Sui denti, lungo i bordi, una patina color ruggine: quasi si fosse scavata un cammino verso l’aperto divorando la terra sopra di lei, e la sua bocca odorava di liquore e di fango bruciato quando la aprì per carezzargli le labbra con la punta della lingua. Restava così, gli occhi liquefatti anche loro in un terriccio fertile e brulicante, fissi nei suoi e insieme ciechi, quella cecità degli affreschi che continuano a seguirti con lo sguardo, qualsiasi sia il punto della sala in cui tu sia andato a cercare rifugio. Se in quel preciso momento ci fosse stata un’altra persona nell’ambulatorio, e si fosse messa nel punto opposto a quello in cui stava lui, avrebbe avuto anche lei l’impressione di essere guardata negli occhi dalla donna. Quando lui provò a sbottonarle il camice lei lo risospinse sulla poltrona operatoria. Le mani e le braccia erano bianche e lunghe come quella di una bambola mortuaria etrusca, la pelle di carta trasparente lasciava vedere due sottili linee azzurre e parallele che si perdevano nella nebbia della carne… Con un movimento da calligrafa giapponese, la donna gli infilò un lungo bisturi nella cassa toracica, poi con un secondo movimento discendente e quasi moschettiero la aprì, sorridendo mite perché lui non si spaventasse, e non provasse vergogna del rumore come di un grugnito che avevano fatto le sue ossa nel separarsi…
“I medici son dei tali stronzi…”. La battuta dell’architetto gli era tornata in mente quando davanti all’ennesimo cardiologo aveva cercato, ancora una volta inutilmente, di capire la natura del suo male, e se vi fosse una cura possibile.
Dopo il viaggio nella cassa di latta dell’architetto, la salute di Miloš era andata rapidamente deperendo, né negli anni che lo separavano dal ritorno su quel maledetto treno fu mai in grado di stabilire se tutta la sua solitaria avventura con la seconda, demonicamente proliferante quanto ridicolmente flebile macchina di latta fosse stata reale, o non fosse una specie di lunghissima allucinazione provocata da un qualche tipo di shock provocato dal primo viaggio.
L’appartamento di Waltzwaltz in cui Miloš ritornò ancora una terza volta risultò appartenere da più di cinquant’anni a una famiglia di farmacisti, e in tutto lo stabile nessuno aveva mai sentito parlare dell’architetto. Ma Miloš questa volta non volle cercare con troppa insistenza il presidente: all’iniziale desiderio di rintracciare l’architetto per ucciderlo si era sostituita la paura di incontrarlo di nuovo. La placida e implacabile pressione psichica dell’architetto aveva definitivamente atterrito in Miloš ogni proposito di vendetta, tanto che il ragazzo, temendo di ritrovarsi infine di nuovo in un ulteriore labirinto di macchine di latta e innumerevoli viaggi, quasi sperava di non incontrarlo mai più, non fosse che avrebbe almeno voluto sapere quale fosse la natura del male che aveva colpito il suo cuore, in modo da potersi curare nel modo migliore; nello stesso tempo, Miloš sapeva benissimo che l’architetto se ne sarebbe uscito con una delle sue solite battute idiote, o con una lettera incomprensibile, o con un nuovo macchinario che avrebbe finito con l’ucciderlo.
Fin da quando si era trovato nello scompartimento del treno dopo il primo viaggio, Miloš si era reso conto che qualcosa durante il salto temporale doveva essere andato storto, e probabilmente la sua successiva estenuante allucinazione (tale infatti doveva essere) sulle macchine di latta che si moltiplicavano era la prova di un qualche guasto nel tragitto attraverso gli anni passati, una qualche radioscissione psichica o che so io. Il giovane si sentiva sempre più inquieto per il fatto di aver tenuto nascosta all’architetto la fitta che aveva sentito, quando questi aveva fatto la seconda prova prima del suo viaggio, e si chiedeva se in fondo tutti quei problemi cardiaci non fossero da attribuire a quella sua sventata negligenza piuttosto che alla perfidia del presidente, che dopotutto si era raccomandato di rinunciare al viaggio casomai il dolore si fosse ripresentato anche durante la seconda prova. Tutt’ora, di tanto in tanto il cuore continuava ad avere quei guizzi da pesce morente, che sulle prime Miloš aveva tentato di calmare premendo con forza le prime tre dita della mano sinistra sul petto, e girandole come se stesse girando una manopola, come si trovasse ancora tra le pareti di latta del macchinario; ben presto si era reso conto che l’operazione era del tutto inutile, e però quel vizio di premersi il cuore con la punta delle dita gli rimase fino alla morte; per prendersi gioco di lui le persone che lo conoscevano dicevano che recitava il mea culpa.
Come avrebbe voluto essere ancora in possesso di uno di quei tubi in grado di far toccare il cuore! Forse così, carezzandolo piano piano, sarebbe riuscito a guarirlo…
Ogni volta che il cuore aveva uno di quei guizzi nel petto, quasi stesse divincolandosi contro la cassa toracica per strapparsi da lui, per Miloš era una scossa violentissima di dolore. E i vari cardiologi cui si era rivolto gli avevano dato tutti risposte molto vaghe e nebulose, e somministrato farmaci ogni volta differenti, ogni volta con esiti che era difficile, da un punto di vista medico, interpretare o persino registrare.
Sorridevano, impotenti.
Del resto, Miloš non poteva certo raccontare per filo e per segno come quel mal di cuore avesse avuto inizio. Ripensando a come aveva dovuto faticare per trovare il proprio cuore quando aveva viaggiato nel tempo con le macchine di latta, a Miloš rimase la fissazione che il proprio cuore fosse uscito rimpicciolito da quel viaggio (“forse”, si chiedeva Miloš brancolando nella temebra della sua orribile sventura, “è tornato troppo indietro rispetto al resto del corpo ed è diventato il cuore di un bambino?”). Quando Miloš si provava a confessare questa idea, chiedendo se i suoi disturbi cardiaci non fossero per caso da imputare alle dimensioni del cuore, i medici gli rispondevano con un’alzata di spalle. I macchinari non rilevavano alcuna anomalia.
Sognava così spesso la donna con il bisturi, sempre identica con quei capelli come fili di cotone per bambole, del colore quasi verdognolo del fieno marcito, che ormai gli pareva di conoscerla, e che avesse una vita propria al di fuori del suo sonno.
Pure, risvegliandosi ancora una volta sul treno diretto verso Venezia, appena aveva capito che in ogni caso il salto temporale era avvenuto, e di essere ritornato indietro di quattro anni nella propria vita, e che per tutti quei quattro anni egli avrebbe goduto di una nuova occasione per ogni cosa in cui aveva sbagliato, Miloš era stato preso da una specie di euforico senso di onnipotenza, acuito dal fatto che ora egli non solo poteva prevedere gli ostacoli che avrebbe dovuto fronteggiare, ma era anche in grado di sapere in anticipo ciò che sarebbe accaduto nel mondo per i prossimi quattro anni. Era diventato una specie di profeta.
Ben presto però si era reso conto di quanto fossero inesatte queste prospettive: per quanto riguarda gli avvenimenti mondiali scoprì, con sconcerto, di ricordare ogni cosa in modo assolutamente confuso, con nomi e date invertiti tra loro, tanto che per un certo periodo Miloš, che dopo il suo viaggio si era appassionato al cinema fantascientifico, tentò di elaborare una teoria da scienziato pazzo secondo cui lui sarebbe finito in una specie di universo parallelo simile a quello da cui proveniva solo per certi caratteri meramente superficiali, ma molto differente nella sostanza: in tale misura gli avvenimenti del mondo, che credeva di ricordare in un certo modo, gli sembravano affatto estranei e nuovi. Ricordava la scena in cui, prima di essere assalito dal dinosauro, aveva visto un proprio doppione in compagnia dell’architetto, e daccapo tornava a chiedersi cosa fosse effettivamente successo nella casa di Waltzwaltz, e se lo scambio di cui aveva gridato il dottor Decor non fosse in realtà una specie di rapimento del proprio doppione perpetrato dall’architetto, che forse ora era in compagnia di un Miloš perfettamente sano, nel mondo reale, mentre a lui toccava una vita da malato di cuore, relegato nelle ali dismesse di una galassia confusa e opaca.
Come le cose più banali sogliono anche essere le più difficili da accettare, Miloš ci mise un po’ prima di rassegnarsi al fatto che qualunque cosa fossa accaduta, non aveva in effetti più alcuna importanza, poiché questo era ormai il suo mondo, fosse o no quello stesso che aveva lasciato, e che tanto valeva togliersi dalla testa arzigogoli e complotti di doppioni purchefossero. E poi poteva benissimo essere che la sua confusione non derivasse dalla fandonia degli universi paralleli da cinescienziato ma dal semplice fatto che la memoria suole giocare molti buffi scherzi. Già. Non c’è che la memoria quale madre di universi, misticheggiava il poveretto. E poi Miloš non aveva mai prestato un’attenzione troppo precisa alla cronaca e al mondo, e certo era solo per questo che fatti che lui ricordava in modo così vago ora incombevano e si susseguivano l’uno dietro l’altro, implacabili e in giusta ma ignota sequenza, come i doppioni di sé e dell’architetto che aveva visto durante la sua prima avventura con le macchine di latta.
Ma quegli scherzi della memoria, se per quanto riguarda gli avvenimenti che si vedono nei telegiornali si erano limitati a qualche inversione o sostituzione di nomi, diventarono, con grande sorpresa di Miloš, incredibilmente più frequenti per quel che riguardava la sua stessa vita. Al che poi si aggiungevano comportamenti stranissimi di cui lui stesso era il primo a stupirsi, e a soffrire. Ecco, egli per esempio ricordava molto bene che un certo giorno era stato trovato manchevole su una piccola questione, e che ciò aveva avuto conseguenze negative per la sua carriera… come la volta in cui gli avevano chiesto se era in grado di utilizzare un certo programma di computer e, alla sua risposta negativa, avevano rallentato un suo avanzamento nella ditta di giocattoli in cui lavorava. Bene, ora tutto era più facile, perché lui aveva una seconda occasione, per cui era sufficiente imparare ad usare quel programma, e tutto sarebbe filato alla perfezione; o come un’altra volta, in cui Miloš aveva dovuto rifiutare un importante incarico come consulente esterno durante una delle fasi del labirintico processo contro i direttori della sperimentazione del gioco radio-psichico NITA™, incarico offertogli all’ultimo momento dall’equipe di avvocati che si era ritrovata improvvisamente sfornita di alcune figure essenziali alla difesa del gruppo di porgrammatori del videogioco, incarico cui Miloš aveva rinunciato perché privo della conoscenza delle occorrenze medievali della figura di Robin Hood, essenziale per potersi orientare nei viluppi più esoterici e insieme decisivi del processo.
“Dovrò solo prepararmi in questo e questo modo”, si diceva Miloš, “raccogliere queste e queste informazioni, imparare a memoria questa e quella ballata inglese, e tutti, con piacevole stupore, mi troveranno in perfetta corrispondenza con i loro desideri”. La soluzione sembrava a portata di mano.
Ma ecco: Miloš imparò ad usare alla perfezione un programma che solo all’ultimo momento si rese conto non essere quello che gli avrebbero richiesto nella ditta; oppure, pur sapendo che quel certo giorno gli avrebbero offerto l’incarico di consulente della difesa alle condizioni che si sono dette, Miloš, quando sarebbe stato necessario iniziare a prepararsi, venne afferrato da un invincibile senso di pigrizia, e quasi persino di nausea di fronte al cumulo di versi che avrebbe dovuto sorbirsi. Appena apriva le prime pagine, le decapitazioni perpetrate da Robin e Little John nella foresta di Sherwood si ramificavano e disperdevano in un sabba di petali e fuoco nel quale ben presto non riusciva più nemmeno a distinguere i personaggi dal paesaggio in cui si muovevano, la carne dal bosco, nonché dai suoi sogni. Quando poi il giorno dell’offerta arrivò, Miloš aveva in testa una tale garbuglio di castelli e cuori strappati che esattamente come l’altra volta dovette rinunciare all’incarico.
Né andò meglio con gli avvenimenti della sua vita più intima, in cui gli parve che la confusione del ricordo rasentasse la follia, tanto che quasi sempre si accorgeva di aver ripetuto un qualche errore di cui tanto spesso si era rammaricato, solo un istante dopo averlo fatto di nuovo. Era come se un’oscura volontà lo spingesse a compiere ancora e ancora e ancora quei gesti che lui ogni volta con sempre minore convinzione raccomandava a sé stesso di evitare: e quasi sempre, quando arrivava il momento da correggere, Miloš cadeva in una specie di stato ipnotico o distratto, la sua attenzione di colpo veniva meno, e l’errore veniva ripetuto. Una cosa da far saltare i nervi.
Spesso, inoltre, Miloš dimenticava del tutto di aver viaggiato nel tempo, e sebbene tutti gli avvenimenti che gli capitavano fossero dei doppioni, talvolta egli li viveva come non fossero mai avvenuti prima, e in quei casi Miloš, trascinato dal presente in cui era stato rigettato, dimentico di conoscerne l’esito, si rendeva conto che avrebbe potuto intervenire solo quando ormai era troppo tardi.
Si sorprendeva persino a cercare la donna del bisturi nella realtà, ad esempio in una nuca che poteva apparirgli più familiare delle altre che si allontanavano nell’afa di un tramonto interminabile, o nel debole fetore putrido che saliva dalle cantine sotterranee di Briwen, come se il suo sputo o la sua lingua spettrale avesse potuto intriderne le pareti, farne marcire l’intonaco.
In effetti, Miloš riuscì a modificare ben poche cose della sua vita passata; e anche quando riuscì a correggere quegli errori, Miloš fu estremamente colpito dalla pochezza conseguenze di quelle correzioni, in cui per la verità già in partenza non nutriva molta fiducia, ma per tutt’altro ordine di motivi, mutuati anche questi dalla fantascienza. A parte il fatto che la sua malattia al cuore non lo avrebbe messo davvero in grado di godere dei frutti di quelle migliorie alla propria vita, Miloš aveva temuto infatti che la correzione di un errore avrebbe potuto portare con sé tutta una catena di nuovi errori, tutte delle nuove sofferenze che da sempre erano rimaste in agguato e delle quali non si sarebbe mai supposta l’esistenza, sofferenze che a loro volta si sarebbero potute correggere solo con un nuovo viaggio nel tempo, e così via all’infinito, finché il cuore non fosse letteralmente scoppiato per la fatica di quei viaggi.
Fu invece molto meravigliato nel vedere che alcuni gesti o parole che aveva creduto decisivi per la propria vita, e che fu in grado di correggere come voleva, in effetti non modificarono il corso della sua esistenza che in modo impercettibile. Da quelle correzioni non vennero né enormi miglioramenti, né impreviste catastrofi. Semplicemente, le cose ebbero un breve sussulto, ma poi tornarono a camminare nello stesso modo di prima, uniforme e monotono. Miloš capì così che è molto difficile che un solo gesto possa determinare la direzione di tutta una vita uniforme quale era stata la sua, non più di quanto lo spostamento di una singola pietra possa modificare in modo significativo il corso di un placido fiume. Si convinse allora che la sua vita si era sempre mossa su canali indistruttibili e, ora se ne rendeva conto, a lui completamente imperscrutabili; per la durata di tutti i quattro anni che gli era stato concesso di (ossia che era stato condannato a) rivivere e provare a modificare, Miloš si comportò perciò sempre più come se si trovasse sotto l’influsso di una maledizione, rassegnandosi infine a ripetere ancora una volta tutti quei gesti che aveva creduto di poter volgere al meglio.
Un abbandono reso necessario anche da un’altra più volatile circostanza. Ogni giorno, attraversiamo a piedi un corridoio, una stanza, un appartamento, apriamo la porta di casa, scendiamo le scale, usciamo in strada. Niente di più semplice. Pure, se arrivati sulla soglia ci dicessero di tornare indietro e ripetere ciascuno dei gesti che abbiamo compiuto esattamente come li abbiamo compiuti, ogni battito di palpebre e ogni respiro e forse anche ogni pensiero, pena la morte, resteremmo in breve paralizzati come un concertista cui sia intervenuto in vuoto di memoria. È per il terrore di una consimile paralisi del gesto che i bambini preistorici hanno inventato la danza e la parola e il canto, che permettono di ripetere ogni cosa senza timore di errori.
In quei quattro anni, e specie nei primi tempi in cui Miloš era ancora animato da chiamiamola una febbre se non anche una furia autoriformatrice, gli capitò nel fare le cose più banali uno sciame ininterrotto e quasi ridolinesco di incidentucoli d’ogni sorta. Prendeva ad esempio lo spazzolino, e il bicchiere in cui lo teneva scivolava dalla mensola e gli cadeva su un piede, e nel chinarsi a massaggiarlo rimediava una zuccata contro il lavandino. I tagli alle dita provocati dai fogli di carta non si contavano nemmeno più. Che altro. Piccoli incidenti automobilistici, non necessariamente a danno di altri che lui, come la vota che gli erano rimaste in mano dopo avere impugnate la leva del cambio e delle frecce. Slogature di questa o quella giuntura, il tutto nel mezzo dei movimenti più innocui. Scontri involontari e ripetuti a brevissima distanza uno dall’altro per un numero surreale di volte con passanti in cammino. I vestiti gli restavano di continuo impigliati in qualunque oggetto presentasse una sporgenza. Come una congiura generale delle cose, quasi fossero state incaricate di punire ogni suo sia pur minimo passo falso: Miloš difatti non tardò ad accorgersi che i bernoccoli, i graffi e le ammaccature si intensificavano quando lui anche solo pensava al macchinario di latta, così facendo deviando, anche se solo per effetto del peso fantasmatico di un pensiero diverso dal suo solito. Se cambiare il già fatto era difficilissimo, ancora più ardua appariva la sua perfetta ripetizione, e deviare di anche solo un millimetro dal tracciato faceva di solito precipitare in un ginepraio irto di spigoli nascosti, ante troppo basse, e un paio di volte persino delle proverbiali bucce di banana. Quasi appunto tutta quella miriade di gesti insignificanti costituisse una intricatissima partitura coreografica una cui qualsiasi alterazione anche minima avrebbe avuto conseguenze catastrofiche, tutte per lo più comiche, e nei momenti di maggior confusione Miloš si chiedeva se per caso Buster Keaton o Charlie Chaplin non fossero anche loro viaggiatori nel tempo, o non ne avessero incontrati e vi si fossero poi ispirati per le loro scenette. I piccoli incidenti come un piede fuori posto, un soffio di vento, un qualunque nonnulla portavano infatti con sé una catena inaudita di minute conseguenze in capo alla quale Miloš si ritrovava immancabilmente al centro di una sorta di gag, una volta con tanto di torta in faccia, un giorno in cui entrando in un bar la tasca della giacca gli era rimasta impigliata nella maniglia della porta d’ingresso, e lui così intrappolato sulla soglia era stato urtato da un signore che usciva tenendo sotto braccio una scacchiera che si era aperta ai loro piedi, e il re bianco era rotolato fino a sotto il piede di un cameriere che stava portando un vassoio su cui… una cosa da vecchi clown del circo, ogni singolo giorno per tutti quei quattro anni. Anni che del resto passarono oltremolto rapidamente senza che Miloš fosse riuscito a rimediare quasi nulla da quella che si sarebbe potuta considerare un’occasione inestimabile e invece era una sorta di ulteriore tortura rispetto a quelle che già gli erano destinate.
Il volto di Chaplin gli compariva talvolta in sogno al posto di quello della donna del bisturi. Stava ritto così, in bianco e nero dentro un paesaggio a colori, e gli sorrideva a bocca chiusa, tutto il contrario dei soliti sorrisi dentati di Charlot, un sorriso più diciamo da Gioconda, quasi fosse lì lì per togliersi il trucco e sparire tra la folla, Charlot che se ne va mentre il nero si fa sempre più grande intorno al cerchio incantato in cui lo spettatore può ancora vedere l’immagine dell’omino, Charlot che se ne va sparendo nella tenebra degli altri uomini. Miloš continuava a seguirlo con gli occhi finché poteva, inchiodato al suo posto dal sogno. Quando poi la nuca dello spettro diventava indistinguibile dalle altre che le camminavano accanto, Miloš iniziava a sentire come un’oppressione abissale lambirgli la cassa toracica, migliaia di atmosfere sul punto di sbriciolargli le costole e i polmoni e il cuore in marcescenza. Si portava allora ancora una volta tre dita contro lo sterno, cercando di raggiungere il cuore, per riportare indietro il fantasma sorridente, e per un momento quasi gli sembrava di rivederlo, il volto del clown fantasma, come in riflessione parziale contro il vetro di un finto finestrino di treno in corsa messo tra Miloš e la folla che se ne andava… Poi l’oppressione al petto finiva per strapparlo al sonno, ansante, la gola piena come di polvere, le lenzuola appiccicaticce di un orgasmo insensato e dolorosissimo che lo rattrappiva sul materasso come una pelle di serpente dopo la muta.
“Ho viaggiato nel tempo, e non ne ho cavato altro che un cuore sfiatato e quattro anni in meno di vita”.
***
“I medici son dei tali stronzi…”
Il suo cuore stava come dire appassendo. I cardiologi si limitavano ormai ad allargare le braccia come vecchi pupazzetti di legno e cordicelle. Appassiva, questa era la parola che usavano più spesso per cercare di spiegare ossia di descrivere il male cardiaco di Miloš.
Non gli si prestò granché attenzione nemmeno quando previde con esattezza il giorno dell’attentato degli Arlecchini alla stazione di Venezia: e lo previde, sì, salvo confondere i gli Arlecchini con l’altro gruppo terroristico dei Nerini, e Venezia con Verona. E del resto tanti altri prima di lui, in quei giorni, avevano fatto consimili e anche, alla prova dei fatti, più esatte previsioni delle sue, senza essere entrati come lui in scatole magiche di latta.
In questo come in altri casi simili, i falsi ricordi di Miloš erano dolorosamente nitidi: ricordava o credeva di ricordare, infatti, il primo piano di uno dei terroristi, il volto dissimulato dal tatuaggio nero totale col quale il gruppo dei Nerini usava dissimulare le fattezze dei componenti del suo braccio armato. L’uomo, ma poteva anche trattarsi di una donna – Miloš ricordava le interminabili discussioni su e giù per tutti gli strati e le assemblee dello Stato, dalle bettole alle televisioni a ciò che restava delle aule del governo, tutte avvitate su queste e altre inezie – si era ritrovato/a – volontariamente? per caso? – davanti all’unica telecamera di sorveglianza funzionante – perché solo le/ui? perché proprio le/ui? – il volto nero come cancellato dalla penna rabbiosa di un “bambino difficile”, avanzava assassinando chiunque si fosse trovato sulla sua strada – perché proprio quel giorno le forze dell’ordine erano in numero ridotto rispetto a quanto previsto da faldoni e faldoni di decreti, leggi, ordinanze regie, usi e costumi, regolamenti di condominio che ora l’uno ora l’altro ricordavano avvicendandosi in quella burrascosa e particolarmente demenziale fase del lutto che rampica caracollando lungo la verticale dell’ipotetico dell’irrealtà? –– sugli alberi, i pappagalli avevano imparato a ripetere tra loro le teorie di maggior successo, trasformando le parole in richiami di guerra o d’amore tanto più beffardi in quanto il pappagallo era ed ancora oggi è uno dei principali animali totemici dell’in ogni caso piuttosto gremito serraglio allegorico dei Nerini. Ma dai Nerini, in quei quattro anni, nemmeno un petardino. Era in questi e altri simili momenti che Miloš si chiedeva se quello in cui si trovava non fosse appunto uno di quei favoleggiati universi alla rovescia del cinema. Ma anche lo fosse stato, si diceva Miloš travolto da un pianto che forse solo l’architetto avrebbe potuto comprendere, questo nuovo mondo era talmente simile all’altro che nemmeno meritava star troppo a tormentarcisi.
Benché l’attentato degli Arlecchini si fosse svolto in un altro continente rispetto a quanto ricordava Miloš, e avesse fatto uso della criptorete ferroviaria “FIAT”, e fosse più da considerare un vasto sequestro o magari dirottamento, tutto il resto alla fin fine, a cominciare dalla fiera di reazioni e discussioni era pur sempre come Miloš lo ricordava: a dimostrazione che la Historia caracolla secondo meccanismi affatto occulti e imperscrutabili e in ogni caso più che mai arrugginiti e scassati, e che può esserne magistra tanto quanto un vagabondo ubriaco accoccolato su una panchina, filosofeggiava il meschinello, e nello stesso tempo, come tirati da orribili cordicelle, i suoi occhi dondolavano come quelli dell’architetto e per poco dalla sua gola impolverata un mantice stregato non faceva uscire la risata stridula del presidente quando Miloš si rendeva conto che quel vagabondo ubriaco non era altri che lui stesso, e che la cosa più probabile era che il viaggio gli avesse ripasticciato il cervello con annessi e connessi vari, come la volta che il famigerato e mai catturato hacker Epyure aveva sabotato uno degli archivi mnemonici Psyche® con danni irreversibili per gli utenti coinvolti, danni intorno ai quali per via di una serie interminata e labirintica di accordi di riservatezza tra nazioni e aziende non si poteva far altro che favoleggiare in modo variamente spaventoso o ridicolo, e ora che ci pensava non poteva essere tutto quanto, persino il primo incontro con l’architetto, nient’altro che un altro guasto alla sua (di Miloš) Psyche®? Col che Miloš avrebbe potuto sentirsi nuovamente accolto nel novero dei più, dato che com’è naturale consimili dubbi diciamo ontologici solevano perseguitare prima o poi e in varia misura presso che ogni utente di Psyche®, in ogni possibile variante che spaziava dall’un tantino melodrammatico sono-ossia-siamo-morto(/i)-ma-ven-go(/-iamo)-tenuto(/i)-in-vita-in-una-simulazione-psyche-per-una-ulteriore-gamma-di-motivi-che-a-propria-volta-spazia-etc. a più metafisici in-realtà-io-non-esisto-ma-sono-solo-il-risultato-di-un-mal-o-iper-funzionamento-di-un-programma-etc., una ramificazione infernale di binari di ipotesi che stringi stringi portavano poi tutte alla solita vecchia domanda “è questo un sogno?” Ramificazioni cui ora si sovrapponevano come in un milhauristofaunico ottetto d’archi anche gli/le sventurati/e tester/vittime di NITA™, il che non faceva che dar sale sulla piaga dell’imperfetto per non dire francamente bacato “studio” di Miloš della tradizione medievale del vario popolo di Sherwood, letalmente oscillante tra l’umano e il fatato talora (ossia nel medioevo), tra carne e transistor talaltra (nel tempo demente di Psyche® o Sherwood® o NITA™).
Poco prima dello scoccare del termine dei rivissuti quattro anni, invero, Miloš poté infine registrare ben pochi cambiamenti degni di nota rispetto al quartetto già in precedenza vissuto diciamo canonicamente: oltre ai bernoccoli e alle torte in faccia di cui s’è detto, alla malattia al cuore di cui ahilui si parlerà fino alla fine, a varia e variamente interpretata confusione riguardo fatti cosiddetti storici, alla completa sparizione dell’architetto laddove ossia laqquando Miloš avrebbe dovuto reincontrarlo (non lo vide al proprio risveglio sul treno verso Venezia, né come s’è detto lo trovò nel suo appartamento quando vi si intrufolò quello stesso giorno, calendario alla mano, in cui avrebbero dovuto incontrarsi), l’evento che forse più significativamente si discostò dalla vita precedente di Miloš avvenne sul posto di lavoro, in uno dei corridoi del terzo piano dell’ala est della fabbrica di giocattoli in cui Miloš era impiegato: piroettò scompostamente, quel giorno, acrobaticamente anzi, come pungolato da un invisibile violinista zingaro, tenendo con una mano un bicchiere di carta pieno di caffè, e per quella volta contrariamente alla gravitazione verso la gag e il pasticcio che lo perseguitava ogni qualvolta deviava dal tracciato non ne versò una goccia, di caffè, per quell’istante catturato in un invisibile nuovo binario di destini, intercettato finalmente in un nuovo e magari più autentico orrore: e tutto ciò per evitare di rovesciare detto caffè in petto al direttore della fabbrica che, Miloš per una volta aveva provvidenzialmente ricordato, proprio quel giorno quattro anni prima ossia quel giorno stesso del rivissuto quartetto svoltando si era scontrato con Miloš e il suo bicchiere: inzaccherandosi, il direttore, nel più trito e vorremmo dire checoviano degli incidenti di lavoro con un superiore: incidente cui nessuno in realtà, Miloš e direttore inclusi, aveva mai dato alcuna importanza: ma la memoria si attivò proprio in quell’istante, agendo bruscamente sul corpo di Miloš strattonandone i filamenti in una giravolta quanto mai inusitata per un impiegato di minimo calibro quale era Miloš, salvando la camicia del direttore e mandando infine a sbattere Miloš, quasi nottola intrappolata in una stanza, contro una porta senza numero né targhetta che nessuno apriva mai.
S’aprì.
Miloš, non ancora ripreso il controllo sul proprio corpo, lambendone poco più che i contorni come se l’anima piroettando fosse stata centrifugata all’estrema periferia del derma e per inerzia stesse ancora gassosamente rotando intorno all’invisibile nucleo planetario del corpo ora immobile di Miloš in piedi davanti alla stanza vuota, non fosse per un uomo seduto su una sedia di legno al centro della stanza, Miloš rimase sulla soglia.
Dalla finestra aperta si sentiva un vociare di bambini salire dal cortile di una scuola vicina.
– Chiedo scusa non––
Lo avresti detto una bambola a grandezza naturale, così immobile sulla sedia nel centro esatto della stanza, senza non dico una scrivania ma nemmeno un tavolino, una qualsiasi cosa che potesse dare un significato alla presenza di una persona in un ufficio vuoto, immobile come una bambola pornografica o più generalmente un automa, un manichino ecco, nel caso il porno voodoo non piaccia, un manichino di un negozio di abiti per impiegati in fabbriche di giocattoli.
– Come uno zombi.
No, non proprio come uno zombi, in realtà. No, c’era piuttosto quel che di appiccicosetto e lustro dell’oggetto fetish, appunto, roba porno, l’avevo detto, piaccia o no era così che appariva, una bambolina stregata da violare a proprio piacimento, eppure dàgli
– Uno zombi.
– Come dice?
– Uno zombi e una rondine, ma nessuno è mai riuscito a capire se la rondine––
– Non capisco.
– Nessuno capirà, cioè, cioè dovrebbe capire, ma non hanno ancora stampato––
– Chiedo scusa ma––
– È perché è una rondine-toro, ai bambini––
– Non capisco di cosa sta parlando.
– E il pierrot ha un becco nero al posto della bocca–– no, meglio un semplice clown di strada, il pierrot non––
– Io vado, non volevo interromperla. Buon––
– Non vuoi sentire la mia storia?
– A dire la verità dovrei––
– È per una carta.
– Dice per il mazzo da gioco?
– Lo Zombi e la Rondine.
La carta da gioco che l’uomo nella stanza (i due non si presentarono mai per nome, come fanno tutti i condannati che diventano, a dispetto della loro stessa volontà e coscienza e disperazione, amici) intendeva proporre alla fabbrica di giocattoli perché venisse inclusa in uno dei Mazzi Giovani Avventure presentava dunque due personaggi, assimilabili ad un personaggio singolo in quanto inseparabili – a meno naturalmente di non giocare la Carta Scisma che imponeva al giocatore il Riposizionamento della Carta nel caso la Carta Scisma venisse giocata dall’avversario, la Reduplicazione (ma al seguente turno di gioco la Morte) della carta nel caso lo Scisma venisse autoinflitto.
Poco o nulla si sapeva del modo in cui il clown aveva perso la vita, sebbene uno studio approfondito degli abiti e dei danni alla sua spina dorsale ––– Miloš non chiese mai in che modo i Giovani Avventurieri avrebbero mai potuto eseguire quegli esami, comunque sia laddove fossero stati condotti lo sconosciuto nuovo amico di Miloš assicurava che si sarebbe potuti risalire alla contemporanea e preterintenzionalmente omicida ovvero pagliaccicida quasi-morte per caduta di un certo diavolo volante caduto dal trapezio durante una sessione di prove nel circo in cui ambedue (il diavolo e il clown) lavoravano e atterrato appunto sulla schiena del malcapitato clown –––– era un vecchio trucco, quello di far sì che i personaggi dei Mazzi Giovani Avventure avessero degli uncini narrativi che potessero ingolosire i Giovani Avventurieri spingendoli a richiedere nuove Carte Narrative da affiancare al personaggio, in questo caso quella – ancora a livello di bozzetto, disse lo sconosciuto – appunto di un Acrobata, di nuovo una carta doppia dato che l’Acrobata ossia Ex-Acrobata teneva sempre con sé la propria figlia, una bambina di forse dieci anni che indossava a mo’ di paltò un frac liso e – lo sconosciuto doveva ancora decidere – appartenuto appunto al clown assassinato dall’Ex-Acrobata, frace che perciò–– era così che le carte e con loro le Avventure crescevano e si moltiplicavano, una cosa un po’ disgustosa in fondo quest’orgia ipertrofica di carte, come se la Regina di Cuori fosse stata fatta diventare la tenutaria di un bordello.
– Come tutti i Resuscitati, può essere Attivato solo dopo che un giocatore ha Posizionato la Carta del Giudizio–– ma lo sa che alcuni bambini nel cortile qui di fronte usano le nostre carte per predire il futuro?
Il nome da Resuscitato del clown è, del resto, Re dei Pappagalli: questo per via della Rondine-Toro che lo segue con un volo rasoterra bovina- e ridevole-mente lentissimo, rondine che per ragioni di fantaevoluzione ancora parimenti da determinare ha un piumaggio oltremodo variopinto alternato – questa Miloš non lo sapeva ma era una delle molte fisse del presto licenziato (e contestualmente ricoverato presso un certo Pio Istituto per la Salute e Salvezza della Mente) sconosciuto – a scaglie di rettile sottilissime e “variopinte come vetrate di cattedrale” – lo sconosciuto condivise allora con Miloš l’ulteriore sogno – follia sperar – che quella del Re dei Pappagalli fosse la prima di una serie di innovative Carte Giovani Avventure fatte in plastica trasparente attraverso cui potesse passare la luce, elettrica o naturale che fosse, colorandosi! La luce! –– e fu in quel momento esatto, mentre per la prima volta lo sconosciuto sorrideva nel descrivere queste fantastiche carte semitrasparenti, minute vetrate portatili di una cattedrale invisibile, ossia fu a quel primo incontestabile indizio che nella zucca dello sconosciuto stava germinando l’Irreparabile, fu lì, e succede più spesso di quanto non si creda ossia quasi sempre, cioè quando il Matto ci lancia la sua pernacchia da dietro l’iride di un estraneo, fu lì che Miloš sentì, tanti giri di parole ma è una cosa così semplice, sentì di volergli bene ecco, di volere bene alla sua sedia di paglia in mezzo all’ufficio vuoto in cui era stato dimenticato, e alla finestra da cui si sentivano le grida dei bambini che usavano i Mazzi Giovani Avventure per misteriose e celesti pratiche di cartomanzia.
– E potrebbero anche farne delle caramelline, delle sottili lastre di zucchero colorato… mniam mniam!…
E si era persino appoggiato cacciavitandolo avanti e indietro il dito indice contro una guancia cicciottella, significando delizia.
A giudicare dai bozzetti della Carta Giovani Avventure attualmente archiviati presso gli uffici del Pio Istituto per la Salute e la Salvezza della Psiche (o era la Mente?) di Waltzwaltz, la Rondine-Toro è grossa più o meno come un gatto selvatico. Due piccole corna nere le decorano il capo azzurro e giallo, e volando in linea rigorosamente parallela al terreno a poco più di un metro dal suolo la Rondine-Toro tiene costantemente gli occhi rivolti verso il basso, il côté bovino trascorrendo la propria esistenza perpetuamente atterrito dal proprio stesso volo, che per quanto sia un volo drasticamente represso rispetto alla furia paganinica delle traiettorie di una rondine regolamentare rimane per un toro un’esperienza intollerabilmente orrorifica – la creatura pertanto, che tutto il personale dell’Istituto avrebbe poi sbrigativamente rubricato sotto la voce di oltremodo dubbio valore scientifico “psicopatotemismo”, vive in una condizione di perpetua lotta interiore: l’orrore del Toro per il volo da una parte, la frustrazione della Rondine costretta a quel lento sgronzolio intorno alle spalle del Re dall’altra.
Anche al Re si riconoscono caratteri ibridi, che tuttavia non sembrano aver lasciato tracce nella sua psiche, del resto già abbondantemente menomata dalla sua condizione di revenant. L’ha detto all’inizio: si tratta di uno zombi, né più né meno. Il naso e la bocca sono sostituiti da un lungo becco nero, troppo lungo e sottile per essere considerato quello di un pappagallo, becco che ad ogni modo scende quasi a perpendicolo aderendo perciò all’estremità superiore del magro torace del Re-Clown. Gli occhi, naturalmente morti, sono di un nero talmente intenso che potrebbero altrettanto bene essere due orbite vuote, magari in attesa di essere riempite con gli occhi strappati alla creatura di un qualche altro giocatore – in versioni occulte e più spaventose del giocattolo, gli occhi completamente neri sono stati strappati dal Re-Clown alla Rondine-Toro, la quale dunque volerebbe in siffatto modo sia perché cieca, sia nella speranza che, una volta che il Re trovi nuovi occhi di cui impossessarsi, lei possa riottenere i propri.
La psicomachia che paralizza la Rondine-Toro si impaluda nel Re zombi in una sorta di versione cannibale e mutamente ferocissima dello Spaventapasseri di Oz, effetto rinforzato dal colore biondo acceso dei capelli del Re e dalla varia vegetazione che la marcescenza della carne ha in qualche modo nutrito e rinforzato, cosicché un’edera in fiore ha preso il posto del cuore del Re (“Anche se a dire la verità quello senza cuore era l’Uomo di Latta”, borbotta lo sconosciuto, trovando così in maniera del tutto inconsapevole il modo di nominare in una sola frase le due cose che più al momento ingombrano la testa di Miloš), e più giù dove ci si biforca quello che con un certo allarme Miloš riconobbe come un giovane tronco di pino aveva luogo di–– da quel piccolo tronco verde, il sorriso di cadavere orribilmente bagnato di luce lunare, il Re-Clown emette un seme infettivo con il quale contamina il terreno e ogni essere vivente che ci venga direttamente a contatto. Puah. Meglio passare all’agghiacciante gorgiera color avorio che circonda la testa troppo grossa del Clown come a preluderne la decapitazione. Quasi vegetalmente lenti anche i passi di esso Re dei Pappagalli, che procede capogattando qua e margottando di là, affondando precarie e velenose radicole nel terreno, forse nutrendosene, la Rondine-Toro descrivendo intorno ai suoi fianchi scarnificati lenti cerchi con le sue ali di serpente colorato.
Sul bordo di una strada cieca e bianca
Sette vecchie cornacchie
Svolazzano intorno a una scarpa rotta
E Adra. Miloš non ricordava se anche durante i quattro anni regolamentari avesse sentito fare quel nome: questa volta aveva continuato a guardare il servizio su di lui perché appunto una delle bambole trovate nel suo nascondiglio indonesiano e mostrata durante la trasmissione aveva una specie di becco nero proprio come il Re dei Pappagalli del Matto Senza Nome.
Le riprese per il Tour du monde en quatre-vingts jours costituiscono l’ultima apparizione ufficiale di Adra dietro la macchina da presa prima di scomparire dai radar e dare vita alla leggenda nera della sua parallela e infine, quasi infernale Atchafalaya in fagogitazione cannibale del Mississippi, esclusiva carriera cinematografica criminale e occulta ai più. Per la scena del salvataggio dal rogo della giovane vedova Auda, la troupe di Adra stava dunque facendo dei sopralluoghi nei lembi di giungla che si insinuano a Jakarta con i loro templi e i loro cunicoli sotterranei. In uno di questi sentieri che di colpo, dal cuore della metropoli, trasportano il viaggiatore in epoche preistoriche e persino preumane, Adra aveva incontrato il guaritore e stregone noto all’interno del proprio territorio con il nomignolo di Bapak Rolex (“Signor Rolex”, per via del sacchetto di plastica pieno di Rolex finti, tutti rotti, che portava sempre con sé e che nei momenti di noia cercava di aggiustare con uno dei coltelli da caccia o delle lame che teneva alla cintura), che da quel momento sarebbe diventato insieme ai coniugi Cheng uno dei più fedeli ed efferati assistenti del regista.
Bapak Rolex gli fece vedere come uccidere un pollo semplicemente tenendogli premuta la testa contro il terreno e picchiando per terra con un bastoncino vicino ai suoi occhi. Dopo la dimostrazione di magia nera, Bapak Rolex aveva offerto a Adra, per un compenso di un migliaio di dollari, di ripetere la stregoneria assassinando però, al posto di un pollo, un bambino.
Bapak Rolex sorrideva, circondato da bambini che gli giochettavano intorno. Ridevano, quieti, non si sa se per una forma di sacro terrore o perché non avevano mai conosciuto altra vita che nella tana di un orco.
La morte di innocenti indifesi aveva per Bapak Rolex la bellezza esilarante e tetra di un vecchio rondò.
Adra continuava a riprenderlo, indeciso se considerarlo un ciarlatano. Non era poi difficile mettere in scena una morte. Bapak Rolex non sembrava nemmeno accorgersi della presenza dei bambini che gli sciamavano attorno, vicinissimi, i suoi occhi color vomito fissi nell’obiettivo di Adra.
– Se vuoi posso anche infilare un bambino in un copertone, come un salvagente, e poi dargli fuoco.
Ora anche i bambini guardavano nell’obiettivo, come offrendosi a loro volta al film, bisticciando e spingendosi. Due di loro tenevano in mano delle specie di bamboline voodoo, con il becco nero, ed era stato appunto per quel becco nero che Miloš non aveva cambiato canale. Fino a lì, non poteva giurare di non aver visto quello stesso servizio quattro anni prima, ma se guardò anche quello che seguì fu soltanto per i sottili becchi di pappagallo nero delle bambole.
Gli autori del servizio erano riusciti a mettere le mani su quel chiamiamolo documento seminale del cinema invisibile di Adra, insieme ad altri lacerti di filmato più o meno di pubblico dominio, diffusi anni addietro dagli alti gradi dell’Exército Nacional Português in occasione della prima inchiesta a carico del cineasta in seguito al ritrovamento in una discarica dei resti di un attore e una comparsa del film A colônia penal.
Come Adra avrebbe scoperto più tardi, i bambini che circondavano Bapak Rolex non erano in realtà materiale per, come chiamarlo?, turismo sacrificale: erano una banda di aiutanti che gli serviva per procurarsi le vittime. Gli aiutanti di Bapak Rolex perlustravano quieti e randagi i cortili dei bambini, ed era difficile resistere alla loro chiamata, specie per chi veniva lasciato solo dagli altri. Alcuni dei bambini catturati avevano anche finito, per motivi del tutto casuali, per diventare parte della banda invece che essere immolati. Gli aiutanti di Bapak Rolex sorridevano quando ti prendevano per mano e ti chiedevano di andare a giocare con loro. Quasi nessuno resisteva al loro dolce invito.
Lo spezzone successivo si apriva sulla sala da pranzo di due vecchie signore. Una delle due era seduta al pianoforte e suonava una specie di mieloso notturno, mentre l’altra, le unghie rossissime e affilatissime, artigliava lentamente l’aria davanti a sé come stesse scorticando una bambola invisibile. Ad un certo punto, gli autori del servizio avevano interrotto con un fermo immagine un movimento della cinepresa: in uno specchio alle spalle delle due signore, si indovinava in quel momento la figura di un uomo grassoccio, il volto coperto da una mascherina sanitaria, in piedi accanto a un cavalletto con cinepresa. Adra si presentava in pubblico quasi sempre così, e le sue foto a volto scoperto erano rarissime, e nessuna di esse risalente a meno di vent’anni prima.
Alcuni indizi ancora al vaglio delle autorità e pertanto secretati, spiegava la voce narrante del servizio, sembravano suggerire che il locale dello spezzone successivo fosse adiacente all’appartamento delle due signore. Sotto un paio di volte a crociera di cemento, era ospitato quello che sembrava un laboratorio medico. Un gruppo di persone era affaccendato intorno a un tavolo operatorio. Un giovane mediorientale in mutande e accappatoio si massaggiava le braccia e il torace, come se si stesse preparando a una qualche performance atletica. Alcune persone in camice bianco stavano trafficando tra gli armadietti di medicinali e i macchinari. Un’altra persona, di spalle, stava controllando delle luci. Preparavano il set per una scena. Poi entrò un uomo con un carrello su cui erano ordinatamente disposte alcune siringhe.
Era l’architetto.
Dopo aver sistemato le siringhe accanto al tavolo operatorio, uscì per dove era entrato e ne tornò portando con sé, tenendola sottobraccio, una ragazza in costume da bagno truccata e acconciata da sera. Il filmato si interruppe nel momento in cui la ragazza venne fatta girare di spalle davanti alla cinepresa, in piedi accanto al tavolo operatorio. Il resto del filmato era, come ogni materiale di quel tipo prodotto da Adra, sotto sequestro.
Prima ancora che il volto della ragazza venisse messo a fuoco al momento del suo ingresso, e forse già nel momento in cui l’architetto era uscito dalla stanza per andarla a prendere, Miloš aveva sentito un antico implacabile calore liquefargli le ampolle degli occhi, e in fondo alla gola il cuore flaccido e annerito tentare disperatamente se non un grido almeno un rantolo, un gorgoglio…
Le dita di una mano convulsamente premute contro lo sterno, l’altra a coprirsi la bocca che non si sapeva come sembrava anche lei piena di lacrime, Miloš fissava atterrito la nuca perfettamente pettinata della ragazza in costume da bagno, e accanto a lei l’architetto, congelati come tutti gli altri nel fermo immagine che ora pareva aver contagiato anche Miloš, vetrificato dalla disperazione di qua dallo schermo, morto, si sarebbe detto, non fosse stato per il pianto che finalmente cominciava a sciogliersi.
[continua l’11 aprile]