Tu sei di origine arbëreshë, esattamente di Piana degli Albanesi, in provincia di Palermo, però nei tuoi libri, a differenza di un altro famoso scrittore, Carmine Abate, nei tuoi libri non c’è traccia di questetue origini. Come mai?
Rigoberto Itamar Montiel, la voce del mio romanzo È finito il nostro carnevale, è un sangue misto, con molte ascendenze geografiche alle spalle, tra gli antenati, un po’ come me. Più vado avanti, e più mi convinco che apparteniamo al genere umano, e che questa è l’unica nostra carta d’identità. Ma è vero che ognuno di noi ha poi una sua propria storia. La mia ho provato più volte a raccontarla, ma mi mancava sempre qualche pezzo. Ultimamente sono venuto a sapere il vero significato del soprannome arbëreshëdella mia famiglia, in circostanze davvero particolari, e ora, forse, sono finalmente pronto a scriverne.
Il tuo romanzo d’esordio, Fumisteria (pubblicato da GBM nel 2006 e ripubblicato da Sellerio nel 2015), però è ambientato in Sicilia e racconta la storia di un omicidio in cui s’intrecciano passione amorosa e politica sullo sfondo della strage di Portella della Ginestra. Come mai hai scelto proprio quel periodo storico?
Portella è uno dei racconti che ho ricevuto dagli anziani, alcuni dei quali erano presenti. Nella memoria della mia isola quell’episodio è una cicatrice mai rimarginata, che ha condizionato tutta la storia seguente. Se si vuole cercare di capire quello che è avvenuto in Italia, e in particolare in Sicilia, dal dopoguerra in poi bisogna partire da lì.
E a proposito di storia, tu di formazione sei uno storico che però, come hai dichiarato in un’intervista, ha tradito la storia con la finzione. In effetti la tua trilogia cosiddetta “americana” – È finito il nostro Carnevale (Minimum Fax 2007), La rivincita di Capablanca(Minimum Fax 200) e L’ultimo ballo di Charlot (Sellerio 2012) – raccontano storie vere ma in parte reinventate.
Sì, ho studiato molti anni la Storia, ma per tradirla,alla fine. La letteratura e la Storia hanno sempre avuto un rapporto di antagonismo. La Storia, o meglio la narrazione della Storia, è stato spesso il racconto privilegiato dei potenti. Il romanzo nasce come ribellione alla Storia con il Don Chisciotte e si sviluppa in chiave antagonistica, prima in forma di parodia, poi come una controstoria. Dà un’altra versione dei fatti. Semplificando, si può dire che la Storia è il territorio del reale, mentre la letteratura è il territorio della possibilità. E paradossalmente la realtà è molto più piena di bugie del mondo del possibile.
L’ultimo ballo di Charlot, il tuo romanzo di maggior successo, tradotto in 19 lingue, racconta un personaggio molto noto, Charlie Chaplin, uno dei padri del cinema muto: come hai mischiato realtà e finzione?
Mi sono sempre fidato della fantasia, e anche questa volta, in maniera quasi infantile e incosciente. Per indagare la verità intima di Chaplin e del suo personaggio universale, Charlot, ho pensato che dovevo trattarlo come un personaggio di romanzo a pieno titolo, e prendermi la libertà di inventare anche su di lui. Non mi è mai importato sapere in un romanzo cosa è accaduto per davvero e cosa no, nemmeno quando si parla di persone che sono realmente esistite. Un romanzo è un altro tempo, un’altra possibilità. L’unica condizione che pongo alla fantasia è di non essere gratuita. Ci deve essere coerenza.
Quanto c’è di tuo in questo romanzo e nel personaggio di Chaplin?
In Chaplin c’è la mia infanzia, ma soprattutto vi riconosco la fragilità degli esseri umani, l’impaccio e una “spaventosa inconciliabilità con il mondo”.
Il romanzo, oltre che un omaggio al cinema, è un omaggio al circo. Come nasce questa tua passione?
Uno dei primi libri che ho letto è stato L’uomo che ride di Victor Hugo. Mi impressionò un personaggio, Ursus, un gigante circense. Credo che abbiamo un debito con i primi personaggi di romanzo che incontriamo: ci segnano come una sorta di imprinting fantastico.
I tuoi romanzi raccontano sempre un personaggio, nel libro Come un respiro interrotto (Sellerio 2014)Matteo ricostruisce la vita di Sole, una cantante misteriosa e sfuggente. Ci racconti com’è nato?
Come un respiro interrotto è il mio libro più emotivo e personale. Dentro ci sono tante cose. Quello che ho visto, del mio tempo, le persone che ho conosciuto, le storie dei miei amici, le passioni che ho avuto, ma tutto trasfigurato sempre dal romanzo. Ma all’origine, sopra ogni altra cosa, c’è stata la perdita della casa dell’infanzia. Ho scritto questo romanzo per provare a tornare a casa, o per perderla di nuovo.
I protagonisti del romanzo sono musicisti e la musica è una tua grande passione, come emerge anche nell’ultimo romanzo, La lettrice scomparsa (Sellerio 2016), il cui protagonista, Vince Corso, è un biblioterapeuta che nei suoi colloqui con le pazienti si preoccupa sempre di scegliere la colonna sonora giusta, preferibilmente musica francese.
Sì, la musica è l’altra grande passione della mia vita. Amo soprattutto la musica brasiliana e portoghese, la bossa e il fado. Mi piacerebbe riuscire a scrivere in levare, dando al lettore la sensazione di non saper bene dove mettere i piedi. In quest’ultimo romanzo cercavo una musica che fosse esotica per il protagonista, e un giorno ho tirato fuori dei vecchi lp di cantautori francesi e ho capito che quella era la musica giusta per lui. In fondo, sono le canzoni che non si sentono mai per radio, dove imperversa invece la lingua anglosassone.
Tu hai curato l’edizione italiana del volume di Ella Berthoud e Susan Elderkin, Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno (Sellerio 2013), un libro di grande successo, giunto infatti alla decima edizione. Vince Corso, protagonista della Lettrice scomparsa, pensa di curare i suoi pazienti attraverso i libri, anche se pensa che i libri non guariscono e alla fine addirittura teme di essersi ammalato di letteratura. Come stanno le cose?
La letteratura è una malattia. Juan Carlos Onetti la chiamava la litteratosi. Ma io credo che funzioni come un vaccino. Un buon romanzo ci lascia delle cicatrici, come quando ci si immunizzava al vaiolo. Ma ci mostra il dolore e tante situazioni, e alla fine ci fa stare sempre meglio, ci riconcilia con noi stessi, con il silenzio, con la fantasia.
Vince Corso, esattamente come hai fatto tu per scrivere il Libro dei personaggi letterari (Minimum Fax 2015), compila schede sui personaggi dei romanzi che legge. Ma ad un certo punto della vicenda, dopo che sparisce la sua vicina di casa, la lettrice che dà il titolo al romanzo, compila una scheda anche su di lei. Vita e letteratura, finzione e realtà, dunque, si fondono?
Sì, tutto si sovrappone, con quel gesto Vince oltrepassa un confine e si ritrova in un mondo dove tutto è mischiato, realtà e finzione, verità è bugia, impostura e autenticità. Entra nel regno del doppio, della possibilità. E spero che la sua confusione si propaghi anche al lettore. Nelle mie intenzioni, volevo creare questo meccanismo, quest’ambiguità. Del resto, per me non c’è una separazione netta tra vita e letteratura, né c’è mai stata. Un personaggio di romanzo può essere più reale di un essere umano.
In questo romanzo ritorna la tua passione per il cinema muto, questa volta con Buster Keaton, che da un poster osserva il protagonista, oppure compare nei suoi sogni.
Mi rendo conto che ho sempre raccontato storie di personaggi che avevano un qualche problema con il linguaggio. Per questo, forse, Chaplin e Buster Keaton sono dei miei eroi, perché sono dei mimi e rovesciano in comico e ridicolo quello che potrebbe essere tragico.
Come mai Vince ha solo pazienti donne? I lettori maschi sono pochi, non sono ammalati o non cercano cure?
Le statistiche sono impietose: nel nostro paese leggono prevalentemente le donne. I lettori maschi di sicuro hanno più vergogna di mostrare le proprie debolezze e sono più recalcitranti a cercare un rimedio. Ma ne conosco tanti, di appassionati, con i quali divido l’amore per la letteratura.
La lettrice scomparsa è un romanzo figlio di altri romanzi, non solo per i consigli di lettura che il protagonista prescrivealle pazienti, ma anche perché è un continuo riflettere sulla letteratura, sui libri e in particolare sui personaggi letterari. C’è un racconto, su tutti, Wakefield di Hawthorne, che contrappunta l’intero romanzo, su di esso, Vince ed Emiliano, il suo amico libraio, s’intrattengono per un intero capitolo. Da cosa nasce la tua attrazione per questo testo?
Mi interrogo su Wakefield da quando ero un ragazzo. Per me non c’è nessun delitto che sia più interessante di un racconto riuscito. Ogni racconto, come ogni vero romanzo, apre un’indagine. Spalanca una domanda. Nel caso di Wakefield la domanda che Hawthorne solleva è: perché un uomo se ne va di casa una mattina, si affitta un appartamento di fronte alla sua casa e vi resta per vent’anni? Poi torna, come se niente fosse. Non c’è una risposta. La letteratura non la deve mai dare. Per il libraio Emiliano, quella di Wakefield è una storia di fedeltà. Sembra un’interpretazione paradossale: come può essere una storia di fedeltà la storia di un uomo che lascia la moglie per vent’anni. Eppure Wakefield non se ne va, resta nella stessa strada, a pochi metri dalla sua vecchia casa. Ecco, è questo il mistero con cui mi sono confrontato. Volevo scrivere un giallo letterario. Un giallo destinato quindi, avendo a che fare innanzitutto con la letteratura, a non avere una soluzione, o almeno una sola soluzione, ma soltanto delle ipotesi, affidate per giunta alle voci dei personaggi e quindi di per sé possibili, ma non certe.