Dalle nostre parti agli inizi di gennaio può succedere di tutto: può soffiare da sud-est, dalla Siria, dai deserti dell’Egitto e della Libia, lo scirocco con nubi nere e veloci che trascorrono nel cielo e riversano il loro carico solo quando il vento si placa, oppure può nevicare se dalla Russia e dal Baltico, attraverso i Balcani, giungono le perturbazioni che gelano l’Adriatico. Ma dai Balcani, all’inizio di gennaio, può giungere anche una brezza di tramontana pungente e benefica – per i nostri contadini ingrossa le rape nei campi – che mette in fuga le nubi e ci regala qualche giornata di sole di cui bisogna saper approfittare. Così abbiamo fatto io e Ornella il primo giorno del nuovo anno.
Appena svegli, abbiamo visto da dietro le finestre che il sole illuminava le case e che sopra i tetti c’era un bel cielo terso, e abbiamo subito deciso che sarebbe stato un peccato rimanere al chiuso. Il tempo di rassettare la casa – non dovevamo fare altro, essendo invitati dai genitori di Ornella per il pranzo di Capodanno -, ed eccoci, verso le dieci, nelle strade del Salento, direzione: il mare. Abbiamo preso la strada di Copertino e da lì siamo andati a Porto Cesareo. Qui abbiamo fatto una lunga passeggiata dal monumento al pescatore a quello dedicato alla moglie del pescatore, alias Manuela Arcuri, e anche oltre: alla nostra destra un mare scintillante pieno di barche ormeggiate, la chiazza verde dell’Isola dei conigli (fantomatici conigli!) e, fino all’orizzonte, un cielo azzurro come solo il cielo può esserlo in un bel mattino d’inverno. Fanno un po’ pena le anatre e le oche che un fantasioso assessore ha deciso di collocare in un angolo del porticciolo, come se fossero uccelli d’acqua salata! Eppure molti adulti e bambini si fermano a guardarli, con gli occhi pieni di ammirazione e di nostalgia, richiamati dall’insolita presenza animale. Meglio il martin pescatore che qualche volta regala lo spettacolo della sua pesca acrobatica a chi meno se lo aspetta!
Solitamente, quando facciamo una passeggiata a Porto Cesareo, ci fermiamo a guardare il pesce esposto nelle pescherie per cui la località marina è rinomata; con tanto maggior piacere se vediamo la merce esposta ancora viva, agonizzante, pesci che guizzano sul bancone, sotto lo sguardo dei curiosi e dei compratori, nel tentativo vano di guadagnare il mare. Ma il primo giorno dell’anno le pescherie sono chiuse perché la gente ha già fatto la spesa e dunque i pescivendoli sono a riposo. Allora, io e Ornella abbiamo preso rispettivamente un caffè e un espressivo in un bar del centro cittadino e poi siamo tornati indietro, pensando che avremmo fatto bene ad arrivare puntuali, all’ora di pranzo, a casa dei suoi genitori.
Abbiamo percorso la litoranea che da Porto Cesareo passa attraverso Sant’Isidoro, la pineta di Porto Selvaggio e giunge fino a Santa Caterina, da dove è poi facile tornare verso casa: una strada davvero incantevole. Dalla serra rocciosa discendono verso il mare tratti di costa ben coltivata di terra rossa, alternati a pinete e a larghe chiazze di macchia mediterranea; e poi, più vicino al mare, la scogliera biancastra dilavata dalle onde nei giorni di burrasca.
Poiché Ornella voleva fare qualche fotografia, ci siamo fermati all’altezza della baia di Torre Uluzzo, poco prima di Porto Selvaggio. Abbiamo accostato l’auto sul ciglio della strada e ci siamo inoltrati nella macchia seguendo un piccolo sentiero, lungo il quale distratti gitanti avevano dimenticato bottiglie di plastica e di vetro, e altro pattume. Poi il sentiero si è interrotto, perso tra larghi cespugli di mortella e di rovo. Oltre, cioè fino agli scogli sul mare, non era possibile andare. Ma da lì era visibile un tratto di costa verso nord, privo d’ogni impronta umana, come forse doveva apparire quarantacinquemila anni fa agli occhi dei rari nostri progenitori che abitavano quella baia. Ornella ha tirato fuori il suo smart-phone ed ha cominciato a fare delle fotografie come per reagire in qualche modo all’incantamento del luogo. Troppo a lungo abbiamo temuto gli spazi liberi del mondo, preferendo costruire case e città, che sono diventate le nostre prigioni; e dunque, quando ci capita di essere esposti al mondo, come nel quarto d’ora di nostra permanenza nelle vicinanze di Torre Uluzzo, proviamo un sentimento forte di ammirazione per quello che definiamo “uno spettacolo naturale” – come se noi non fossimo più “esseri naturali” -, che forse altro non è che un sentimento forte di nostalgia verso un mondo che non siamo più in grado di abitare. Allora ho capito meglio perché il fantasioso assessore avesse messo anatre e oche in una insenatura di Porto Cesareo e perché così numerose persone si fermassero incantate a guardarle; e ho capito meglio anche gli scatti fotografici di Ornella, nei quali si riassumeva il senso della nostra profonda e immedicabile nostalgia. Nella memoria fotografia dello smart-phone di Ornella ora si trova lo spazio che abbiamo rinunciato ad abitare, ridotto a “spettacolo naturale” da far vedere ai nostri familiari durante il pranzo di Capodanno. Ci aspettavano e allora abbiamo ripreso l’auto per non arrivare in ritardo.