Ogni arte ha una sua storia, una tradizione che ne precisa la ragione d’essere. E quindi anche una preistoria, che su quella tradizione agisce da lontano, senza tuttavia già inaugurarla. Se la storia del romanzo, ad esempio, comincia davvero solo con Rabelais in Francia e poi, in Spagna, con Cervantes, la sua fondamentale matrice dissacrante si rivelerebbe già, secondo alcuni, nelle prime forme letterarie umoristiche, che ne rappresenterebbero allora la preistoria.
Analogamente, se ammettiamo che sia stato Montaigne, con i suoi Essais, ad inquadrare per la prima volta in una forma artistica compiuta il pensiero saggistico, ossia il pensiero che «dice no», che si contraddice affermandosi perché mira ad approfondire il suo oggetto senza irrigidirlo in conclusioni sistematiche, possiamo forse immaginare che alla preistoria del saggio vi siano i dialoghi socratici, tra i primi esempi di dialogo a noi noti, e che, in generale, l’uomo intento a conversare con un «tu» e che, attraverso questo esercizio di fiducia verso l’altro, riconosce di «saper di non sapere», possa esser considerato, del saggista, la figura ‘’archetipica’’.
Se il saggio è allora, per definizione, arte del dialogo, la forma dialogica può forse rivelarsi particolarmente adeguata a coglierne aspetti nuovi.
Il testo che presento qui rappresenta una selezione del mio dialogo con Belinda Cannone, che si è svolto in francese e in italiano lo scorso 12 maggio davanti al pubblico dell’ottava edizione del SIR di Trento, dedicata al tema dello «Scrittore come critico». Questo dialogo è stato poi da me trascritto in italiano, per la pubblicazione su Zibaldoni, e riletto da Cannone.
La ragione della sua inclusione nella nostra rubrica è che Belinda Cannone, scrittrice e studiosa francese (dalle origini italiane), rappresenta uno dei rari autori contemporanei rimasti a praticare consapevolmente il saggio come arte letteraria, ossia con la consapevolezza della tradizione in cui si inscrive. In apertura del suo Il sentimento d’impostura (Le Sentiment d’imposture, pubblicato in Francia nel 2005 e vincitore del Gran Premio del saggio a nome della Société des Gens de lettres), troviamo una nota dell’autrice che recita:
«Questo libro è concepito come un ‘saggio’, un essai nel senso, risalente al XVI sec., spiegato dai dizionari. Per esempio, dal Petit Robert: ‘Ouvrage littéraire en prose, de facture très libre, traitant d’un sujet qu’il n’épuise pas’. Un discorso assai libero, dunque, su un tema che non si pretende di trattare in tutti i suoi aspetti (…)».
Come spiega la nota, il libro non mira ad offrire ai lettori una disanima esaustiva del cosiddetto «sentimento d’impostura», come Cannone chiama quel disagio, a suo avviso molto diffuso, che sarebbe provocato dall’impressione di una mancata corrispondenza tra ciò che si è e ciò che si deve apparire; l’obiettivo è invece direttamente quello di saggiare l’esistenza di questo stato d’animo, attraverso una serie di esempi, ricavati ora da spunti di sociologia e psicologia, ora dai mondi della letteratura e del cinema, ora dall’esperienza personale, e presentati in trentasei brevi capitoli che ne illustrano ciascuno una diversa manifestazione.
Questa concezione del saggio come discorso che, con il solo ausilio dell’immaginazione e dell’invenzione formale, coglie aspetti dell’esistenza non ancora analizzati dalla scienza, è sviluppata anche in altri saggi dell’autrice, come La bêtise s’améliore (2007), dedicato ai risvolti reconditi del conformismo contemporaneo, o La tentation de Pénélope (2010), che introduce il concetto di «femminità» a partire dall’analisi delle variazioni del femminismo contemporaneo.
Questo modo di intendere il saggio lo apparenta al romanzo, con cui il primo condividerebbe la missione principale, precisata da Cannone ne L’Écriture du désir ( La scrittura del desiderio ): dare forma a una domanda, dare forma a un dubbio. Caratteristica dei romanzi di Cannone è la massiccia presenza, che si erge sempre sullo sfondo della trama, di una componente meditativa, quindi saggistica, il cui esito principale nell’economia del romanzo sembra consistere nel suo incanalamento in una struttura formale che appare dominata da un’unità tematica piuttosto che da quella d’azione.
Procedendo da un confronto tra l’esperienza di Belinda Cannone come romanziera e saggista, il dialogo trentino ha permesso di inquadrare i caratteri essenziali della ricerca letteraria di quest’autrice, rinomata in Francia e apprezzata anche in Italia e, per questo tramite, di constatare la vitalità di cui gode ancora l’arte di Montaigne. Per immaginarne nuove evoluzioni, sulla base della rievocazione della sua storia (e preistoria). [ S. C. ]
Simona Carretta: Professoressa Cannone, alla sua attività di romanziera, avviata nel 1990, dal 2001 affianca quella di saggista: risale a quest’anno la pubblicazione del suo saggio dal titolo L’Écriture du désir (La scrittura del desiderio), che le vale un prestigioso riconoscimento da parte dell’Académie française e il cui tema consiste nell’esplorazione di quel desiderio di conoscere che sembra essere alla base del romanzo, da lei intesa come un’arte indipendente.
Un tema, quello del desiderio, a lei molto caro: concependolo come principale motore dello slancio vitale, oltre che nella sua più comune accezione erotica, nel corso della sua intera opera ha scelto di modularlo alternativamente sia nei saggi (oltre a quello già menzionato, anche in Le Goût du baiser e in Petit éloge du désir) che in alcuni suoi romanzi: in Trois nuits d’un personnage (1994), ad esempio, e nell’ultimo, Nu intérieur (Nudo interno), pubblicato in Francia l’anno scorso. Anche per questa ragione, ho l’impressione che il connubio di saggio e romanzo sia una costante della sua opera. Ciò a partire dal suo primo romanzo: in Dernières promenades à Petrópolis (Ultime passeggiate a Petrópolis), edito nel 1990 ma ripubblicato nel 2013 con il titolo L’Adieu à Stefan Zweig (L’Addio a Stefan Zweig), il personaggio di Marthe, a cinquant’anni dal suicidio di Stefan Zweig, si reca nella città brasiliana teatro degli ultimi giorni dello scrittore per cercare di comprendere il perché del suo tragico gesto. Come lei stessa ha riconosciuto, questo primo romanzo anticipa già i temi più importanti delle sue opere future e quell’intreccio di critica e creazione che, più tardi, alimenterà la sua duplice vocazione di romanziera e saggista. La prima domanda che le pongo, a questo riguardo, mira a schiuderci direttamente le porte del suo atelier: lei ha dichiarato che, quando si accinge a comporre un’opera letteraria, che si tratti di un romanzo o di un saggio, muove sempre dall’intuizione di un tema, per il quale poi trova la forma artistica più adeguata; le chiedo allora come avvenga questa scelta. Se, per lei, le due arti del saggio e del romanzo sono accomunate dall’obiettivo di esplorare in maniera non sistematica alcune questioni legate all’esistenza, cos’è che, davanti alla possibiltà di destinare un tema ad un trattamento saggistico o romanzesco, la fa propendere per l’una o l’altra arte ? Questa scelta avviene sempre a priori o può sopraggiungere in corso d’opera ? Un illustre esempio dell’ultimo caso è rappresentato dalla Ricerca del tempo perduto, che Proust trasse in parte dalle note che inizialmente aveva destinato ad un saggio, il Contro Sainte-Beuve…
Belinda Cannone: Sono d’accordo con il suo modo d’intendere l’arte del saggio. Vorrei precisare però che i temi trattati nei miei saggi sono di un genere diverso da quelli che sviluppo nei romanzi. Questa è la ragione per la quale, quando concepisco un soggetto, sono in grado di comprendere da subito se costituirà l’argomento di un saggio o di un romanzo; nessuna incertezza al riguardo. Il tema nasce insieme alla sua forma e all’arte a cui è destinato. Posso fornirle qualche esempio. Come ha già ricordato nella sua introduzione, il «sentimento d’impostura», che rappresenta il tema del mio saggio omonimo, corrisponde alla spiacevole sensazione di non occupare legittimamente il posto che ci è stato assegnato. Si tratta, a mio avviso, di un sentimento davvero molto comune, al punto che, per coloro che affermano di non averne alcuna idea, sono possibili solo due spiegazioni: o non hanno compreso di cosa parlo o sono pazzi. Ad ogni essere umano capita, infatti, in determinati momenti della sua vita, di credersi un impostore e di dover combattere contro questa percezione. Se davvero esistesse qualcuno che ne fosse totalmente esente, ciò vorrebbe dire che, in ogni momento della sua vita, costui avrebbe sempre sentito di incarnare esattamente la persona che doveva essere: eventualità davvero ammissibile solo nel caso di qualcuno che sia fuori di testa. Quello che chiamo «sentimento d’impostura» è allora universale, tuttavia nessuno ne aveva scritto. Ho deciso quindi di coniare un’espressione che ne rendesse l’idea nella maniera più precisa possibile e mi sono lanciata nella sua descrizione. Ma volevo che fosse una descrizione esaustiva. Ho allora adoperato la forma del saggio perché mi pareva che solo per questo tramite avrei potuto esplorare il maggior numero di applicazioni di questo sentimento.
Simona Carretta: Potremmo allora riassumere che, per lei, a contraddistinguere il saggio è la maggiore possibilità di sviluppo argomentativo che esso offrirebbe rispetto al romanzo ?
Belinda Cannone: In un certo senso, sì. Malgrado il rapporto che esiste, come lei ha giustamente ricordato, tra la forma del saggio e il dubbio – più tardi, mi piacerebbe ritornare sulla questione della scrittura del dubbio, che resta un elemento integrante dei miei saggi -, nei miei saggi cerco comunque di offrire delle risposte, sebbene esse siano formulate nella forma di ipotesi. Una prova la si può forse rintracciare nel fatto che, nonostante la pubblicazione del Sentimento d’impostura risalga ormai a circa dieci anni fa, in tutto questo tempo non mi è mai venuto in mente nessun altro capitolo che avrei potuto aggiungere o modificare; e questo nonostante, dei miei libri, Il sentimento d’impostura sia quello più letto, su cui ho avuto modo di ritornare e di cui quindi ho avuto modo di discutere più volte. Ciò deve voler forse dire che lo ritengo completo, che ho l’impressione di avervi già dispiegato interamente il tema.
Simona Carretta: Vorrei che potessimo soffermarci sul verbo che ha appena adoperato: «dispiegare» [in francese, deployer]. In un’intervista a Claire Tencin, lo contrappone ad un altro che esprime un significato simile, cioè «spiegare» [in francese, expliquer ]; ciò al fine di ribadire che è solo il primo ad esprimere esattamente l’obiettivo che lei si propone di conseguire con i suoi saggi.
Belinda Cannone: In francese, «dispiegare» può anche essere inteso nel senso di «aprire»: evoca quest’idea di qualcosa che si schiude. Per questo, mi sembra il più adatto ad illustrare il modo in cui lavoro sui miei temi, di cui, nei saggi, cerco di rivelare le varie sfumature di significato; mi servo allora del verbo «dispiegare» per precisare che il mio scopo è aiutarli ad aprirsi, alla maniera dei petali dei fiori. Al contrario, l’obiettivo dei saggi di tipo universitario è quello di «spiegare»; di sviluppare un ragionamento secondo uno schema logico, che ne rappresenta l’unica forma possibile. I temi che sviluppo nei miei saggi letterari richiedono invece quell’apertura di cui parlavo prima; dunque, una costruzione che non è lineare ma, direi, vegetale. Sì: è la prima volta che la chiamo così, ma mi pare che questa sia la maniera più giusta di definirla.
Questo tipo di costruzione, saggistica, o vegetale, è inerente al tipo di temi che mi interessano. Che si tratti del «sentimento d’impostura», del desiderio o del conformismo, di cui mi occupo nella Bêtise s’améliore (La stupidità migliora), la ragione per la quale i temi dei miei saggi non si prestano a uno sviluppo lineare è che li elaboro sempre a partire dall’esperienza individuale. Un’esperienza che poi risulta sempre essere condivisa da altri– una definizione a cui faccio solitamente ricorso a proposito dei miei temi è quella di «segreti comuni» -, ma che scopro inizialmente sulla mia propria pelle. Poiché i miei saggi si alimentano di questo andirivieni tra pensiero ed esperienza vissuta, non potrebbero mai strutturarsi secondo uno schema di tipo classico.
Simona Carretta: Prima diceva che, quando si accinge alla composizione di un nuovo libro, le sembra che il tema sorga immediatamente insieme alla sua forma…
Belinda Cannone: L’invenzione della forma è la fase che segue immediatamente quella dell’intuizione del tema. All’inizio il soggetto si presenta ancora sprovvisto di forma: questa spetta a me inventarla. E direi che in questo vi è un’altra enorme differenza che intercorre tra il saggio che chiamo letterario – non saprei come definire altrimenti questo saggio alla maniera di Montaigne – e quello di tipo accademico: nel primo, ogni tema reclama la sua forma specifica, laddove nel secondo è sufficiente seguire lo schema logico. Per me, questa della ricerca della forma è senza dubbio la fase più esaltante, quando mi inoltro alla ricerca di una forma nuova e ho l’impressione di averla trovata. Posso farvi qualche esempio. Quando ho scritto La Bêtise s’améliore, la mia intenzione era quella di descrivere la facilità con cui quelle che si presentano dapprima come delle idee intelligenti scadono nel conformismo. Per questo, il titolo a cui avevo pensato inizialmente era La Bêtise de l’intelligence, se non che questo era stato già utilizzato e allora ne ho trovato un altro, forse più divertente. In ogni caso, il mio scopo non era farmi beffe degli sciocchi o imitare Philippe Muray [scrittore francese che ha analizzato le contraddizioni dell’età contemporanea e si è distinto per la sua vena ironica, n.d.r.], ma quello di mettere a fuoco il fenomeno, caratteristico della nostra epoca, per il quale individui intelligenti, colti e informati non riescono ad evitare un certo conformismo. Si trattava, senz’altro, di un tema difficile da trattare: io per prima, ad esempio, non sopporto i luoghi comuni sulla bêtise; anche nel caso di Muray, ci ho messo un po’ ad apprezzarlo ed è lo spessore della sua intelligenza che ha finito per sedurmi. Insomma, scrivere questo libro avrebbe comportato un alto rischio, che era quello di risultare antipatica. Ora, se scrivo libri è perché desidero che vengano letti. Inoltre, ho sempre pensato che la prima vittima potenziale di questo conformismo potrei essere proprio io; di conseguenza, volevo che risultasse chiaro che il senso del saggio non era quello di impartire lezioni. Mi chiedevo allora come avrei potuto scriverlo in modo da prevenire l’ostilità che il trattamento di questo tema avrebbe potuto suscitare. La risposta l’ho trovata nella forma: ho deciso che nel saggio avrei inserito della finzione. Ho quindi inventato tre personaggi: due fotocopisti (sì, il modello è la coppia di Bouvard e Pécuchet), dei quali l’uno più conciliante, l’altro più polemico, e una donna, fidanzata con uno dei due. I tre trascorrono il loro tempo a passare in rassegna i discorsi comuni ormai pietrificati. Il libro allora sembrerebbe un romanzo, se non fosse che ad ogni capitolo corrisponde un particolare risvolto del conformismo, che i tre personaggi hanno il compito di analizzare.
Simona Carretta: Si direbbe un saggio in forma di dialogo.
Belinda Cannone: Trovo molto feconda l’idea di adottare la forma del dialogo in un saggio. L’ho impiegata anche nel saggio successivo, il cui tema correva il rischio di risultare altrettanto scivoloso: mi riferisco alla Tentation de Pénélope, in cui affronto la questione del femminismo, prendendo delle posizioni al riguardo. Ma, come nel saggio precedente, desideravo che anche coloro che non le avessero condivise lo leggessero fino in fondo. Il principio compositivo del dialogo mi è servito allora per abbattere le possibili resistenze. Grazie alla forma dialogica, mi è stato possibile sviluppare quella che io chiamo la scrittura del dubbio: definizione con la quale intendo che, nei miei saggi, il dubbio è presente come elemento integrante e non solo come elemento che fornisce il pretesto per il loro avviamento. Al fine di preservare il dubbio come risorsa, il dialogo costituisce un espediente straordinario perché permette di porre in relazione gli esponenti di posizioni avverse. Una variazione della forma del dialogo l’ho realizzata proprio nel Sentimento d’impostura: in questo saggio, non figura un vero e proprio dialogo, ma il discorso è rivolto alla seconda persona singolare; è al «tu» che faccio costantemente riferimento.
Simona Carretta: Come nell’incipit del IV capitolo, Il segreto, che leggiamo: «Hai conservato un’intima conoscenza del sentimento d’impostura. Dei tuoi impostori (e scrivi il termine in corsivo per distinguerlo dagl’impostori propriamente detti) ti accorgi subito: basta che comincino a parlare (…)».
Possiamo affermare allora che, per lei, il tu è una forma dell’espressione saggistica ?
Belinda Cannone: Sì, è proprio come forma che intendo il tu. Nel Sentimento d’impostura, il suo impiego ha assolto diverse funzioni. Mi è servito, ad esempio, a comunicare il senso di una frattura interiore, che è sempre implicita al sentimento d’impostura, visto che, in ultima istanza, esso attiene ad un problema di incertezza della propria identità. In secondo luogo, rivolgere il discorso alla seconda persona mi ha offerto l’opportunità di coinvolgere direttamente il lettore, di suggerirgli: sei tu colui a cui sto parlando, questo problema non riguarda solo me, qui si parla anche di te. Infine, l’espediente del «tu» mi è servito a trattare anche sfumature di questo sentimento che non avevo già sperimentato in prima persona – e questo nonostante io mi ritenga una grande specialista del sentimento d’impostura, da cui sono spesso stata investita violentemente, nel corso della vita -, per la cui descrizione avevo quindi bisogno di immaginare un altro al mio posto. In definitiva, la forma del «tu» mi ha aiutato a prevenire il rischio di incentrare il discorso solo su di me.
Simona Carretta: Il «tu» rappresenta allora una possibile declinazione dell’ io saggistico che, a differenza di quello lirico e similmente a quello romanzesco, si alimenta dell’esplorazione dell’altro. In conclusione, vorrei porle ancora una domanda. Si è detto che, di solito, i suoi romanzi conservano traccia della sua pratica con il saggio: questa si ravvisa principalmente nella presenza in essi di un’importante componente meditativa. Il saggio, però, non è l’unica arte che lei ha ammesso ad entrare in dialogo con i suoi romanzi. Spesso, vi ha fatto confluire riferimenti ad arti diverse; in alcuni casi, traendone spunto per alcuni principi di composizione formale. E’ il caso della struttura della fuga, una forma di origine musicale, di cui si è servita per un suo romanzo. Le chiedo allora come si può interpretare il suo ricorso alle risorse tipiche delle altre arti: questo è forse per lei un altro modo di declinare nei suoi romanzi quel connubio di critica e creazione che sembra caratterizzare tutta la sua opera ?
Belinda Cannone: Il romanzo a cui forse lei fa riferimento, dove ho impiegato un principio compositivo di origine musicale, è Lent Delta (1998), in cui racconto l’ultimo giorno che resta ad un’anziana dall’età davvero veneranda, 104 anni, prima della morte. Ciò che caratterizza maggiormente questo romanzo è che, come qualcuno dei miei saggi, è organizzato interamente in forma di dialogo. Quando l’ho scritto, ero da tempo alla ricerca di soluzioni che mi permettessero di ridimensionare la figura del narratore tradizionale, al fine di concedere un maggiore spazio alla voce dei personaggi: con Lent Delta, quarto dei miei romanzi, mi è sembrato di giungere al punto culminante della mia ricerca. Per organizzare l’esposizione del dialogo tra la donna e i suoi cari, mi sono servita di una forma considerata propria della musica, quella della fuga. Non a caso, il modello a cui ho fatto riferimento è stato L’arte della fuga di Bach, un’opera composta da diversi esempi di fuga, di cui l’ultima è incompiuta: la presenza di questo modello si rintraccia nella scansione dei capitoli del romanzo, il cui numero corrisponde a quello delle fughe di Bach: in ciascuno di essi, si realizza poi una moltiplicazione delle voci dei personaggi, che ricorda il contrappunto musicale. Il tema di fondo del romanzo, che questa struttura formale concorre ad illuminare, è ancora una volta quello del desiderio: in questo caso, però, esplorato in riferimento ad una donna molto anziana; per capire cosa resta, di questo motore vitale, quando ormai ci si avvicina alla fine della vita, se esso si spenga lentamente o se invece perduri interiormente, malgrado il sopraggiungere dell’inadeguatezza sul piano fisico. In maniera forse ottimistica, ho sostenuto la prima ipotesi e ho allora immaginato il desiderio come un fiume che, in piena nel corso della giovinezza, con il tempo prende ad estinguersi, raggiungendo così il suo delta. La forma musicale mi è dunque servita a sostenere la metafora fluviale che regge il romanzo.
Simona Carretta: Una curiosità, dimostrata verso le voci e dunque le vite interiori altrui, che è forse la sua cifra caratterizzante di saggista e romanziera.
Belinda Cannone: A volte, mi diverto a definirmi una “scrittrice pubblica”, giocando sull’ambiguità di questa espressione per intendere che il mio principale interesse, come saggista e romanziera, consiste nel dare forma a quelle che chiamo le voci multiple del mondo. Tutto il mio impegno consiste allora nel tentativo di tradurre la mia percezione della molteplicità delle voci, di farle esistere.