Un’intensa dialettica si presenta tra GIPSI e Giovane Intellettualità Metropolitana Italiana di Sinistra (GIMSI) fin dalle frequentazioni nei grandi centri di raccolta e bullicame dell’università frequentata extra-moenia. Per continuare, più sporadico, attraverso corsi, amicizie telematiche, 25 aprile etc. Alle discussioni nei caffè all’aperto, o nei sotterranei di facoltà, non sarà difficile individuare la GIPSI: lievemente trattenuta nella parola in ampia società, quasi del tutto aliena da sfumature giovanilistiche o trucide nel linguaggio, un poco rigida nei movimenti. Un complesso di superiorità-inferiorità corre come prurito, inamida le camicie. Una discrezione che comporta attorno alla GIPSI il moltiplicarsi delle barriere, approfondisce le distanze, e contemporaneamente produce una spinta interiore a travolgerle e ridurle nello scambio esistenziale profondo e di prossimità. Calata in un vestiario mai trasandato, vistoso o eccentrico. La GIPSI diffida del linguaggio GIMSI, ne invidia l’agio nel gesto e nel pensiero. Percepisce un diverso percorso, infine non si scambierebbe mai con l’interlocutore metropolitano. Il limite è la differenza. La meno vasta e variegata offerta culturale e di lavoro culturale, la minor possibilità di confronto e incontro con diverse sfumature antropologiche hanno ristretto il campo della GIPSI, quasi si trovasse di fronte a una serie di muri ciechi. Ha cominciato a scavare. Dunque la GIMSI si estende in orizzontalità per i mille attraversamenti della metropoli; la GIPSI, in ciascun suo rappresentante e negli scambi interpersonali, si propone come verticalità, per necessità e virtù.
Il canone estetico GIPSI risulterà dunque più ristretto e selettivo, nel tempo e nello spazio, verso l’alto e il basso, rispetto a quello della coeva GIMSI. Difficile, per esempio, che la GIPSI perda la testa per i generi. Pur approfondendoli, magari anche in modo molto sistematico, li ricomprende poi in una gerarchia occhieggiata dall’alto da più alti autori. Ancora: la GIPSI dispone di un’inferiore possibilità, e propensione, per lavoretti di vario genere e quindi, avendo meno soldi in tasca, coltiva la conseguente abitudine a tagliare la musica o i film superflui. Più lenta a cogliere lo shock del nuovo, il suo lungo ruminarci sopra non prenderà facilmente lucciole per lanterne, bidoni di moda critica o di tam tam (che è sorvegliato e fidatissimo), la sua approvazione della novità arriverà, se arriva, con qualche ritardo, quando altrove già si parla d’altro. Le linee di fuga vanno in moviola, le grandi passioni si rapportano e ricomprendono sempre nel canone allestito con tanto dedito scavo; e sarà per sempre. Tra il gioco e il dramma la scelta è dura, che sono entrambi armi contro la P e mezzi di dissoluzione di sé; così per la BDN in quegli anni tra l’irruzione di Tarantino e il maturare di Kieślowski ci fu tortura e impossibile ricomposizione: alla fine, fors’anche per il loro naturale eurocentrismo, optarono per il secondo, soddisfatti poi che il tempo gli abbia dato ragione.
Si diceva che oggettivamente la GIPSI si muove in un panorama antropologico limitato, da essa anzi definito lombrosiano. Quindi, ancora, il suo trovarsi all’angolo più che al centro del quadrato le consente di guardare bene in faccia avversari e pubblico, distinguendo con poche occhiate il grano dal loglio, ma con il rischio di cadere in una censura preventiva che fa perdere qualche occasione feconda di confronto e di crescita. Ciò non turba la GIPSI, che è meno democratica, più elitaria ed anche classista della GIMSI. Nel gruppo non girerà la fideolibertaria, l’autodidatta entusiasta ed evanescente, l’ecoterrorista, l’astrologa Jungiana e nomadica, il guerrigliero, l’ex, ex di qualcos’altro; non si daranno insomma né sincretismi azzardati né dialogo tra le cosiddette molte anime della sinistra.
Dunque da una parte l’identità pseudogranitica della maggioranza provinciale, imprenditora e territoriale, puntellata dalla tradizione cattolica, dall’altra quella dispersiva, se non dispersa, e centripeta della GIMSI; appiccicata al soffitto come un ragnetto la dubbiosa ma resistente essenza GIPSI. Che si esplica, rispetto a tale scomoda ubicazione, nella battaglia alla temporalità. Uno sguscio continuo alla conquista di nicchie personali e umane di tempo per sé, in mezzo alle costrizioni dei doveri, al turbinare del presente. Un lumino di silenzio votivo. Fino ai confini brumosi della noia, così costitutiva del pensiero GIPSI. Lande indomenicate, pomeriggi piovosi, corridoi ondulanti nel tedio, marin-nannimorettiano. La noia della GIMSI si risolve viceversa in stimoli, attimi bruciati in spazio. Un salto alla Mostra, la palestra, poi molte telefonate, per riposarsi da un esame una settimana di montagna. Così il tempo sottratto al gran Cerbero risulterà raramente libero, perché organizzato in una serie di minute articolazioni macchiniche; fino alla nevrosi che ritaglia e accende i quarti d’ora di cui si riveste attorno alla tessera bianca: arlecchino di Picasso dall’occhio vuoto.
Di qui lo studio più concentrato e disteso nella GIPSI, le percezioni del notevole più distanziate una dall’altra e quindi più profonde, macerate nel laghetto della noia. La GIPSI potrà meglio apprezzare un Glauco Mauri integrale, ritenuto barbosissimo dalla GIMSI, piuttosto che un frammento body splatter con il cuore che batte sul palcoscenico insieme ad altre frattaglie, gli schizzi di sangue come lancette.
Qualche appunto linguistico ora. Poiché, non andrebbe nemmeno specificato, lingua e linguaggio sono fattori primari d’inclusione ed esclusione per ogni gruppo. Quindi, se nella GIPSI si entra per titoli ed esami e se ne esce per smagliamento, come in un imbuto rovesciato, la prima maschera da provare se sta a pelle, e da strapparsi con naturalezza o sfiguramenti, è certamente linguistica.
Innanzitutto la GISPI fa uso della lingua nazionale in ogni ambito. Agendo con consapevole determinazione sul nesso autostradale-commerciale che, portando la provincia direttamente all’estero, salda dialetto e inglese. Con il salto dell’intermediazione della lingua italiana che nelle zone della presente ricerca assume un allusivo ma preciso senso politico-territoriale: il sangue e la terra, la globalizzazione dei mercati. Il dialetto, che la GIPSI sente parlato in casa o dai nonni, e comunque apprende per virus all’orecchio che solca a sciami compatti l’aria di provincia, ha su di essa vera forza repellente. La GIPSI fugge il contagio in primo luogo della pronuncia e della cadenza dialettale, fiore in bocca che corrompe, con immediata sineddoche, il corpo del parlante, riducendolo a morto vivente. Dei propri su tutti ma anche dell’amata Bianca Berlinguer, quando al TG3 esprime un “penziero, disciamo, da Cubba a Freggene” con grave danno dell’ortografia fonetica.
La GIPSI marca la differenza linguistica in una dolorosa quanto necessaria autoesclusione, a cominciare dalla famiglia, proseguendo con i parlanti genuini o i ruffiani che cercano d’invescare l’interlocutore sul medesimo terreno d’appartenenza, etnico e politico: “Capisci il Bergamasco?” (ma domandato nella medesima orrida favella). Questo rappresenta il primo passo per attirarsi gli odi della truppa concreta verso l’intellettuale snob, che usa la lingua del libro, della politica fumosa ladra e lontana, in sostanza dell’inutile. Laddove la lingua performativa del cantiere e quella comunitaria dell’osteria è dialettale (nell’anima se non più in pieno nella veste). Se, ancora, la GIPSI, tollera quella parlata nelle vecchie generazioni con l’affetto per un bon mot parentale o per una citazione efficace, quando diventa spudorato segno dell’arroganza del basso, o il compiacimento identitario di coetanei e adolescenti, scatta il bombardamento. Ciò fa della GIPSI, in campo scolastico, un’accademia della Crusca con sfumature paranoico-nazi.
Se il dialetto si radica nella provincia d’appartenenza e la lingua nazionale si libra nella Firenze del passato e del mito, deposito della buona lingua (Santa Croce arca di favelle, corretta ricchezza del parlato a più strati di popolo, manzoniano), l’inglese fa il paio con Londra. Che presso i coetanei della GIPSI ha sostituito l’India quale patria iniziatica della libertà. L’illusione della lontananza e della metropoli quali forme spaziali dell’affermazione scomposta dell’io (ridotto a: “A Londra si può scendere al supermercato in vestaglia e nessuno ci fa caso”). La serietà del limite viene irrisa. Inoltre le molteplici fascinazioni musicali della capitale d’Europa, per connesso ragionamento, risultano insignificanti considerata la formazione GIPSI. L’inglese resta allora la lingua del capitale circolante, della merce e dei lavoratori circolanti, dell’informatica e della banca, del lavoretto ai grandi magazzini e del pub; s’affaccia ovunque nella sua minacciosa indispensabilità tra le righe delle offerte di lavoro. Ciò che si vuole indispensabile diviene sempre fonte di ansia e di terrore, lo scudo GIPSI nei curriculum suona: inglese in corso di perfezionamento. La prepotente invasione linguistica s’insinua perfino tra le sacre pagine dei dizionari, dove “pony express”, “pool”, “pop” (“corn”, “art”) stringono in una morsa il ben più edificante “ponzare”.
L’Europa americosassone si riversa come alluvione del meraviglioso, e nel contempo si raggela, in provincia, nei cartelloni dei cinema, nella pubblicità e nel linguaggio dei giornali locali, specie settore politica e sport, orrendamente ricettivi, nei titoli sulle brochures e sulle insegne di bottega, nel parlato milanesizzato dei “must” sulle labbra degli omarini in giacca. E la sensazione di una lingua depauperata dalla funzione ragionativa-discorsiva e da quella estetica. I grandi parlatori della GIPSI, indagatori del mondo e ascoltatori compiaciuti di se medesimi, considerano l’angustia espressiva della P causa ed effetto del riduzionismo esistenziale e politico, dell’inspessimento della sensibilità (amore e arte) in callo. Per contrasto la GIPSI allarga lo spettro della lingua attraverso le varietà sincroniche dei propri studi (medicina o scienze o arte) e meno della GIMSI dei gerghi, risale, se può, attraverso la storia alle radici toscane, dantesche.