Questa volta valico i confini della valle in cui mi trovo a vivere, ma invece di prendere l’auto e scivolare lungo la tratta autostradale più cara d’Italia, o prendere il treno e perdermi nella tratta ferroviaria più lenta d’Europa, mi lascerò trasportare dai libri.
Ecco, “Il delta” di Kurt Lanthaler (Alphabeta edizioni, 2016) è il libro che vorrei sempre leggere. I motivi sono tanti, a partire dalla bella (lo si sente, che è bella, inventiva, amica) traduzione di Stefano Zangrando. E poi ci sono le svolte impreviste della storia: perché è vero che tutto parte nel delta del Po, nell’immane pantano piatto in cui si aggirano i cacciatori di frodo di anguille, e qui vediamo agitarsi l’io protagonista dal nome immaginoso di Fedele Conte Mamai e i suoi amici o rivali, in un pantano salmastro che rende lutulento anche il tempo, e tutto si ripete, rallenta, sprofonda; ma a un certo punto tutto d’improvviso si muove, l’io diventa molte altre cose, operaio e lavoratore di mille lavori in giro per l’Italia e anche oltre, fino a tornare al delta da laureato, ad annusare quell’aria nebbiosa e a inseguire i cascami di quello che è rimasto. Un personaggio così, picaro di natura, multifaccia come Ulisse ma senza senso del dramma e del melodramma, ribelle ma di un ribellismo improntato a una sorta di understatement, mai protagonista, sempre un po’ defilato, è un piacere seguirlo dove capita, ai baracconi, in Sardegna o tra le montagne svizzere (ma come, fin qui è arrivato, da queste parti? mi dico guardando fuori dalla finestra, come se potessi vederlo) o a Cinecittà, dove compare anche, in un cameo di straniante comicità, il Bombolo di tante commediole tirate via. Ed è anche un piacere vederlo interrogato dalle polizie, perché sai che sa difendersi, non correrà rischi seri, e dal non detto verranno fuori altre cose, e a Fedele Conte Mamai piace ragionare, anche con un po’ di puntiglio.
Che bellezza queste storie in cui si vivono avventure umane per interposta persona. Gli vorresti chiedere, da lettore, a Fedele Conte Mamai e agli altri come lui: ma dove stai andando, dove mi stai portando? In realtà non lo vuoi sapere, e ti lasci trascinare dove non andresti mai di tuo, ma loro – i personaggi inquieti che si muovono tra terra e mare come animali migratori – ti ci portano, e vivono svolte incidenti inconvenienti fratture come passaggi naturali, magari brontolano un po’, ma mai quanto faresti tu, perché sanno che quel momento sarà presto superato, quell’accidente dimenticato.
Qualcosa di simile ho trovato in un personaggio anche lui tra il vero e il picaresco, il Ferribbotte (con due bi, mi raccomando) di Nicola Fano (“Ferribbotte e Mefistofele”, Exòrma, 2011). È proprio il Tiberio Murgia reso celebre da Monicelli prima ne “I soliti ignoti” e poi ne “La grande guerra”, il siciliano compito e geloso interpretato da un sardo che prima di fare l’attore, o il non-attore, perché recitare proprio non sapeva, ed era sempre doppiato – dicevo, prima di sfondare al cinema e entrare, come maschera sempre uguale a se stessa, nel cast di centinaia di film da quattro soldi, ha fatto mille mestieri in giro per l’Europa, è stato attivista del Partito Comunista, tombeur de femmes un po’ ovunque, lavapiatti, minatore a Marcinelle dove è scampato per un pelo al disastro che sappiamo. Fano, che ama queste figure di contorno, i caratteristi sfortunati, l’avanspettacolo brulicante (curata da lui è la basilare antologia “Vieni avanti, cretino!” pubblicata da Theoria nel 1993), i guitti di arte modesta e di grande generosità, fa di Ferribbotte l’epitome dell’italiano, una sorta di modello di unificazione nazionale: un sardo che a Roma fa il siciliano, uno che rinuncia alla propria identità e a ogni campanilismo senza rinunciare alle rodomontate, e se ne lascia ritagliare addosso un’altra, di identità, a cui si adegua definitivamente, in nome del successo, come un piccolo Faust di provincia senza grosse pretese. Ci ragiona su parecchio, Nicola Fano, e si sente che ci tiene a questo strano personaggio sfuggente a ogni classificazione, perché vede in lui una specie di antidoto agli egoismi regionalistici. E un’avventura nell’avventura è il suo inseguire Tiberio Murgia nei resoconti dei giornali, nelle testimonianze di chi lo ha incontrato, tra le iperboli depistanti dell’autobiografia scritta da altri, alla ricerca di un senso, di uno scopo ignoti allo stesso Murgia.
E qui volevo arrivare: mi piace pensare che nel corso delle loro scorribande per il mondo questi due Pinocchi, questi due Luci (nel senso del plurale di Lucio, il protagonista della Metamorfosi di Apuleio), insomma Ferribbotte e Fedele Conte Mamai, si siano incontrati, abbiano percorso un pezzo di strada assieme, abbiano solidarizzato, si siano capiti – oppure abbiano litigato, che è un altro modo per capirsi.