I cieli piovosi di Parigi, la Senna magari a ritroso fino alla campagna, certe portinerie e un ufficio di polizia: queste le atmosfere di Simenon perché di Maigret. Ormai da tempo, specie con la pubblicazione di Adelphi, dei cosiddetti romanzi duri, lo sguardo si è ampliato a plaghe diverse come vecchie magioni della provincia o coste della Bretagna; ma anche molto oltre. Esiste infatti un Simenon dell’oltremare, per non parlare di quello ancora diverso dell’esperienza nordamericana, che vale la pena di inquadrare a partire dal recente Il primogenito dei Ferchaux. Uno dei non molti romanzi che eccede la misura canonica ed aurea di Simenon e degli ancor meno che presentano una nota dell’autore: vi si spiega la vicenda, reinterpretata letterariamente, di Dieudonné Ferchaux, leggendario self-made man tra Otto e Novecento delle colonie francesi tra il fiume Ubanghi e il Congo. Colto però nel momento della caduta, quando comincia un processo per aver ucciso vent’anni prima tre indigeni con una cartuccia di tritolo, mentre vengono a galla numerose irregolarità su conti e tasse nel commercio del caucciù, dell’olio di palma etc. L’uomo, che dopo trent’anni era tornato in Francia per difendersi, si dà alla fuga un attimo prima dell’arresto insieme al suo giovane segretario e alla di lui moglie.
Viene alla mente un altro grosso romanzo, Cargo, protagonisti due giovani anarchici che lasciano precipitosamente la Francia dopo un delitto e s’imbarcano su una nave che trasporta armi e accettano poi lo sbarco in Colombia e un lavoro nella foresta. Clima invivibile dove per “resistere bisognava vivere al rallentatore, calcolare ogni minimo gesto”, solitudine e follia, sfruttamento delle risorse indigene e malattie, rottura dei legami: tale il volto della colonia, simile a quello che hanno tracciato Conrad in Cuore di tenebra o Céline in Viaggio al termine della notte. La moglie Lina dice a Michel: “Erano in casa loro, quegli uomini”, riferendosi agli indigeni uccisi, e lui risponde: “A sentir te, non si sarebbe dovuto nemmeno colonizzare l’Africa”; il narratore esterno, come l’autore, non prende posizione, ma sposta prudentemente l’ambientazione dai possedimenti francesi al Sud America. Il terzetto del cargo (si è aggiunto il comandante come amante della ragazza) e, nella seconda parte del Primogenito, la coppia (la moglie è stata lasciata indietro) finiscono a Panama, scoprendo un secondo volto dell’oltremare. Luogo più confortevole e più losco, tra déraciné cinici e malavitosi, “piccoli magnaccia e trafficoni” che aspettano come parassiti lo scalo dai ricchi yacht per vendere magari teste mummificate di indiani javari.
Un esotismo ancora diverso è quello del Medio Oriente, legato al grande (o piccolo, visto il calibro dei personaggi) gioco della politica, ad antichi splendori in morbida decadenza, fatto da funzionari d’ambasciata, avventuriere, relitti che non riescono più a schiodarsi dalla paralisi levantina: “Aveva bisogno anche lei del rollio indolente dei caicchi sul Bosforo, del chiaro di luna al cimitero di Eyüp, dei tramonti purpurei sul Corno d’Oro…” (I clienti di Avrenos).
Più vicino a certa sensibilità contemporanea è Turista da banane, in cui un giovane francese approda a Tahiti per inseguire un sogno palingenetico e gaugeniano in una capanna, “con l’idea di vivere a contatto con la natura, lontano dal mondo, in un posto dove i soldi non servono e ci si può nutrire di banane e noci di cocco”. Ovviamente “Donadieu si sentiva disorientato come mai lo era stato in tutta la sua vita. Letteralmente spaesato. E lo scenario non assomigliava a niente che avesse mai visto o immaginato prima di quel momento”; ma con testarda determinazione il giovane rifiuterà di mollare come “un boy scout a pochi chilometri dal centro abitato”. In Hotel del ritorno alla natura, ugualmente del 1938, si contendono un’isola delle Galapagos, con esiti tragici e grotteschi, uno studioso misantropo e naturista e una immiserita quanto altera contessa con progetti turistici. E infine, quasi fuori dalla porta, Porquerolles, frequentata a lungo da Simenon, che porta un medico vandeano a tornarci ostinatamente nonostante il caldo, il cielo accecante, l’ostilità un po’ beffarda degli abitanti. Addirittura Madié prende accordi per rilevare lo studio del medico locale in opposizione alla solida casa di famiglia, le tradizioni, la chiesa e gli amici d’infanzia, la presenza incombente della madre. Solo nel tracollo finale capirà quanto era rimasto oscuro anche a lui, la storia d’amore, e di morte, concretizzata in una giovane visone femminile, in un destino.
Tornando al Primogenito lo si può interpretare come il passaggio dal brutale e titanico colonialismo di Ferchaux, miliardario che vive nel modo più modesto pascendosi solo della propria superiore forza individuale, alla bella vita del turista da yacht a cui aspira Michel: sfumare dall’età dei gattopardi a quella degli sciacalli, per dirla con il barone di Salina. Detto altrimenti dal dominatore delle foreste al turista spolpatore di ciò che resta. Comunque l’oltremare è il luogo dove si fanno i conti in profondità con se stessi, disvelando il proprio destino: lo è stato per il grande Ferchaux d’Africa e per la sua versione infragilita di Panama, lo è per il vero protagonista Michel, un Dieudonné giovane, ma nervoso, contraddittorio e scaltro, sempre intento a osservarsi negli specchi di bar e camere d’albergo. Simenon scende via via nella profondità psicologica dei personaggi, mettendone in scena i rapporti sempre mutevoli, e dunque a volte enigmatici. Dieudonné agli occhi del segretario è ora un modello che lo schiaccia per lucidità, anticonformismo, voglia di battersi contro tutti, ora uno sciocco che non sa godersi la vita, un folle, infine un vecchio impaurito dalla solitudine. E Michel da Parigi a Caen, da Dunquerque a Panama, “non era più il ragazzino teso e violento delle settimane precedenti. Stava nascendo un altro individuo, fatto di una materia più dura e più fredda”. Soprattutto la sua caratteristica è “l’aria famelica” di chi tutto assimila (“le va tutto bene, vero? Qualsiasi cosa l’attira, una femmina nuda, un negro che sbraita, la musica in un caffè…”), distrugge e lascia alle spalle: “erano le cose a staccarsi bruscamente da lui”. Su questi vorticosi abissi del cuore umano si affaccia ancora una volta Simenon.