Il presente sarà un elogio dello stare nell’aperto del mondo,
anzi un doppio elogio di un doppio modo di starci: l’essere immersi nella luce
del mondo e il guardare. Per “stare nell’aperto del mondo” intendo l’uscire dal
proprio io, l’assumere continua consapevolezza della propria appartenenza al
mondo.
Tutto il corpo è presente con la mente nel loro stare nei paesaggi del mondo e
del pensiero – ma il problema di carattere linguistico-lessicale (e, dunque,
anche concettuale) è che paesaggio (landschaft, landscape, paysage,
paisaje) suggerisce l’idea di uno sfondo allo stare, al camminare e al
guardare; sia invece da subito chiaro che lo stare e il guardare s’immergono
totalmente nel paesaggio (naturale o urbano, non importa) per riconoscerne il
respiro e a esso accordare il proprio.
Stare e guardare non vogliono impossessarsi di nulla (possesso è
violenza e tracotanza), desiderano invece lasciarsi attraversare e farsi
permeare da quello che vedono e sentono.
Stare nell’aperto del mondo implica attenzione e scoperta, è atto eretico e
libertario perché si chiama fuori dalla logica del produrre e del consumare: è
rallentamento e dilatazione dell’attenzione, sguardo non colonizzatore e non
concupiscente, ma erotico nel suo andare incontro al fuori che lo circonda e lo
invita.
Joseph Beuys a Scheveningen (la fotografia, del 1976, è di Caroline Tisdall) ha le scarpe incrostate di sabbia, uno sbuffo pure di sabbia che gli aderisce anche al pantalone e il Mare del Nord alle sue spalle; mostra (o contempla) qualcosa che tiene innanzi allo sguardo (lo ha appena raccolto dalla sabbia?); il pastrano e il cappello sono le sue inconfondibili attestazioni d’identità. Il filo spinato impedisce e vieta, ma non sarebbe strano se lo stare di Beuys in quel punto, ritto e concentrato, avesse il significato di una contestazione contro quanto sottrae e vieta quello che è, invece, di tutti. La vegetazione, bassa e rustica perché sottoposta a venti e piogge spesso inclementi, rimanda al mare agitato e a un cielo che annuncia tempesta.
Joseph Beuys mentre pianta una quercia per Documenta 7 a Kassel (la fotografia, del 1982, è di Pieter Heijnen) ha alla sua destra un desolante paesaggio di automobili, pali dell’illuminazione pubblica e l’enorme cartello che segnala una stazione di rifornimento; l’artista è quasi per metà dentro la buca aperta nella terra, se ne possono immaginare anche in questo caso le scarpe e i pantaloni sporchi e, come sempre per Beuys, “sporcarsi” significa riconoscersi figli della terra.
Ho scelto, tra le centinaia esistenti, proprio questi due ritratti di Joseph Beuys perché, a loro modo, appartengono anch’essi ai “paesaggi dell’Europa centrale” sui quali vado scrivendo su Zibaldoni. Sia chiaro però che “lo stare nell’aperto del mondo” è anche, in riferimento a Beuys, per esempio il suo stare nelle aule della Kunstakademie di Düsseldorf in mezzo ai suoi studenti – il discrimine non è, dunque, tra ambiente “chiuso” e ambiente “aperto”, ma tra chiusura dell’io in sé stesso e sua presenza consapevole nel mondo e apertura a esso, così che noi guardiamo Joseph Beuys che sta nell’aperto del mondo anche quando, per fare un esempio famoso, nel 1974 trascorse tre mesi nel seminterrato della René Block Gallery di New York avvolto in un pesante cappotto di feltro nel tentativo di stabilire una relazione con un esemplare di coyote rinchiuso assieme a lui nel medesimo ambiente. Simbolicamente il cappotto di feltro è la società contemporanea che imprigiona e snatura l’essere umano, il coyote lo stato naturale con cui occorre ristabilire un contatto. E nella medesima direzione si muoveva il progetto di piantare a Kassel 7000 querce – il nostro sguardo associandosi allora allo sguardo di Beuys si spinge nell’aperto del mondo, sta dentro di esso, vede per esempio la rude, affascinante bellezza del Mare del Nord o l’ostile anonimato di una periferia cittadina e sarà allora sempre di nuovo necessario sporcare i propri abiti di sabbia e di terra, dare alle proprie mani un da fare: raccogliere, scavare, piantumare, scrivere.
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