altro, sulle grandi civiltà concludendo che tutte le strade si incrociano in un punto che non è l’Occidente e la sua civiltà, “ma lo spirito umano che obbedisce ovunque e in ogni momento alle stesse leggi”? Che ha sperimentato, dal surrealismo alle derive dell’avanguardia, tutti gli splendori e le miserie della modernità artistica? A chi importa oggi la poesia del XX secolo? Oggi si preferiscono ricordare gli orrori storici del secolo scorso, ma si dimentica che quello che è stato definito il «secolo dei totalitarismi» non è stato segnato soltanto dai crimini provocati da quei regimi, ma anche dalla grande poesia, conseguenza diretta di quei regimi, che scrittori e artisti crearono perché noi, giunti dopo, non commettessimo l’errore di ridurre tutto un secolo ai suoi crimini. Se nel XXI secolo i ponti con il passato stanno crollando uno dopo l’altro è anche a causa di questa nostra memoria che fissandosi sui crimini della Storia ha smesso di accogliere l’arte come suo strumento di comprensione. Per comprendere la Russia di oggi, infatti, non basta lo story-telling di giornalisti, storici e politici. Servono i romanzi di Tolstoj e di Dostoevskij. Così come per comprendere l’America Latina dei narcos e dei golpe servono i saggi di Alfonso Reyes e di Octavio Paz.
Essere moderni
Come tutti i grandi spiriti Octavio Paz non ha mai smesso di partecipare all’eterna querelle tra Antichi e Moderni. Eterna perché ogni epoca è, allo stesso tempo, sempre antica e moderna. Figlio del XX secolo, e perciò erede della duplice radice illuministica e romantica, Paz, come scrive Domínguez Michael, pensava che “il poeta è critico perché moderno ed è moderno perché critico”. Si può perdonare a un poeta moderno di non disporre di tutti gli strumenti e perfino di riservare alla poesia solo i suoi stupori, offrendo un’immagine di sé che non può essere quella di nessuna persona viva. Quel che invece è difficile perdonare a molti artisti, bardi, romanzieri e uomini di scienza della generazione di Paz è come siano riusciti, scrive Domínguez Michael, “a vendere o affittare al potere totalitario un catalogo quasi infinito di alibi”, a mettersi un paraocchi, o a rimanere indifferente dinan- zi a crimini di dominio pubblico. O ancora, a dare “ai tiranni la loro benedizione in nome di un Terzo Reich millenario”, o a pretendere la “sostituzione, nel caso del comunismo, del regno della necessità per quello della libertà”. La lista dei complici è lunga e contiene anche il nome di Paz che per un breve tratto credette nel matrimonio tra la Rivoluzione messicana e la Rivoluzione dei Soviet, ma che, grazie all’esperienza della Guerra civile spagnola, aprì ben presto gli occhi e non confuse mai la teoria marxista con la falsa realtà socialista di Lenin e di Stalin. “C’è un difetto, una segreta spaccatura” nella coscienza del poeta del XX secolo, affermò Paz verso la fine della sua vita. Con- sapevole di ciò, dedicò un passaggio della sua opera a molti dei suoi maestri e amici accecati o resi miopi dalle loro stesse idee rivoluzionarie. “Quando penso ad Aragon, Neruda, Alberti e ad altri famosi scrittori e poeti stalinisti, sento lo stesso brivido che mi dà la lettura di certi passaggi dell’Inferno. Cominciarono in buona fede, senza dubbio”. Tuttavia il loro rifiuto di “chiudere gli occhi dinanzi agli orrori del capitalismo e ai disastri dell’imperialismo in Asia, in Africa e nella nostra America” e quella “spinta generosa di indignazione di fronte al male e di solidarietà verso le vittime, li intrappolò di causa in causa impercettibilmente, tanto che, avviluppati da una rete di menzogne, falsità, inganni e spergiuri, persero l’anima”. Costoro persero l’anima non perché fossero cattivi poeti, ma perché abbracciarono la Storia come una religione, ovvero come una marcia inarrestabile verso un futuro carico di redenzione. Fin dai tempi di Rimbaud il poeta moderno si è considerato un veggente, qualcuno in grado di vedere il futuro. Ed è precisamente ciò, la sua ansia di futuro, che lo ha reso molte volte cieco di fronte al presente. Paz una volta ricordò a un gruppo di amici la figura di Farinata degli Uberti mentre confidava a Dante che dopo il Giudizio Universale i dannati avrebbero perduto il loro unico privilegio, la doppia vista. “Non potranno prevedere il futuro perché non ci sarà futuro”. Si tratta di un’idea insostenibile per un poeta moderno, secondo Paz, perché tutti i poeti moderni, anche quelli come lui che si erano inoltrati per lunghi periodi nelle antiche civiltà dell’Estremo Oriente, dell’India e dell’America precolombiana, avevano sopravvalutato il futuro. Che fare? Abbandonare ogni utopia, ogni volontà rivoluzionaria, ogni desiderio di cambiamento? Accettare il Giudizio Universale, la fine della Storia? Non credo che Paz pensasse, come Fukuyama, che il trionfo del liberalismo fosse la fine della Storia. Per lui si trattava della fine della visione hegeliano-marxista della Storia: “La Storia”, affermò in Pequeña crónica de grandes días, “non è un assoluto che si realizza, ma un processo che incessantemente afferma e nega se stesso. La Storia è tempo: nulla in essa è permanente. Accettarlo è l’inizio della saggezza”. Tale saggezza, tuttavia, non gli permise di rassegnarsi a quello “stato di insensibilità equanime” che la “società tecnologica distribuiva a tutti come una panacea”. Questa patologia non era stata diagnosticata da nessuno, tanto meno dai suoi maestri Marx e Tocqueville. Non credo che Paz rinunciò mai a quella che una volta chiamò “la tradizione della rottura”: “voler essere moderni sembra una follia, ma siamo condannati ad esserlo, poiché il futuro e il passato ci sono preclusi. La modernità non consiste nel rassegnarsi a vivere in questo fantomatico presente che chiamiamo XX secolo. La modernità è una decisione, un desiderio di non essere come coloro che ci hanno preceduto e un desiderio di essere l’inizio di un altro tempo”. Certo, nel corso degli anni Ottanta, Paz si rese conto che tale movimento si era inceppato, che la rottura priva di tradizione non faceva che produrre “novità”, news. Non sapeva se stava vivendo la fine o il rinnovamento della modernità. Si accorse tuttavia che per continuare a essere moderni – un desiderio, una decisione e una condanna a cui non ci si può sottrarre – bisognava diventare antimoderni. Breton, il suo amico e maestro surrealista, aveva detto molto tempo prima che “la véritable existence est ailleurs”. Paz lo correggerà affermando che quell’altrove è qui. La vera vita, infatti, non si oppone alla vita quotidiana, ma è la percezione “di un bagliore di alterità in qualsiasi nostro atto, senza escludere i più banali”. Solo che, come scrisse in uno dei suoi ultimi libri, La otra voz, la poesia moderna del XXI secolo, se vorrà essere in grado di cogliere tale “alterità”, non potrà limitarsi ad ascoltare la voce del qui ed ora, ma quella più profonda e più antica, l’altra, quella dell’inizio: “Una poesia può essere moderna grazie ai suoi temi, al suo stile e alla sua forma, ma per sua natura è una voce antimoderna. La poesia esprime realtà estranee alla modernità, mondi e stratificazioni psichiche che non solo sono più antichi ma anche impermeabili ai cambiamenti della storia”.
Il disonore dei poeti
Paz ritornò spesso a meditare su un libro di uno dei suoi più cari amici francesi, Benjamin Péret, un anarchico che aveva attraversato il trockismo e il surrealismo senza perdere la sua anima libertaria. Il libro si intitolava Il disonore dei poeti ed era uscito nel 1952, un anno dopo L’uomo in rivolta di Albert Camus e in pieno dibattito parigino sull’impegno politico che scrittori e poeti dovevano abbracciare se volevano incarnare i valori di libertà e giustizia che si trovavano per forza di cose nel popolo, in coloro cioè che non avevano voce in capitolo né i mezzi per esprimerla. Cosa diceva Péret? Due cose che oggi più di allora mi sembrano essenziali. In primo luogo che “ogni poesia che esalti una libertà volutamente indeterminata cessa immediatamente di essere una poesia e, di conseguenza, costituisce un ostacolo alla liberazione totale dell’uomo, perché lo inganna mostrandogli una libertà che dissimula nuove catene”. Poi, che “non spetta al poeta alimentare negli altri un’illusoria speranza umana o paradisiaca, né disarmare gli spiriti infondendo loro una fiducia illimitata in un padre o in un leader contro cui qualsiasi critica diventa sacrilegio. Al poeta spetta invece pronunciare le parole sacrileghe e le blasfemie permanenti”. Al poeta onorevole spetta, in altre parole, un unico impegno: ascoltare qui ed ora, quale che sia la sua condizione storica e la sua volontà di cambiamento, “l’altra voce”, la voce che viene prima di ogni modernità, che è antimoderna perché è insensibile ai cambiamenti della Storia, che non nutre “nessuna illusoria speranza umana o paradisiaca” e che, per questa ragione, è in grado di pronunciare sempre “parole sacrileghe e blasfemie permanenti”. La rivoluzione e la poesia, per l’ultimo Paz, nascono dallo stesso desiderio: sono tentativi di distruggere il tempo presente e di instaurare un altro tempo. Tuttavia il tempo della poesia non è il tempo della rivoluzione, il tempo della ragione critica, il tempo delle utopie: “è il tempo prima del tempo, il tempo della vita anteriore che riappare nello sguardo del bambino, il tempo senza date”. Per l’ultimo Paz il poeta è critico perché antimoderno ed è antimoderno perché critico.