Nella quinta carrozza c’erano solo due coppie di pensionati e tre albanesi sui quarant’anni. Faceva freddo. Bianca era in viaggio per Vienna con la famiglia in visita ai parenti. Scherzando, le avevo promesso che il giorno dopo sarei salito sul primo treno, ma aveva capito subito che dicevo sul serio. Non si trattava di un gesto improvviso. Provavo una specie di conforto che derivava dalla certezza che lei aveva a cuore ciò che stavo facendo, anzi che mi avrebbe sostenuto; paradossalmente, al contrario di ciò che nella conversazione ci si trova a dire giudicando i rapporti umani, la lontananza rafforzava questo sentimento spingendomi ad agire in modo più concreto. Non mi ero ancora reso conto che il suo appoggio potesse produrre in me un effetto simile. Così avevo prenotato una stanza, avevo fatto la valigia e il mattino dopo mi ero alzato prima dell’alba.
Non che avessi bisogno di troppe ore di viaggio, Mantova non è lontana, ma volevo avere un giorno e mezzo a disposizione. Ciò che era successo dopo la consegna del rapporto sui territori rurali del Trentino e qualche altro episodio più recente mi avevano lasciato scontento perché era emersa la conferma che il nostro gruppo, con Riccardo ed Ermanno Rib, non sarebbe durato. I motivi che ci avevano spinto a un sodalizio momentaneo derivavano da interessi troppo divergenti, rivolti alla promozione di sé più che a quella dell’attività comune. Del resto, Riccardo me lo aveva detto, non capivo il business model. Rib, come statistico, era richiesto in vari progetti; non gli mancavano le offerte per le quali, anzi, era costretto a uscire dall’indolenza per scegliere le soluzioni più vantaggiose. Se per sopravvivere, l’attività doveva smaterializzarsi per reggersi soltanto sul mio talento di attrarre relazioni, non sarei andato lontano: non solo per la mia rete sociale troppo corta, ma a causa del mio rifiuto di cambiare modello (determinante, se devo valutare come stavano andando le cose). Del resto, conoscevo solo il mondo degli artigiani. L’agitarsi di Riccardo per ottenere incontri e nuove promesse – nella maggior parte inconcludenti – mi sembrava incomprensibile.
Più che altro mi avevano colpito le sue parole, gli argomenti con i quali, guardando verso l’orizzonte sotto casa sua, aveva liquidato ancora una volta le mie riflessioni come anacronistiche, giudizio che, ripeto, forse non si allontanava troppo dal vero, se non fosse appunto che questo vero, che a lui appariva evidente, per me era del tutto in questione. D’altra parte, mentre scrollava la testa, sembrava appoggiarsi più sul suo desiderio che su un codice ristretto che pretendeva di aver appreso frequentando un circolo di persone in cui aspirava a entrare e nel quale, per il momento, era trattato come un tirocinante: su questo punto l’inconsapevolezza gli era caduta addosso come una divisa, non tollerava discussioni, anzi, con l’energia del neoconvertito dava per certo che le cose sarebbero andate come prevedeva.
I campi scorrevano sotto il cielo ancora scuro, mentre tre sedili più avanti i pensionati, passandosi il caffè dal thermos, parlavano animatamente delle arche scaligere. Bianca doveva essere già in Austria, ferma in qualche autogrill con i suoi.
Un’altra vicenda si era conclusa in modo ridicolo. Grazie a una telefonata dai contorni surreali, Franca, un’amica che lavorava nel Centro di ricerca economica Tabur di Trento, mi aveva informato su una selezione che stavano facendo fra chi avesse esperienze di comunicazione e volesse spendersi su questi temi. A lei – molto generosa – ero sembrato la persona giusta. Mi ero iscritto e avevo ricevuto l’e-mail di convocazione. Nella sede, il consueto ambiente di architettura modernista un po’ orecchiata, spoglio e con due poltrone Barcelona di Mies Van del Rohe. Ero solo. Forse non volevano che i candidati potessero parlare fra loro. All’ora concordata Valeria, una segretaria con tailleur giallo ocra che avrà avuto cinquant’anni mi aveva accompagnato in un ufficio altrettanto spoglio, con una scrivania di poco conto, un telefono, la lampada e un paio di sedie. Rimasi forse cinque minuti in penombra ad aspettare l’arrivo del selezionatore: mi immaginavo un funzionario incaricato. Arrivò invece Antonio Bonnard uno dei consulenti in ascesa nel nostro territorio, ora manager del Centro e in procinto di impegnarsi in politica come spin doctor: alto, un po’ appesantito, con i capelli stempiati pettinati all’indietro: aveva addosso un completo testa di moro troppo stretto. Mi venne incontro in silenzio, con esibita agilità, quasi a dimostrare la sua efficienza muscolare, poi si sedette dietro la scrivania e guardando un messaggio sul cellulare accese con l’altra mano la lampada e la girò incredibilmente verso di me, in modo che la luce mi arrivasse in faccia, nascondendo la sua nell’ombra come in un poliziesco di serie B. L’intera manovra era stata così goffa che per un istante ebbi l’idea di fargli spegnere la luce, perfino di abbandonare il colloquio.
Mi chiese di presentarmi. Visto come aveva incominciato, incrociai le gambe perché sapevo che gli esperti delle strategie posturali, che sicuramente aveva presenti, interpretavano questo movimento come sintomo di tensione, che io invece non stavo soffrendo. Cominciai in tono disteso, ma lui mi ascoltava distrattamente, guardando da un’altra parte: intuivo il suo profilo dietro la lampada. Le sedie da ufficio dismesso e perfino le venature del finto legno dipinto di nero della scrivania rivelavano l’artificiosità di quel rituale, ossia, in sostanza, la perdita di tempo in cui consisteva quel colloquio; ma, mentre il mio disappunto cresceva davanti a un’impresa inutile – nella quale, però, proprio perché la avvertivo come inconcludente, avevo deciso di impegnarmi – sentivo crescere anche un dato di coscienza incontestabile, che ora – solo ora con così grande chiarezza – reclama la mia attenzione, ossia che le sue frasi, così come la strategia di selezione di cui mi illustrava per sommi capi i criteri, erano quasi inconsistenti. Ora mi accorgo, con una memoria improvvisamente liberata, che ciò che pensavo del colloquio non era dovuto a un giudizio successivo che aveva inasprito il tono di ciò che in quell’ufficio avevo avvertito ostile: era appunto, più semplicemente, il dato di coscienza che aveva accompagnato le mie impressioni, al quale non avevo mai voluto lasciare spazio e che tuttavia era già chiaro: sentivo che il colloquio non avrebbe avuto un buon esito ma, in misura del tutto nuova rispetto a colloqui precedenti, non mi vergognavo che le cose avessero preso il loro corso, ossia non mi sentivo umiliato dalla mia inadeguatezza al ruolo. Bonnard non diceva niente di originale: del resto, un uomo che deve prendere delle decisioni non ha bisogno di quella che ancora ritenevo illusoriamente una preparazione valida per tutti: gli basta solo ciò che serve a coprire qualche limite che la sobrietà del discorso non riesce a nascondere. Il resto è una saggezza che costruisce giorno per giorno e che lui nascondeva agli altri parlando occasionalmente di tv e di sport. Girò la testa verso un angolo più scuro dell’ufficio quasi a cercare qualcosa che non riusciva a trovare. Fino a quel momento, gli unici rilievi degni di nota nel suo discorso erano stati l’eccezionale prudenza e una particolare predilezione per gli otto mesi che aveva trascorso a Monaco di Baviera.
I pensionati alzavano la voce. Una di loro aveva da ridire sul monumento a Dante in piazza dei Signori. Contro gli altri sosteneva che lo scultore nelle sue memorie aveva chiarito che non era stato pensato per quella sede.
A un certo punto Bonnard allungò la testa:
«E come è messa la sua agenda? Quali sono i suoi contatti?»
«Ho cominciato da poco. Se mi chiede cosa so di questi temi, e quanto ne potrei scrivere, o perfino se mi chiede di promuovere una ricerca, non ci sono problemi. Ma se cerca qualcuno, sulla mia agenda troverà pochi nomi».
Rimase in silenzio.
«Sa, per noi l’agenda è importante, i contatti sono decisivi».
«Capisco, ma non credo di poter esserle d’aiuto».
Stavo per aggiungere che ero stato informato male, ma preferii rimanere in silenzio.
2.
La chiesa rotonda di San Lorenzo mi colpisce ogni volta in modo diverso, non serve che sia immersa nella nebbia. Pur sapendo che la parte superiore è opera di una elaborata ricostruzione, sono sempre spinto ad entrare, come se custodisse la risposta a una domanda sospesa; quel giorno però il portone era chiuso, così ripiegai subito in Sant’Andrea, che è lì a due passi.
Avevo un’ora abbondante prima dell’appuntamento con il prof. Bartolomei. Non lo avevo più visto dal giorno della laurea, così gli avevo scritto un’e-mail per chiedergli un appuntamento: solo il tempo di un caffè.
Dentro la basilica, la tomba di Andrea Mantegna si trova nella prima piccola cappella a sinistra, la cappella di San Giovanni Battista. È sepolto sotto il pavimento assieme ai suoi figli, anche loro pittori. Osservandola dal cancello che la chiude al pubblico si coglie un’atmosfera di mesto raccoglimento, con la luce bianca che entra dalla finestra rotonda – che il fresco a quell’ora sembrava amplificare – anche se attorno prevalgono i colori caldi sopra un pavimento a dama, di marmo bianco e rosa. Sulla parete di destra, il suo famoso dipinto del Battesimo di Cristo, concluso dal figlio Francesco. Quarant’anni di pittura austera a servizio dei Gonzaga, una serie di personaggi di scolpita definizione sospesi in un tempo privo di clamore.
Mi sedetti quasi in fondo. La volta, nel suo equilibrio, appariva enorme. Le decorazioni sulle pareti, invece, tutto sommato non mi parevano convincenti.
D’un tratto, verso il lato destro, vidi avanzare una mesta comitiva. In mezzo a loro, con un giaccone blu, mi sembrò di riconoscere Carmen, una ragazza con la sindrome di Down che avevo conosciuto ai tempi delle scuole elementari, anche se non potevo dirmi certo che fosse lei. Sapevo che si era trasferita qui con la madre. Alta, un po’ appesantita, maggiore di noi di un anno, in seconda Carmen aveva trascorso un quadrimestre con me e i miei compagni, imparando con profitto varie cose. Al tempo mi prendeva in giro chiamandomi di volta in volta col nome di un animale: “gatto” oppure “oca”, che le piaceva in modo particolare. Fra ciò che aveva imparato, per lei non ce n’era nulla che valesse quanto uno scherzo, perché non c’era nulla a suo avviso che potesse valere il fare chiasso con noi. Con le camicie a fiori che la madre si ostinava a farle indossare sembrava più grande di quanto non fosse e, forse, proprio le difficoltà della crescita le avevano già imposto una selezione severa: gli sforzi rivolti all’intesa con noi dovevano contare più dei riferimenti comuni che potevano essere, di volta in volta, i risultati di un calcolo o il volto di un’oscura divinità egizia, il che poneva alcune questioni circa i codici culturali a cui di solito non mi trovavo a rispondere, ma che sotto l’ingenua fame di sapere conservavano un rilievo incontestabile.
Ora osservava gli affreschi, trascinando i piedi dietro il suo assistente. Speravo che fosse lei, ma non me la sentivo di sincerarmene. Vederla seguire ciò che la guida stava spiegando mi riportava al proposito di liquidare in fretta, entro i termini che mi ero proposto, il caffè col prof. Bartolomei. Con Carmen, gli altri erano forse dieci, alcuni dei quali visibilmente più anziani. Era venuto loro incontro un sacerdote, che aveva accolto il piccolo gruppo dirigendolo verso il fondo della sacrestia. Ritornai con lo sguardo alla volta. In fin dei conti tutto quello spazio non valeva per noi, umilmente, se non in rapporto alla nostra possibilità di agire; più che un monito – come appariva invece nello sguardo accigliato dal dovere nel busto di Mantegna – lo interpretavo come un incoraggiamento, come senza dubbio avrebbe fatto anche Bianca. Feci dunque ancora un breve giro, tenendomi a distanza dal gruppo, poi uscii. Non mi andava di restare a spiare Carmen, a scoprire se si fosse data solo come un’apparizione, o se fosse venuta a ricordarmi materialmente da dove venivo.
3.
«Dunque, come sta?» mi chiese il prof. Bartolomei sedendosi con un po’ di impaccio al tavolino del bar dove ci eravamo dati appuntamento.
«Bene, direi».
«Beh, ora sarà senz’altro più sollevato», aggiunse, alludendo all’esame di laurea.
Risistemandosi la cravatta bordeaux, passò a raccontarmi in breve il suo, di esame, l’anziana relatrice con la voce stridula, le tre domande a cui aveva risposto con nuovi quesiti che avevano stupito i presenti, l’imbarazzo del correlatore con la giacca di tweed che non sapeva come comportarsi e infine l’applauso liberatorio. Proseguì più spedito ricordando il periodo successivo, gravido di opportunità «se non si è frenati da preoccupazioni materiali». Come accadeva a lezione, gli occhi grigi tendevano di tanto in tanto a dirigersi in alto, più che verso di me, cercando qualche suggerimento celeste, mentre io mi trovavo a riflettere su ciò che l’impressione suggeriva, ossia che pur parlandomi, non si stava davvero rivolgendo a me: avrebbe recitato questa parte – ripetuta probabilmente in numerose occasioni – anche a un altro studente. In fondo, per una deformazione professionale ormai non priva di accenti comici, nella sua conversazione ogni interlocutore era ridotto al pubblico dell’Aula 1. Ne conclusi che dovevo apprezzare di più l’enfasi con cui mi parlava, questa sì fuori del comune: forse era questo l’aspetto più spontaneo e forse anche il più sincero. Non potendo offrirmi altro, voleva condividere almeno la passione con cui aveva formulato un giudizio eccellente.
Lo ringraziai.
«Ma no, grazie a lei. Cosa vuole, io sono sempre pieno di impicci, mi dispiace anzi di non poter fare di più».
Il sorriso sembrava rivolto a difesa di uno spazio vitale che forse neanche più si accorgeva di tutelare con l’equanimità con cui trattava tutti gli studenti, secondo il vecchio adagio di non aderire ai propositi che le loro ambizioni instancabilmente producevano, e però nemmeno di non sabotarli, lasciando così al tempo il compito di mostrare la loro fragilità, perché tale comunque si sarebbe rivelata senza il suo aiuto (probabilmente nei primi anni di lavoro se ne rendeva ancora conto).
Parlò ancora del suo amore per lo studio che, sia pure circondato da tante cautele, era inequivocabilmente sincero, benché gregario, come se i libri non potessero assumere altra immagine che quella degli oggetti di devozione davanti ai quali ci si doveva inchinare: aveva scritto, infatti, tre commentari abbastanza noti. Mi stupiva che in trent’anni di insegnamento le sue preoccupazioni teoriche non si fossero stemperate nella pratica quotidiana degli uffici e delle associazioni, di cui continuava a occuparsi. Questa costanza era ammirevole.
«Una cosa le consiglio: pazienza. Vedrà, vedrà che le cose si metteranno per il meglio».
Due carabinieri lo salutarono; lui rispose con un cenno, soddisfatto di essere riconosciuto nel suo ruolo. Del resto, sapevo che la sua vita privata si era fatta più dura. Dopo la morte della moglie, riversava il suo affetto sui nipoti Giacomo e Roberto, riempiendoli di attenzioni che non ricambiavano, sognando per loro un futuro da analisti, mentre loro speravano di aprire un negozio di computer. Quanto al mio caso, sebbene nei giorni immediatamente successivi alla laurea, incoraggiato dalle parole che lui aveva pronunciato all’esame, avessi ritenuto di essere essere stato indicato come uno su cui si poteva puntare, mi ero poi accorto in fretta che, per quanto potessero essere sincere, le parole erano cadute nel vuoto (in quelle circostanze, per convenzione, tutti i docenti sono assuefatti ai superlativi). Ne conclusi che avrei dovuto riservarle a una gioia privata, ripetendomele un po’ più spesso a mo’ di mantra personale, ma niente di più. Bianca, anche questa volta con un equilibrio che a me mancava, lo aveva notato subito.
«È proprio sicuro di dover andar via così presto?»
«Sì, professore, non si preoccupi. Mi ha già concesso molto tempo».
Mi rivolse ancora uno sguardo pieno di fiducia:
«Le raccomando lo studio dei classici».
4.
A mezzogiorno meno un quarto, nella dispensa della casa della sua famiglia io e Bianca ci stavamo baciando – anzi, le avevo slacciato la camicetta – quando suo cugino Mirco di quattro anni fece irruzione brandendo una spada di plastica. Ci mise qualche secondo a scoprire che ci eravamo rifugiati in un angolo.
«Samuele, Cristo Santo!»
Quando Silvia entrò in dispensa eravamo ritornati pienamente efficienti, pronti a proseguire la preparazione del tavolo della sala al pianterreno.
C’era un pranzo di famiglia e Bianca aveva insistito perché partecipassi. In effetti, benché non fossi nuovo a parlare in pubblico, qui la questione si complicava – per il divertimento di Bianca, che mi destinava occhiate abbaglianti – stratificandosi in numerosi livelli per cui a ogni passo rischiavo di compromettere la mia reputazione, l’immagine del legame con Bianca presso i parenti, la considerazione che avevo guadagnato presso i suoi genitori e il riconoscimento delle mie capacità di sostenere civilmente e contemporaneamente numerose conversazioni. Era una fatica inedita, che mi aveva indotto – questa sì una sorpresa – a essere più paziente ascoltando con piacere un aneddoto rurale di suo zio Giacinto, con tutta probabilità inventato, su due maiali che facevano incursione nella cucina di un’anziana coppia di agricoltori. I rituali della famiglia di Bianca non erano complicati, solo un po’ macchinosi, come la scelta dei posti sulla lunga tavolata del pranzo.
Concludemmo ciò che ci competeva, mentre il più degli invitati, in cortile, beveva l’aperitivo.
Finalmente ci sedemmo. I genitori di Bianca andavano e venivano con le nipoti Franca e Sara, incaricate del servizio. Bianca dava una mano. Per lo scorno di sua moglie Margherita e della sorella Lucia, Zio Giacinto, rimasto in piedi – come del resto Pietro, il nonno di Bianca – avanzava a tappe piegandosi sui commensali per salutarli. Arrivato al mio posto mi disse un’altra sciocchezza all’orecchio, secondo cui con Bianca avrei dovuto darci dentro fin da subito. La sua insistenza mi aveva spinto a credere che ogni tanto le parti si potessero invertire e che in questo caso fosse lui, al contrario di ciò che avevo pensato, a cercare di fare una superficiale ma buona impressione su di me il che, in mezzo al vociare collettivo, mi aveva restituito un po’ di sicurezza.
Cominciarono a servire gli antipasti.
Bianca non riusciva a rimanere al mio fianco, per la maggior parte del tempo correva in aiuto alle cugine con un piatto o una pirofila in mano. Alla mia proposta di condividere il suo sforzo, lei mi aveva rispedito al tavolo, forse per non far sentire in colpa altri due cugini, Agata e Alberto, entrambi universitari, che a due posti di distanza da me parlavano fittamente senza darsi il minimo pensiero di come il pranzo stesse procedendo. Silvia era finalmente riuscita a tenere a bada Samuele, che ora mangiava di gusto una cotoletta che lei gli aveva tagliato. Si respirava un clima civile, pur con varie divergenze: i parenti erano lieti di ritrovarsi e rinnovare una familiarità che evidentemente doveva aver previsto numerose occasioni come questa, così lontana dalle cupe adunanze periodiche della mia famiglia.
L’atmosfera mi era tanto di conforto che avevo quasi pensato di qualificarla provvidenziale – fermandomi appena in tempo – in un periodo in cui avevo saputo giudicare la conclusione del lavoro con Riccardo e il colloquio con Bonnard serenamente per ciò che erano, fenomeni nei quali non mi ero trovato nelle condizioni di poter incidere dato che, in entrambi i casi, ciò che avrebbe potuto determinare una svolta consisteva in una forza patrimoniale o relazionale di cui non disponevo. Il fatto che in un caso e nell’altro la competenza non fosse stata presa in considerazione aveva ferito soltanto il mio orgoglio, non l’intelligenza perché sapevo che ci muovevamo in un contesto privo di tutele, selvaggio come lo sono sempre gli incarichi di chi agisce nella piena discrezionalità dell’ambito privato, e ancor più in quello del pubblico-privato, per così dire.
«Dis-cor-so, dis-cor-so!» cominciarono a gridare i fratelli del padre di Bianca.
Fiorenza, la madre, anticipò Giovanni tagliando corto e ringraziando Dio di averli fatti ritrovare ancora una volta, affermazione che stroncava ogni ulteriore sforzo di conservare il cerimoniale. All’espressione del viso con cui lei aveva accompagnato il suo intervento, molti scoppiarono a ridere, così l’esortazione si trasformò in un brindisi.
Finiti gli antipasti, mi alzai per uscire in cortile.
Fuori era rimasta solo Serena, una bambina di quattro anni con un vestito giallo che coglieva dall’aiuola i narcisi per la nonna. Io guardavo l’orto, splendidamente coltivato. D’un tratto, col mutamento di idee improvviso così frequente nei bambini, Serena lasciò i fiori sul muretto di cinta e si mise a raccogliere piccoli sassi dall’orto per poi disporli in fila sullo stesso muro. Anche a me non restava che mettere in fila ciò che facevo. L’occasione della festa non era meno determinante di un pomeriggio speso a raccontare il lavoro degli imprenditori; ciascun istante reclamava attenzione, portava in dote un potenziale nascosto nel piccolo gesto della mano, come nel ricamo più sofisticato. Se fino a pochi mesi prima avevo sofferto queste circostanze familiari, alle quali sentivo di sacrificare un tempo in cui avrei potuto compiere – almeno così mi pareva – qualcosa di più utile, ora avevo invece compreso che quel qualcosa lo stavo già facendo, anche quando apparentemente, come in quell’istante, restavo inoperoso. La coscienza di ciò che ero si era impadronita degli imprevisti e degli ostacoli quotidiani – che l’anno precedente avrei considerato con dispiacere – piegandoli alle esigenze della conoscenza che ora venivano considerate da un punto di vista preciso, allora tenacemente inseguito, ma non raggiunto. Tutto ciò che era accaduto in quel breve arco di tempo non poteva incidere se non in misura marginale sulle decisioni che avrei preso, e sui progetti che confidavo di portare a compimento. Non c’era più bisogno di ingannare la coscienza, finalmente mi ero messo al lavoro.