Chiunque entri in un’aula scolastica per insegnare conosce per esperienza quanto gli elementi materiali che definiscono questa attività possano renderla anonima: i programmi e i libri di testo sono i limiti contro cui si dirige ogni giorno lo sforzo quotidiano di chi cerca di capire qualcosa. E tuttavia questi limiti definiscono, nel bene e nel male, anche una rappresentazione del sapere che introduce nella relazione fra docenti e allievi l’elemento da discutere, la cui natura argina il rischio – oggi non più così raro – che i due soggetti della relazione finiscano per parlare solo di sé. Quando ci si trova a insegnare agli adulti, le discussioni sulla definizione del sapere si fanno più rigide; se si tratta di insegnare italiano agli adulti di altri paesi, come narra Alessandro Gazzoli in Estranei. Un anno in una scuola per stranieri (Nottetempo, 2024) le cose si complicano ulteriormente.
Originario di Edolo in Val Camonica, Gazzoli, dopo il dottorato di ricerca, il TFA e l’ingresso in ruolo alle scuole medie, per una serie di circostanze che racconta nel libro finisce a Cles, il capoluogo della Val di Non in Trentino, la terra delle mele (più della metà delle mele prodotte in Italia proviene dal Trentino Alto Adige, la Val di Non vanta una produzione certificata DOP). E finisce in un EDA, ossia un Centro per l’Educazione degli Adulti, che nella quasi totalità dei casi significa adulti stranieri (Pakistan, India, Ucraina, Marocco).
In questa sede la stessa idea di scuola, oltre che di sapere, viene quotidianamente messa in dubbio. Raramente gli studenti frequentano i corsi per ragioni personali, i più sono indotti o dalla famiglia, o da necessità imposte dall’esterno, ad esempio dall’Agenzia del Lavoro che per consentire di accedere alle misure di sostegno al reddito impone un “patto” che implica un tentativo di alfabetizzazione. Altri partecipano perché vogliono chiedere asilo politico; pochi lo fanno per lo studio. Si definisce così un ventaglio di motivazioni che non è mai completo, e che talvolta manca dei presupposti fondamentali. Del resto, come scrive Gazzoli, conoscere la lingua e la cucina non significa volere adeguarsi a una cultura. Alcuni concepiscono il periodo italiano come un momento di passaggio, perciò nell’apprendimento non investono grandi risorse affettive. Vale la pena di ricordare che il livello B1 è richiesto per la domanda di cittadinanza, come pure per la licenza media.
Gazzoli racconta con un tono misurato che si apprezza fin dalle prime righe, quelle dello scontro frontale di opinioni con una studentessa, preludio a un conflitto in aula che poi invece, comprensibilmente, si attenua.
Del resto, gli scontri sono inevitabili: c’è chi inneggia a Hitler e chi sostiene che il Premio Nobel Malala Yousafzai sia un’agente sotto copertura «infiltrata per distruggere la vita delle donne». In tanti casi non c’è alcuna volontà di dialogo: «Questo mia idea», risponde al narratore la studentessa che non intende minimamente discutere. Le sequenze del primo incontro in classe con la necessità di un riconoscimento reciproco richiamano altre vicende raccontate in anni recenti – penso ad alcuni libri di Eraldo Affinati – ma in questa circostanza, trattandosi non di adolescenti ma di adulti, assumono un carattere più cupo perché la nozione di futuro che ciascun individuo porta con sé appare gravemente condizionata, se non compromessa. Il presente degli studenti e delle studentesse nella maggior parte dei casi è complicato da questioni lavorative (regolari o meno) e da quelle familiari, dalla gestione dei figli, dai rapporti non sempre facili col marito, oppure ancora dal timore di un matrimonio forzato. Di rado alle studentesse adulte l’alfabetizzazione in italiano sembra aprire scenari apprezzabili.
Il narratore si muove in mezzo a queste difficoltà: infaticabile e solo, con l’unico bagaglio delle sue doti personali. In effetti, si trova a incoraggiare l’apprendimento da parte di persone che talvolta non riconoscono le sue conoscenze e che presentano soprattutto istanze materiali inderogabili (certificati, arrivo improvviso dei parenti, problemi col cellulare, gravidanze). Nel caleidoscopio di prospettive suscitate da richieste che si aprono su fronti diversi, l’insegnante è solo anche nelle considerazioni sui principi fondamentali, perfino nella riflessione sui diritti umani, che agli studenti sembrano – come in parte storicamente sono – una costruzione occidentale. Gazzoli esprime il tormento di chi dubita che lo sguardo occidentale dei «difensori della democrazia, dei diritti dell’uomo delle conquiste sociali, della sostenibilità globale» sugli «apostoli dei dannati da salvare» come Malala, Naval’nyj, Ai Waiwei dipenda dal favore con cui riconosce le nostre idee nelle loro.
In questo contesto, tutte le grandi questioni ritornano con urgenza. Si potrebbe riflettere se a contare debbano essere i principi o la coerenza con cui si seguono, che piace ai corsisti i quali però spesso interpretano nella tolleranza un segnale di debolezza e apprezzano invece paradossalmente i più rigidi difensori dei confini degli stati. Ma se la coerenza con cui si seguono i principi fondamentali è in questione, non lo sono di per sé i principi stessi; semmai questa minor coerenza indebolisce la coesione del corpo sociale, il riconoscimento dei beni comuni. E così, se da una parte piace la coerenza, dall’altra si fa strada il pregiudizio per cui la colpa sarebbe sempre dell’altro, come nell’intervista dello storico Roj Medvedev, (citata a p. 94), che stordisce il narratore e che giudica il frutto amaro del tentativo di adozione della democrazia da parte di Eltsin dalla presunta disapprovazione dell’Occidente (come se la bontà di un ordinamento democratico dipendesse dal consenso esterno).
In un’altra occasione il narratore non nasconde il suo smarrimento quando sente di rappresentare agli occhi dei corsisti «un continente in declino, senza nerbo, in dissoluzione irreversibile perché abbarbicato a difendere valori retorici – e teorici – come la libertà di parola, il diritto delle donne a non stare coi figli piccoli, il sesso fuori del matrimonio, le unioni omosessuali, il disinteresse verso ogni forma di culto». In questo caso, nel capitolo intitolato Dio, l’impresa impossibile è quella di spiegare a devoti per cui «esiste una sola religione» il processo di secolarizzazione che ha ridotto l’interrogativo su Dio non all’interpretazione dell’intera realtà ma a una semplice – per quanto fondamentale – questione religiosa.
Per un altro paradosso, i programmi e i libri, ossia i limiti di quel qualcosa di cui dobbiamo parlare per costruire un discorso comune, quasi scompaiono quando non comportano evidenti frizioni, come davanti alle tecnologie digitali, che pure derivano anch’esse da una tradizione scientifica risalente almeno agli studi fisici di Maxwell nel secondo Ottocento. Ma questo aspetto rivela che la contestazione è meno profonda di quanto non sembri, che è legata soprattutto alle questioni dove gli affetti sono più scopertamente in gioco, e testimonia che i principali timori suscitati da un ambiente sconosciuto sono appunto volti a tutelare questi affetti: in apparenza, il credo, i rapporti amorosi e le relazioni familiari non sembrano minacciati dalla tecnologia. Il narratore di Gazzoli è un insegnante sobrio e pensoso, pronto a seguire le esperienze degli studenti con partecipazione, mantenendo però una fisionomia riconoscibile e un’opinione personale che sa trovare lo spazio per esprimersi. Non interviene come un deus ex machina, né ritiene di poter incidere in termini salvifici sulle prospettive dei suoi studenti, al di là di ciò che svolge in classe: è un insegnante amato, come dimostrano gli omaggi di cui è fatto oggetto. Non pretende di semplificare ciò che semplice non è. Il libro offre le pagine migliori nelle vicende dei corsisti, come quelle di Priti, convinta dopo varie esitazioni a fissare l’appuntamento al Consultorio per parlare degli abusi in famiglia e del progetto del matrimonio forzato. Il giorno previsto non si presenta a scuola: le compagne credono stia andando all’incontro, ma non è così. Messaggi, telefonate, smarrimento di lei di fronte al labirinto della struttura ospedaliera dove si trova disorientata: deve recarsi in un posto dal nome impronunciabile, il «reparto ex-geriatrico», nuova sede del Consultorio.