Le passeggiate con Antonio Prete negli ultimi anni sono diventate una piacevole consuetudine. L’ultima volta che è venuto nel Salento per presentare il suo saggio Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità (Bollati Boringhieri, Torino 2016), previo accordo telefonico, sono andato a prenderlo a casa sua poco dopo le cinque del pomeriggio per fare una passeggiata al mare, dalle parti di Otranto.
Abbiamo percorso la superstrada fiancheggiata da paesi e discariche, capannoni industriali e cave di pietra, magazzini e autogrill, autosaloni e autodemolitori, e poi ancora oliveti a perdita d’occhio confinanti con l’azzurro dell’Adriatico ben visibile anche a dieci chilometri di distanza dall’alto della serra salentina. Abbiamo lasciato l’auto al margine d’una via sterrata, poco lontano dalla litoranea e abbiamo camminato tra sassi e rocce dilavate, biancastre, appena intervallate da una residua macchia mediterranea profumatissima di mentastra e di timo. Ad ottobre le giornate si sono accorciate e fa buio piuttosto presto. Chiacchierando del più e del meno, siamo giunti sotto la torre quando il sole tramontava dietro il promontorio: sopra di noi un cielo cosparso di larghe nubi colorava di cobalto una vasta porzione di mare, davanti a noi il tratto di mare dal Faro della Palascìa fino a Porto Badisco dominato dalla Torre Sant’Emiliano.
Lungo il sentiero ho detto ad Antonio che avevo cominciato a scrivere qualcosa sulla sua opera saggistica. “Ah sì”, ha risposto con tono di piacevole sorpresa, continuando a camminare con gli occhi rivolti a terra per non inciampare, senza aggiungere altro.
La nostalgia, la lontananza, la traduzione, la compassione, l’interiorità: cinque termini intorno ai quali ruota l’intera sua opera saggistica, dai primi anni Novanta ad oggi, quasi un trentennio di inesausta riflessione sulla letteratura e sulla filosofia occidentali. Cinque saggi, che a me piace considerare compattamente, come un’unica opera: Nostalgia. Storia di un sentimento (1992), Trattato della lontananza (2008) – ma tra 1992 e 2008 c’è tanto lavoro critico e di traduzione su molti poeti italiani ed europei, Leopardi e Baudelaire in primis-, All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione (2011), Compassione. Storia di un sentimento (2013) e infine Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità (2016). Cinque campi d’indagine con un unico comune denominatore, dissimulato nella varietà semantica dei titoli e sottotitoli, dalla storia al trattato, dalla poetica alla grammatica, che mi sembra di rinvenire nella volontà dell’autore di trarre delle conclusioni, di riassumere e illustrare quanto la letteratura ha saputo dire negli ultimi tre millenni.
Infatti, si può fare la storia di un sentimento (la nostalgia o la compassione), come di qualsiasi altro evento, se l’oggetto di studio non appartenga al passato? E’ possibile adottare il genere del trattato, se non sia necessario sistematizzare un sapere, dargli un ordine, una classificazione, chiudendolo in una forma ben definita? Può essere formulata una poetica quando la facoltà poietica e immaginativa non si sia dispiegata in opere compiute? Infine, si può scrivere una grammatica quando la lingua non sia sufficientemente stabilizzata?
Il nostro tempo vive la nostalgia con molti sensi di colpa, riduce la lontananza ad una prossimità in cui tutto sembra a portata di mano, fa della traduzione una speculazione commerciale, della compassione il sentimento delle anime belle e di ciò che si oppone all’interiorità (l’esteriorità) la cifra del nostro essere al mondo. Ma il nostro tempo è molto più complesso, perché è anche il tempo nel quale si può ancora elaborare una critica e proporre un’alternativa.
Lo storico, il trattatista, il teorico della traduzione, il grammatico, nel mentre sistematizzano il sapere della tradizione letteraria e filosofica occidentale, sono anche le figure di un’antica e nuova paideia, grazie alla quale si può ancora nutrire la speranza di tramandare questo sapere alle future generazioni. La forma del saggio, quella inaugurata da Montaigne, è chiamata a gestire questa complessa operazione di salvaguardia e di trasmissione, e a descrivere tutte le possibilità alternative che la letteratura ha saputo elaborare. Da questo punto di vista, l’opera di Antonio Prete, col suo carattere utopico e oppositivo, risponde ad un intento civilizzatore, nel quale consiste l’unica dignità delle lettere, oggi come ai tempi di Orfeo.
Non era il caso che gli parlassi di quanto pensavo della sua opera, in quell’ora crepuscolare che ci richiedeva di stare attenti a non mettere i piedi in fallo. Per parlare di queste cose, occorre il silenzio di un luogo chiuso, la disposizione all’ascolto dei libri e di se stessi, non serve la conversazione.
Grandi nuvoloni carichi di pioggia salivano dalle montagne dell’Albania, troppo lontani per darci qualche preoccupazione. Antonio ha fatto poche foto col suo smartphone, per ricordare meglio, un giorno – così mi ha detto -, quei luoghi, i colori del cielo, il mare, il tramonto, la pineta sottostante simile a una macchia scura sulla pietraia. Poi, abbiamo letto il cartello apposto alla torre, che rievoca l’attacco di Ahmet Pascià e la risoluzione degli spagnoli di costruire le torri costiere di avvistamento. Abbiamo immaginato la dura vita dei soldati di vedetta, i loro pensieri nelle notti interminabili, le paure che li assalivano nella torre sferzata dal vento. Che cosa, se non il racconto di quanto gli antichi abitatori avevano sentito e patito, avrebbe potuto ridare vita a quel luogo ora ridotto a monumento puramente esornativo?
“Si potrebbe scrivere un racconto su tutto questo”, mi ha detto.
Ci siamo fermati pochi minuti davanti al mare; ma occorreva tornare subito indietro, seguendo il sentiero appena segnato dai passi degli uomini, che col buio incipiente non avremmo saputo ritrovare, se non ci fossimo sbrigati.