[La terza domenica di ogni mese nella mia città si svolge il mercatino dell’usato. Mi ci reco spesso soprattutto per il piacere di scovare qualche vecchio libro. Il mese scorso, mentre stavo sfogliando una rivista polverosa presso la bancarella di un venditore marocchino, ecco che mi capitano tra le mani alcuni fogli scritti a penna, in arabo. Solo il titolo era tradotto in italiano; e cosa vi leggo? Breve giunta alla Storia di don Chisciotte della Mancia, scritta da Cide Hamete Benengeli, storico arabo. Mi fu necessaria molta discrezione, per dissimulare la gioia d’un simile ritrovamento. Difatti, il marocchino se ne sarebbe potuto approfittare chiedendomi un gran prezzo. Ed invece io che ho fatto? Prima gli ho strappato un prezzo ridicolo (un euro) per quei pochi fogli; poi, una volta miei, gli ho offerto dieci euro se me li avesse tradotti seduta stante, mentre io avrei registrato la traduzione col mio smartphone. Quella che segue è dunque la trascrizione della traduzione del venditore marocchino. Per inciso, questi mi ha detto che in magazzino ha altri fogli scritti da Cide Hamete Benengeli e che, se voglio, me li potrà vendere. Ma già il prezzo era salito di molto e quindi non so se potrò acquistarli. Siamo rimasti d’accordo che lo andrò a trovare nel mercatino dell’usato della terza domenica del prossimo mese.]
Avanzando in città sul suo Ronzinante, don Chisciotte si guardava intorno e ad ogni canto vedeva sempre gli stessi faccioni affissi ai muri, alcuni sorridenti e sbarazzini, civettuoli e persuasivi, altri pensosi e gravi, austeri e severi; e siccome la sua pazzia gli deviava l’immaginazione, disse al fido scudiero Sancio, che lo seguiva sul suo asino: – Come vedi, caro amico, molti giganti tengono prigioniera questa città, giganti e anche gigantesse. Saranno certamente della stirpe di Nembrotte, fortissimi e violentissimi, e così pure le gigantesse mi sembrano non proprio belle ma certamente terribili. Dovrò dunque stare in guardia e usare tutta la mia gagliardia, se vorrò uscire vincitore da questa impresa e meritare l’amore della mia Dulcinea. Libererò questa città dai giganti e dalle gigantesse e la darò in premio a te, mio fido scudiero.
– Mio signore – disse allora Sancio – credi davvero che l’incantesimo del mago abbia trasformato codesti manifesti elettorali in veri giganti e gigantesse?
– Ma certo, amico Sancio – replicò il Cavaliere dalla Triste Figura – mai nulla è come sembra. A te paiono solo faccioni di carta, ma aspetta che li infilzi e vedrai scorrere il sangue e levarsi i lamenti.
Detto fatto, don Chisciotte mise la lancia in resta, si aggiustò sulla testa il bacile, o meglio l’elmo di Mambrino, e spronò Ronzinante contro il primo gigante, un gran faccione ch’era impossibile mancare, tanto esso era stato ben dispiegato sul muro in un manifesto di tre metri per due; e se Ronzinante non avesse avuto il buon senso che mancava al suo padrone e non avesse frenato un passo prima dell’impatto, cavallo e cavaliere si sarebbero sfracellati sul solido muro. Cadde don Chisciotte da cavallo, volò contro il muro e per poco non si ruppe le ossa.
Assisteva alla scena, avendo udito i discorsi, un locandiere, il quale, riconosciuto l’hidalgo e il suo scudiero, per averne letto la storia ed apprezzato la follia, si era fatto avanti per aiutare don Chisciotte a rialzarsi, mentre Sancio sopraggiungeva trafelato e deluso per l’esito disastroso dell’impresa. Disse il locandiere, inchinandosi davanti a don Chisciotte: – Egregio campione degli umili, riparatore dei torti, soccorritore delle fanciulle, uccisore di giganti e gigantesse, Imperatore della Mancia, don Chisciotte, altrimenti conosciuto come il Cavaliere dalla Triste Figura, a nome di questa città distrutta Le porgo il benvenuto come liberatore degli oppressi e vendicatore dei torti. La Sua venuta possa redimere l’irredimibile, salvare il salvabile, spezzare le catene e ricondurre alla ragione chi ha molto fallato. Tuttavia, quando la Sua maestosa persona, esempio inimitabile della nobile istituzione della cavalleria errante, avrà cozzato contro ogni muro della città partita ovvero divisa, ove ogni spazio è preso da un faccione di gigante o gigantessa, a chi avrà giovato? I giganti e gigantesse che lei vede, i quali da molto tempo tengono a sé soggiogata questa disastrata città, son l’un contro l’altro armato; sicché il mago incantatore ha predetto che col tempo costoro si faranno fuori l’un l’altro, il che Le risparmierà la fatica di lottare contro di essi. Si fermi, dunque, e per una volta preferisca assistere alla contesa anziché entrare in lizza come si converrebbe all’esimio campione della cavalleria errante.
Qui ebbe termine il discorso del locandiere – ce ne sono di colti nella città – e ricominciò a parlare don Chisciotte: – Egregio castellano (così la folle fantasia dell’hidalgo aveva trasfigurato il locandiere), giganti e gigantesse non mi spaventano e non son solito stare a guardare. Ma dal momento che – come la signoria vostra sostiene – un mago incantatore vuole che questi spaventosi e rozzi giganti si ammazzino tra loro, allora seguirò il suo consiglio e per una volta starò a guardare, ma senza allontanarmi d’un passo dalla città, al fine di infilzare l’ultimo gigante o l’ultima gigantessa se, dopo lunga guerra, dovesse inopinatamente sopravviverne alcuno. Sarà questo il premio che dedicherò alla mia impareggiabile Dulcinea, che nel Toboso attende il mio ritorno.
– Ricordati anche di me, mio signore, – disse Sancio -, ché, se mi guadagnai il nome di saggio nel governo dell’isola, saprei ben dimostrare al mondo come si governa un popolo senza giganti e senza gigantesse.
– Sin da ora ti nomino governatore della città – disse l’hidalgo.
E mentre Sancio esultava di gioia, don Chisciotte s’era già infilato nella locanda dove sarebbe rimasto come osservatore fino alla fine della guerra.