
È naturale espressione della sanità e della gagliardia nell’uomo lo svegliarsi lancia in resta. Fortuna ed abilità sua sono pure di aver accanto una donna, meglio se novella amante. Così m’accadde allorché a dodici ore, ben ristorato delle veglie notturne, del tavolo di cena e di quello di gioco, riapersi gli occhi sulla realtà sensibile della camera; i pesanti cortinaggi a fatica frenavano le cascate della luce primaverile. Voltatomi sul fianco cominciai a pizzicar le carni molli di Giustina che, già mezza desta, fingeva ancor di ristare nel sonno e si schermiva vezzosamente con voce acuta. Ridendo, eppur intollerante d’altri indugi, buttai di lato lenzuoli e copriletto, e quindi, pascendomi della donna tutt’intera, appena dorata come pane dalla luce filtrante, mi buttai su di lei. Volendo sbrigarmi per passar oltre a divorar la giornata, fui tuttavia trattenuto tra le braccia e le gambe sussultanti tanto da dover spendere una buona mezz’ora di sopra e di sotto, così che si riempì la casa degli allegri trilli del mattino.
Una giovane fante, nipote di colei che aveva dovuto raggiunger nell’entroterra la sorella gravemente malata, portò cioccolata e caffè sul vassoio lucente dove si specchiavano leggerissime le tazze e pronte a riempirsi del flutto bruno e bollente che ravviva gli spiriti. Servii compitamente l’amante in camicia. Ancor tuttavia assediato da plebea fame scesi quindi al piano di sotto, dopo aver lasciato alla complicata toletta Giustina, che esortai a rendere il più possibile celere. Nella cucina la giovane, rossa nelle gote per il gran daffare che la zia le aveva raccomandato, volteggiava tra le correnti delle finestre spalancate sul canale. Poiché la posizione ed i movimenti dei lavori domestici paiono così perfidi suggeritori della meccanica d’amore, subito alzai il sipario su questa nuova rappresentazione; portandomi con una mano della carne fredda alla bocca, prodigiosamente con la mancina ora affondavo tra le grosse mammelle, ora, scacciato, indicavo al mio bambino la strada su cui farsi grande. Con un po’ di rudezza sforzai la ragazza che, del resto, dovette subire un attacco piuttosto breve: la mia bocca esalò il respiro, mozzo ed unto per l’arrosto, sulla nuca curva ed incordata di sudore piuttosto presto, come mi capita spesso con una serva di primo tocco. Ricomposto e sazio volai di sopra per sollecitare l’amica ad uscire.
Pietro faceva scivolare sollecita la gondola tra i palazzi colorati e il cielo della città ancora mia; accomodato di lungo sorbivo, quasi fosse la prima volta da sempre, l’aria e l’odore del mare, il movimento con Giustina accanto. Via via che ci si faceva verso San Marco, pur restando a costeggiare per vie minori, l’affollamento sui ponti e nelle calli intraviste aumentava, e così tra le barche sull’acqua. Voci e schiamazzi familiari, sfioramenti delle carene, principi d’alterchi: chi sa se qualcuno già mi riconosceva? Eccitato dalla vita circostante e dagli sguardi di uomini e donne guidai la mano di Giustina sotto alla lieve copertura che ci difendeva dall’aria ancora tagliente; quando diedi improvvisamente l’alto a Pietro, e lo scafo colpì il palo d’attracco, il delicato ed olezzante fazzoletto di batista si riempì d’una vigorosa soffiata, e l’amante, trattolo alla luce folleggiante, lo gettò come un fiocco candido sull’acqua. Lì baciandola la sbarcai per attendere ai miei affari.
Fu cosa d’un momento confondermi tra la gente, voltare in una contrada ombrosa e offrire i miei servigi alla Repubblica. Il pensiero era già andato, l’azione pensata in precedenza come nemmeno mai compiuta, contava ora solo rimettere calcagni e animo in mezzo agli elementi sensibili della città.
Sfogato un poco il tumulto degli affetti con il camminare a caso e vigorosamente per le calli, venne il tempo per esercitare il genio dell’osservazione. Sedendo sulla panca del campo il sole pungeva direttamente sul viso e sole io stesso comandai e giudicai i passanti che giravano attorno a guisa di minuscoli e disordinati satelliti. Passò tra le molte popolane una giovane, appena uscita dalla fanciullezza, graziosa, sudicia e con sulle spalle una gerletta di verdura; gli occhi scuri e infantili, la parola scherzosa che lanciò nella lingua natia ad alcuni coetanei mi spinsero ad abbandonare la mia panca e a seguirla. Quando scomparve nell’osteria feci qualche giro attorno e poi entrai a mia volta. L’interno era buio ed umido, animato da alcuni rozzi avventori; appena vidi la padrona capii che era femmina lesta e scaltrita. Dopo pochi minuti e non molti denari ero in un magazzino dietro la cucina ad attendere la fanciulla: spinta all’interno, e troppo sommariamente istruita, cominciò a dibattersi, a graffiare e anche mordere, cosicché la dovetti domare come si è soliti fare con i puledri più recalcitranti. Feci gioco sulla forza e sul peso, nel tanfo delle spezie e del pesce salato le misi a nudo le mammelle acerbe e le cosce pallide da ranocchia; non vi fu altro godimento che l’asprezza del primo fiore e l’esercizio del proprio volere.
Per il pranzo mi diressi ad un’altra taverna, dove una ragazza che avevo conosciuto soltanto ier l’altro, leggermente più matura, ma già giudiziosamente rotta al piacere e al riconoscimento degli scudi di buona lega, mi introdusse al breve sonno dopo un lieve pranzo.
Annunciato da lettere mi recai nel pomeriggio da un vecchio amico che non vedevo da molto tempo e che quando ci baciammo si dimostrò commosso; ugualmente io per le sue gote cascanti, le rughe ed occhiaie. Mi venne a salutare anche la figlia che ricordavo bambina e s’era fatta una graziosissima giovane, cosa che un poco mi riconfortò. Discorremmo a lungo di persone e avvenimenti del periodo che avevamo vissuto e fui messo al corrente di quelli che da lontano non avevo potuto seguire, quindi mi lasciò a compulsare libri stampati in quel medesimo lasso di tempo e per me sconosciuti. Forse perché immerso nella lettura, forse per la leggerezza del passo, non mi ero accorto che la figlia dell’amico era entrata nella grande biblioteca; mi intrattenni tosto con lei, notando che era assai sensibile ai racconti delle mie avventure in plaghe lontane, che del resto andavano rinvigorendo la mia antica fama entro la quale ella era cresciuta. Si mostrò tuttavia ritrosa a passare ad altro scambio che non fosse verbale. Strappato comunque un appuntamento notturno mi affrettai ad andarmene, che quei pochi brancicamenti di una carne freschissima ed appena intuita m’avevano rimesso in moto i muscoli e il sangue.
Giunto di furia alla mia abitazione presi al volo la fante che oziava in cucina e di sopra mi dedicai a Giustina. Questa, intuendo come tale ardore provenisse da qualche recente incapricciatura, me la voleva un po’ a lungo far scontare; dimostrazion di sé, vendetta, e infine travolgimento di sé, malgrado se stessa, le conferiron una forza fisica mai prima riscontrata. Ad un certo punto, inchiodatemi le spalle al materasso, il suo bacino prese un crescendo di ritmo che temetti il letto potesse volar via per il pavimento come una tartana verso la finestra e l’acqua del canale.
Ci preparammo quindi per il ricevimento del marchese*** che rappresentava la mia rentrée in società. Al solito Giustina si attardava con cipria, spazzola, vestiti e gioielli, garrendo come una vecchia megera che fu già al servizio delle grazie di sua madre, cosicché io che mordevo il freno scesi giù dalla giovane fante. Questa s’era ormai edotta su dove si andava a parare e aveva del pari assunto lo sguardo remissivo e solo raramente rabbioso dei cani di casa: la feci lavorar di lingua, che aveva appunto larga e rasposa come d’animale, ottenendone una mediocre soddisfazione; segno che c’era ancora molto da insegnarle e da imparare per parte sua. Mi ripromisi di prender più tempo nelle prossime settimane al fine di raffinare quella abilità tanto necessaria ad una donna che voglia prestar buon servizio.
Mi ero dimenticato delle delizie che offre la gondola sulla seta nera delle acque appena ravvivate dalle festuche di luce gettatevi dalla lampada; ben ravvolto nel mantello per difendermi dall’umidità godevo pienamente i pochi scorci sottratti all’ombra e l’idea del tempo che scorre signoreggiato dall’uomo. Il palazzo*** era una grande scatola di musica e di luce. Dai domestici agli ospiti d’ogni età, dalle dame ai padroni di casa non v’erano occhi che per me. Io nuotavo dilettosamente in quel fluido, ma come il pesce carnivoro tenevo sempre aperto l’occhio e coglievo ogni riflesso. Fluido di luce e di parole, e, del resto, nessuno mi stava a petto nella lingua francese e nel possesso della mia vita. La conversazione è adatta, quant’altro mai, a stimolare i sensi, e non tanto per conquistare con i bei discorsi ornati, ma piuttosto perché le parole combinate nel modo acconcio sprizzano vitalità per attrito: come faville provocano l’incendio. A ciò si aggiunga che lo stile consiste nelle idee o nei sentimenti enunciati, i quali derivano dalle sensazioni semplici esperite dall’uomo; infatti anche le idee più complicate, generali ed astratte, trovano il lor nascimento nel piacere o nel dolore, nella vista, nell’olfatto o nell’udito o nel tatto. Ciò vuol dire che più un uomo è mobile e ricco di sensazioni più la sua parola verrà agile e scintillante, ed ancora che si metterà in conversazione con la sensibilità dei suoi simili altrettanto ricca o saprà risvegliarla se sopita; ne consegue alfine che, nel rapporto tra maschio e femmina, la conversazione dà origine, sostituisce, mima, conduce alla conversazione dei corpi.
Ed ecco la marchesa***, padrona di casa, mi trasse con discreto movimento nelle segrete stanze, sottraendo la mia presenza al gremito conversare, con la scusa di volere il mio giudizio su certe novelle pitture che eran venute di gran moda in città. Appoggiatasi a una parete d’ombra franò tra le mie braccia. Ed uso a bella posta tale espressione perché la sua carne abbondante si poteva assomigliare a quelle frutta un poco estenuate per l’età passate sui banchi dopo essere state spiccate dal ramo. Apersi quel tanto che basta a trovar la ferita della pelle tra gli ampi vestimenti e così all’impiedi la feci sussultare più e più volte. E quand’ancora ci si stava rabbricciando frettolosamente, in uno specchio galeotto intravidi un’altra figura femminile celata in una nicchia. Trasalii e, mentre consigliavo alla marchesa di uscire dalle stanze un attimo prima di me al fine di evitare qualsiasi sussurro, mi avvicinavo alla figlia del mio vecchio amico che avevo immediatamente riconosciuto.
Ci eravamo in effetti dato appuntamento dalla sua biblioteca a questa serata, ma poi, pur avendola veduta e salutata, il discorso m’aveva attirato, come fa la pecchia svolazzando nei campi, verso altri più odorosi fiori. Ora ella mi fissava con le gote in fiamme e gli occhi dilatati. Colsi con prontezza il suo stato stuporoso e pur avido di imitazione, ma il tempo era esiguo prima di tornare nel salone, e sapevo la giovane tuttora ritrosa. Incappucciatala con le sue stesse gonne rovesciate m’inginocchiai tra le cosce perfettamente tornite facendo della lingua un simulacro del sesso, meno irruente ma altrettanto sapiente e certo più pieghevole.
Quando tornai nello sfolgorare della sala m’accorsi che l’abbrivo datogli da me, il primo motore, teneva soddisfacentemente, e mi limitai pertanto a regolare il campo magnetico affinché si mantenesse il medesimo grado fino al congedo. Io infatti, accampando la scusa della stanchezza – e qui ammiccai insensibilmente alla marchesa*** -, lasciai in anticipo il trattenimento. Appena all’attracco dissi a Giustina che l’avrei fatta accompagnare sola da Pietro, poiché desideravo godere ancora un po’ della bella notte; lei subito capì che avevo in corso qualche macchinazione e, a mo’ di saluto, ammirato e stizzoso, mi strizzò con forza i testicoli.
La mia amante aveva ben antevisto, dato che la giovane figlia del mio amico s’era di già accomiatata accusando capogiri e mi aspettava nella sua camera di finta inferma ad ora stabilita. Vi giunsi con facile puntualità pure divagando come una nottola ammantellata per le calli. Sotto al suo verone spento che dava su un minuscolo campo si mise a spenzolare una corda ed io pregai che l’inesperta l’avesse saldamente fissata; la tentai un paio di volte e quindi, incamerata l’aria umida nei polmoni, feci la risalita tutta d’un fiato. Oh delizia del salto oltre le barriere della morale comune! La ragazza, che evidentemente a lungo aveva vegliato tra la camera e il verone, mi accoglieva tremante nella lunga camicia bianca, cucciolo impaurito la scaldai e al mattino lei era donna.
Giunsi a casa alle prime luci del giorno, fiacco e vivace insieme, quando arrivava il saluto lontano delle Indie alla laguna; entrato in punta di piedi, mi feci strada nel buio fin verso la stanza della servitù e penetrai nei sogni della giovane fante, nei sogni veritieri dell’alba. Stretta e obliosa vi entrai recando la materia dei sogni che in questo caso non era così inconsistente come sostiene Guglielmo Shakespeare nei suoi nordici drammi. Lei farfugliava e sbavava, cosicché svegliò la vecchia dama di compagnia di Giustina, alla quale dovetti chiudere la bocca sdentata alla mia maniera.
Nel mio talamo finalmente constatai che la mia amante dispettosa faceva le viste di dormire, e me ne consolai girandomi sul fianco. Passati pochi minuti però, mentre già stavo scivolando nel ripasso confuso degli amplessi, sentii una mano calma vellicarmi con insistenza le reni. Il grido d’un gondoliere che probabilmente portava ortaggi dalla terraferma, il rotolare lontano di ruote salutarono il ben meritato riposo; il sogno era popolato da stranissime femmine: alcune identiche a quelle conosciute durante il giorno, altre forse da conoscere domani, altre ancora con tratti dell’una e dell’altra, e della gatta e dell’asina. La mente spremuta rilasciava ancora i suoi sughi e non voleva cedere il moto all’oblio che prefigura la morte.