a Lucia Saetta : untuk cronomoto
Quando fu ormai troppo tardi, Sarahs ricordò o credette di ricordare che nemmeno lei accendeva la luce, come se accendendola temesse di sciogliere l’ultima patina di irrealtà che impiastricciava le streghe.
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(Trascrizione della trasmissione radiofonica I figli del Capitan Visiera, puntate dal 3 al 9 marzo; file audio sotto sequestro presso gli uffici della polizia municipale di Newton (distretto di Waltzwaltz); la trascrizione è attualmente agli atti del processo intentato dai famigliari delle vittime del videogioco NITA™ contro Tomaš Brušek; tra parentesi quadre vengono riportate le annotazioni d’ufficio e i rari interventi dei c.d. Figli del Capitan Visiera, attualmente imputati per diffusione di materiale secretato e favoreggiamento.)
“3 marzo. Le calze radio avevano macchie color ruggine nei punti in cui si raccoglieva la saliva mista al materiale ricevente, e dopo una conversazione particolarmente lunga le monetine erano talmente consumate che a malapena se ne distinguevano i rilievi sulle due facce, e i bordi erano tutti mangiati, come monete dell’antica Grecia, monete fenicie rimaste per lungo tempo in mare, e quando io e la mia futura moglie le usavamo per pagare qualcosa e le buttavamo sul bancone, ogni volta ci guardavano con l’aria di chi la sa lunga. A Newton c’erano vecchietti che usavano i loro denti d’oro e d’argento come antenna, e si limitavano a succhiare le monetine per le loro comunicazioni, incuranti dei tumori metallici che derivavano dal contatto diretto e prolungato del materiale ricevente con la gola, tumori talmente lenti da confondersi con il processo d’invecchiamento – limitavano i danni cercando di non inghiottire la pasta ormai inerte, sputandola prima che si appiccicasse al palato — ma ne resta sempre una particola incastrata da qualche parte — e le strade di Newton erano tutte disseminate di macchie color ruggine come se fossero immense calze per un’immane radio a galena, e a volte quando il sole era particolarmente forte atomi residui di materiale ricevente mandavano dei sospiri, dei gemiti simili al cosiddetto lamento dello stagno, e per alcuni anni a Newton c’era stato un viavai di biologi quando un lontano discendente di Konrad Lorenz aveva diffuso la notizia che nelle strade del villaggio, forse attirati dalla soprannaturale (ma in realtà è in tutti gli altri luoghi ad essere innaturale, mentre a Newton è più che naturale, cioè supernaturale) trasparenza dell’aria, venivano ad accoppiarsi gli ombrosi [PRIMO FIGLIO DEL CAPITAN VISIERA: “Chi?” FIGLIA DEL C.V.: “Cosa, chi” PRIMO F.D.C.V.: “Accoppiarsi” FIGLIA D.C.V.: “In che senso” PRIMO F.D.C.V.: “Chi è che si accoppia” FIGLIA DEL C.V.: “Con chi, con lei?” PRIMO F.D.C.V.: “Così la vogliamo, bellissima e glaciale” SECONDO F.D.C.V.: “Se permettete, io so–” FIGLIA D.C.V.: “Lei perché si intromette” SECONDO F.D.C.V.: “La cosa dell’accoppiarsi” FIGLIA D.C.V.: “Anche lei” SECONDO F.D.C.V.: “Dico gli ombrosi. Non è detto che i radioascoltatori a casa…” PRIMO F.D.C.V.: “O i radioconduttori in studio se è per questo…” FIGLIA D.C.V.: “Presagisco un’imminente lezioncella di parassitologia applicata” SECONDO F.D.C.V.: “Com’è bello lavorare con lei…” PRIMO F.D.C.V.: “Bellissima e sardonica” FIGLIA D.C.V.: “Portate un decaffeinato ai due superconduttori qui; lei, vedo che ha già tirato fuori un libriccino” SECONDO F.D.C.V.: “Dunque, senz’altro indugio: Dicesi ombroso… [NOTA: Il testo che segue è tolto da una relazione sul vampirismo tirolese tenuta da L—- presso l’Università della Morte Naturale del villaggio di Bristol (distretto di Schwarzschwarz); date le possibili implicazioni di L—- con i recenti (…omissis…) il testo attiene pertanto anche al procedimento (…omissis…)] “Il suo nome è dovuto alla forte somiglianza del parassita con un’ombra; a meno di non andargli molto vicino, infatti, si direbbe che l’ombroso, proprio come un’ombra, non abbia spessore né sostanza. Gli ombrosi vivono in acquitrini o stagni, da cui si allontanano molto di rado; in genere l’ombroso infesta i pesci gatto o le rane, ed è molto raro che riesca ad avvicinarsi ad un uomo; quando questo avviene, è o per un deliberato avvicinamento dell’uomo alla zona infestata, o per la presenza di un ombroso fuori dal suo habitat, circostanza che si verifica molto di rado: per la precisione, all’incirca ogni trentacinque anni, quando la popolazione è in eccesso, e allora colonie di ombrosi abbandonano gli acquitrini di provenienza per cercare una nuova zona dove proliferare; questo è il periodo in cui il rischio di entrare in contatto con un ombroso è maggiore. Non è affatto facile identificare un ombroso perché, come si diceva, la pellicola batterica di cui è composto lo rende estremamente simile ad un’ombra sul terreno. D’altra parte, avvicinarsi troppo a un ombroso per esaminarlo non è consigliabile; sebbene sia molto lento e facile da seminare, l’ombroso rilascia intorno a sé un pulviscolo tossico, leggermente anestetico, con il quale intorpidisce la vittima che gli si avvicina. Sulle prime, non ci si fa gran caso. Può capitare, per esempio, di trovarsi appoggiati contro un muretto alle quattro del pomeriggio quando, da un portico o da un cumulo di rifiuti, inizia ad allungarsi un’ombra affilata e strana; l’ombra (ma di solito lo si nota quando è troppo tardi) non è proiettata da alcun oggetto: la si potrebbe chiamare un’ombra orfana. Questa forma allungata, che sporge dalle ombre delle case come l’ombra di un pinnacolo, vi fa venire in mente città lontane, come se la piazza del vostro paese si fosse trasformata in un cortile di Istanbul o Baghdad. La forma dell’ombra non è stabile, e fino alla fine non smetterà di affascinarvi. Questo fascino è il nocciolo del tranello in cui state cadendo. Mentre vi perdete dietro a sogni di bazar e mercanti di stoffe, di spezie, di vecchie pergamene, di cammelli, di immense pianure di sabbia, l’ombra, spostandosi in modo impercettibile, si allunga fino a staccarsi dalle altre ombre e rimanere sola in mezzo alla piazza, come se ora non appartenesse più a un pinnacolo, ma una nuvola o, meglio ancora, a un drago: e così ora guardate in cielo e, anche se in cielo non c’è niente, vi ritrovate a borbottare sottovoce una favola. Lento com’è, è davvero facile allontanarsi da un ombroso una volta che lo si sia individuato; ma anche questa facilità di fuga fa parte dell’inganno: troppo fiduciosi nella vostra velocità, vi potrà accadere di tardare troppo, prima di scendere dal muretto ed andarvene; e poi è così bello stare fermi a fissare le ombre, pensando a Istanbul e ai draghi! A questo punto, si viene colti da una profonda sonnolenza e da un insolito torpore nelle giunture dei ginocchi; è come quando si ha la febbre, ma la sensazione non è priva di una certa dolcezza. Quando finalmente abbassate di nuovo gli occhi, l’ombroso si è ormai accoccolato ai vostri piedi. Di quando in quando, se la luce è sufficiente, in ufficio, a casa, o infine in ospedale, lo potrete sorprendere mentre allunga fuori dai bordi della vostra ombra un grazioso tentacolo infetto.” FIGLIA D.C.V.: “E poi?” SECONDO F.D.C.V.: “E poi cosa” FIGLIA D.C.V.: “Basta, sei infettato e pace e amen?” SECONDO F.D.C.V.: “Non lo so, io volevo solo delucidare” FIGLIA D.C.V.: “Lei si sente delucidato?” PRIMO F.D.C.V.: “Come non mai” FIGLIA D.C.V.: “Allora andiamo avanti”], e che l’insolito color ruggine era un segnale (se dei maschi o delle femmine, e prima di tutto se ci fossero maschi e femmine nella popolazione degli ombrosi, questo era ancora da stabilire, e sono certissimo che il fantino Freud [NOTA PER L’UFFICIALE INCARICATO: È da considerare della massima priorità che il cosiddetto e qui per la prima volta nominato “fantino Freud” (…omissis…)], da giovane, già allora armato di pipa – non c’è dubbio infatti che “il lontano discendente di Konrad Lorenz” non fosse altri che lui – si fosse divertito un mondo a seminare notizie ancora più fantasiose tra i biologi in visita a Newton, spruzzando ovunque risate dagli occhi) sessuale – e ci facevano l’occhiolino, e i più maliziosi dicevano, Vediamo un po’ questa moneta, mica vorrete rifilarmi una patacca, vero? e a mia moglie, cioè alla mia futura moglie, chiedevano di far vedere le calze, e lei ogni volta arrossiva e si infuriava e se ne andava senza nemmeno prendere quello che era venuta a comprare, lasciando sul bancone tutte quelle monete mangiate, perché di solito evitava di rimettersi la calza tutta impiastricciata e non voleva far vedere che aveva lo stinco nudo, e anche se per esempio magari quel giorno, dopo che ci eravamo parlati con la radio, eravamo vicino a una fontana e lei avrebbe potuto pulire immediatamente la calza e rimettersela, era lo stesso, perché allora avrebbe dovuto mostrare la calza piena di macchie color ruggine: quelle non venivano via. E comunque, anche se non c’era contatto con le mucose, non era una buona idea indossare quelle calze, e quanto a tenersi una calza di scorta sempre pronta, le buone famiglie di Newton a questo proposito esercitavano una sorveglianza ferrea, severa e inflessibile sulle loro figlie; la cosa, non so bene perché (né in fondo so bene in effetti quale cosa), veniva mascherata ovvero pubblicizzata ovvero motivata come una forma necessaria di prevenzione dalla tubercolosi.”
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La notte venivano le streghe. Non sembravano streghe, ma lo erano. Prima di addormentarsi, Milos fissava uno degli angoli della soffitta e diceva, Sono in una capanna, e la sua camera diventava davvero una capanna, ed era piena di streghe. Erano sdraiate o sedute per terra; alcune, a volte, gli premevano un gomito contro i fianchi, sullo stomaco, per mettergli paura. Alcune ridevano: della sua paura, naturalmente, ed era questa risata la prova più sicura di tutte. Alcune per la verità erano solo stracci ammucchiati l’uno sopra l’altro, e quando accendeva la luce non c’era più nessuna strega, ma poche volte la accendeva, come se accendendola temesse di liberare irreparabilmente le streghe dall’ultima patina di irrealtà.
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Dell’esasperante incompletezza del Sommariva, specialmente del Sommariva narrativo (arcinoti i progetti incompiuti delle Operette morali II – Il ritorno di Filippo Ottonieri, oggetto della presente noticina, nonché i tronconi di pseudoarticoli giornalistici sulla fantomatica serie TV Presiden Arsitek) resta ancora da sottolineare l’altrettanto esasperante programmaticità, enunciata (manco a dirlo) sotto forma di brevi appunti in calce a una lettera a G. Valmarana:
“Come lentamente ogni vita si decompone e marcisce. La decomposizione è ciò che rende il tempo reale. Ogni cosa degrada verso il peggio, ogni vita finisce per prendere il vicolo più nero. Ciò che rende le cose reali è la decomposizione.
Così nella storia non cercare una composizione ma fa’ piuttosto in modo che la tua storia si scomponga in mille frammenti marcescenti, come uncini nella pelle lardosa del tempo.”
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“4 marzo. Quella volta, la volta cioè in cui usando il lettino di ferro – era dunque il mio lettino di ferro, non quello di mia moglie – come antenna della mia radio ero stato intercettato, intercettato non si è mai capito bene come dal giradischi del salotto di mia moglie ovvero della mia futura moglie ovvero il salotto dei suoi genitori ovvero dei suoi nonni materni i quali, dato che il padre di lei era morto in un incidente e sua madre l’aveva avuta da giovanissima e l’avevano voluta mandare (sua madre) a scuola, si erano occupati di crescere la mia futura moglie, quella volta suo padre cioè suo nonno, a sentire la mia voce, non riconoscendola da tanto era stata deformata dalle casse del giradischi e prima ancora dalla saliva e dal materiale ricevente della radio a galena, e nemmeno individuando subito il giradischi come origine di quel borbottio confuso ed eccitato ed infine nemmeno riconoscendo in quel borbottio una dichiarazione alla propria figlia cioè alla propria nipote, il padre di mia moglie, maestro elementare in pensione e partigiano durante la guerra civile, si era alzato ed era andato alla finestra per vedere chi era a parlare, avendo forse concluso che quel borbottio quasi incomprensibile fosse rivolto a lui. Era andato alla finestra e l’equivoco era andato avanti perché fuori dalla finestra, proprio dall’altra parte della strada, sotto uno dei tigli che alberavano il viale della casa dei genitori cioè dei nonni della mia futura moglie, il padre di mia moglie aveva intravisto, tra il fogliame appiccicoso del tiglio che lui vedeva da sopra dato che il loro appartamento era al terzo piano, le punte di un paio di scarpe da tennis rovinate, la manica di una giacchetta impermeabile e un frammento della nuca ossuta di uno sconosciuto.
5 marzo. Il tizio di cui il padre cioè il nonno di mia moglie aveva indovinato la figura tra il fitto fogliame come in quei giochi in cui bisogna scoprire chi è il personaggio nascosto dietro l’angolo, come questo o questo [SECONDO F.D.C.V.: “Peccato che i nostri radioascoltatori non possano vedere i due disegni” PRIMO F.D.C.V.: “Già; mi sembra di sentire fin qui il rumore dei loro denti mentre si mordono le nocche per la frustrazione” FIGLIA D.C.V.: “I due decaffeinati. Arrivano?”], e che in quel momento stava (il tizio sotto il tiglio) appoggiato a un lampione vicino all’albero, stava effettivamente parlando, probabilmente non da solo ma con qualcun altro di invisibile al padre di mia moglie, o perché questa ipotetica seconda persona si trovava ancora più sotto al fogliame rispetto al punto da cui il nonno di mia moglie osservava con sempre maggiore curiosità e turbamento la scena, o perché non si trovava sotto l’albero ma era dentro una delle case di fronte a quelle dei nonni di mia moglie, e da lì ascoltava lo sconosciuto che, come il padre di mia moglie poté notare grazie a una raffica di vento tra le foglie o a un movimento del tizio, portava un paio di jeans strappati. Al padre di mia moglie sembrò che il tizio parlasse e tacesse negli stessi istanti in cui la voce nel giradischi parlava e taceva. Ricordo il padre di mia moglie come un uomo piuttosto in là con gli anni, e questo perché appunto ormai tutti in casa lo chiamavano papà, anche se in realtà era il nonno e quindi aveva né più né meno gli anni che doveva avere; ricordo che la prima volta che ci siamo parlati, senza che naturalmente sua figlia cioè sua nipote mi presentasse come il suo fidanzato, il papà cioè il nonno aveva la tosse e un cerotto sulla testa, e anche se fin da quella volta mi aveva detto di non essere realmente il padre della mia futura moglie (anche se naturalmente non aveva parlato di nessuna futura moglie) bensì suo nonno, anche io come tutti avevo continuato, dopo che fui accolto in casa, a chiamarlo papà.”
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Quasi tutte erano giovani e belle (ma belle come puttane, però, così pensava, e il cuore gli ballava dentro la scatola del torace, perché sapeva quello che possono farti le streghe se sentono che le chiami puttane); alcune invece erano solo pelli vuote e sibilanti; altre avevano più l’apparenza di magri cani morenti, cadaveri fradici di gatti grigi con una rosa tra i denti, topi impiastricciati di colla e pezzi di vetro: la mattina ne aveva trovato davvero uno. Era ancora vivo ma forse si era spaccato una zampina cercando di liberarsi dalla trappola, perché non la muoveva. Lo stacco piano piano dalla trappola, ma quando lo mise a terra non si muoveva, ne si era lamentato quando lo aveva staccato o gli aveva tirato la zampina rotta, probabilmente era impazzito per la fatica e il terrore. Molte streghe venivano nella sua camera (“nella capanna”) a morire, ma le più ridevano e basta, e quando la mattina si svegliava aveva dei segni sulla pancia come se gliel’avessero graffiata con dei ferri da calza.
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Alcune delle progettate Operette di Sommariva risentono peraltro dei suoi rapsodici studi scientifici condotti nella biblioteca del piccolo paesino di Bristol (distretto di Schwarzschwarz) durante la malattia (e furono del resto questi studi l’occasione dei primi contatti del Nostro con Valmarana).
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“Carne in dentro e ossa in fuori, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”
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“6 marzo. Il suo (di mia moglie) vero padre, mi aveva detto il nonno la prima volta che ci eravamo parlati, sfiorando a volte il cerotto che aveva sulla testa come per controllare che non si stesse staccando e interrompendosi di frequente per via della tosse, il suo vero padre era morto molto giovane, in un folle incidente automobilistico vicino a una pietraia, che era finito con la macchina del vero padre della mia futura moglie tracciare una lenta parabola fiammeggiante, ruotando su se stessa come un fuoco d’artificio e schiantandosi infine contro i macigni verdastri e taglienti della pietraia con il cielo che ormai metteva a notte, una scena simile all’esplosione di un razzo per le esplorazioni spaziali subito dopo il lancio, così aveva detto il vecchio. Il nonno di mia moglie, un uomo, va da sé, molto all’antica per quanto fosse stato il primo a Newton ad aver avuto in casa la lavatrice (mia moglie ricordava le scene della nonna, che a nessun costo si voleva rassegnare a farsi portare via il lavoro in quel modo da quella diavoleria ululante, e la sua faccia dopo il primo bucato, come un bambino che vede per la prima volta il coniglio nel cilindro del prestigiatore), un sostenitore, il nonno di mia moglie, nonostante tutte le aperture alle Meraviglie della Scienza e della Tecnica, un sostenitore delle vecchie tradizioni, soprattutto, e anche questo va da sé, per quanto riguardava la figlia cioè la nipote (è lui che più di ogni altro insiste, con quell’insistenza silenziosa e implacabile degli uomini all’antica [FIGLIA D.C.V.: “Mi piace questo vecchio silenzioso e implacabile; me lo sto immaginando come Clint Eastwood o John Wayne, nonno John Wayne, vi ho mai detto che io pensavo che mio nonno fosse John Wayne?” SECONDO F.D.C.V.: “Taccia che qui di ricordi ne abbiamo abbastanza, si metta lì con la penna e il quaderno e scriva anche lei il suo diario, poi chissà che in futuro altri tre svitati non leggano anche quello, lo intitoli nonno John Wayne” PRIMO F.D.C.V.: “E nonna Papera” FIGLIA D.C.V. “Ma cos’avete oggi?”], insiste perché mia moglie sia sempre o dietro o davanti a me, in modo che io non possa vedere il suo volto prima del tempo stabilito, un tempo che per le vecchie tradizioni di Newton è talmente lungo che ormai non so più nemmeno dire se veramente sia mia moglie o non piuttosto la mia futura moglie, intendo per sempre futura, per sempre o davanti o dietro di me, come un camion che nella notte di continuo mi annuncia con i suoi fari l’arrivo continuamente posticipato del sole,
7 marzo. per sempre mia futura moglie, dato che il nostro matrimonio è vincolato a rituali di corteggiamento talmente rigidi e intricati che la sola lettura o descrizione dei rituali è diventata una non piccola parte del rituale stesso) [PRIMO F.D.C.V.: “To’, e questa parentesi che si chiude quando mai è stata aperta?” SECONDO F.D.C.V.: “Con le parentesi di quest’uomo è così: ci si fa caso che c’erano solo quando le chiude, come in quelle relazioni in cui uno dei due si innamora sul serio solo quando l’altro se ne va” FIGLIA D.C.V.: “Peccato che abbia deciso di starmene zitta e buona”], il nonno di mia moglie dunque si era alzato, senza aver individuato l’origine né indovinato l’appartenenza della voce, e aveva visto l’uomo fermo al lampione a parlare, a quanto gli parve, da solo; dopo qualche secondo il nonno di mia moglie si era voltato verso il giradischi e si era finalmente reso conto che la voce usciva da lì, ma ancora convinto che appartenesse (la voce) all’uomo vicino al lampione seminascosto dai rami del tiglio, aveva pensato (il nonno) ad un qualche particolare fenomeno o congiunzione atmosferica che aveva reso possibile un processo di intercettazione spontanea nel quale forse era coinvolto (così aveva cominciato a riflettere il nonno) anche il palo della luce vicino al quale l’uomo (secondo il nonno di mia moglie), forse un pazzo (di nuovo secondo il sempre più allarmato e propenso all’intervento nonno di mia moglie), stava parlando a quanto pareva da solo.”
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Dialogo fra la Materia e l’Antimateria: Due voci di vecchie signore in vestaglia blaterano di marionette invisibili in uno spazio metafisico quale verbigrazia un appartamento traboccante di ninnoli nel cuore di Varsavia o (ineguagliabili oscillazioni geografiche della prosa sommariviana) New York (“Sempre che possa esserci qualcosa come un cuore di New York” soggiunge sorniona una delle due vecchiarde); il ramo più illustre della critica ritiene definitiva e non ascrivibile allo stato embrionale dell’operetta l’assenza di indicazioni riguardo quale sia la voce di madama Materia e quale quella di madama Antimateria, allegando come prova il frammento finale nel quale le due signore, alzandosi l’una dal pianoforte l’altra dal theremin, si avvicinano l’una all’altra intenzionate ad annichilirsi reciprocamente in un apocalittico (e/ma palingenetico?) abbraccio. D’altro canto la maschera di nobildonna abbandonata e l’artiglio con cui sembra voler sventrare bambole incorporee rendono la suonatrice di theremin il personaggio più incisivo (o se si preferisce meramente eccentrico) dell’Operetta, il che beninteso non è dopotutto decisivo per decifrarne la natura.
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“Tutto impiastricciato dalla mia finta latta colloide marmellatta. Marmellatta marmellatta marmellatta, tutto impiastriccerà, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”
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8 marzo. Né era da escludere (qui è sempre il nonno, che a questo punto sta percorrendo a entusiastiche falcate il viale che porta al palazzo della paranoia) che la pazzia dello sconosciuto (solo i pazzi, questo era il folle e inconsapevole assunto del nonno, solo le parole dei pazzi vengono intercettate casualmente dai giradischi) che la pazzia dello sconosciuto fosse dotata di uno specifico quid (queste sono tutte espressioni e modi di dire del nonno di mia moglie, agghindato della cultura arlecchinesca di un maestro elementare di montagna, nonché appassionato di latino e traduttore di alcuni antichi documenti, a suo dire importantissimi per la storia del diritto internazionale [NOTA PER L’UFFICIALE INCARICATO: Si ritiene e pertanto si ordina un’approfondita indagine attorno alla circostanza che gli antichi documenti citati possano avere una connessione con l’episodio legato alla piattaforma ShallWe.com (…omissis…)], da lui rintracciati in un baule pieno di vecchi paramenti nella sacrestia di Newton) di tensione elettrostatica ovvero neurostatica ovvero nevrastatica, dato che il nonno era convinto che la follia dell’emittente giocasse un ruolo non secondario nel processo di intercettazione spontanea [PRIMO F.D.C.V.: “Sono completamente d’accordo con nonno J.W.” SECONDO F.D.C.V.: “Anch’io” FIGLIA D.C.V.: “Vi è capitato spesso di essere al centro di un simile processo di intercettazione spontanea?” SECONDO F.D.C.V.: “Naturale, naturale, io vengo qui solo perché lo impone il contratto” PRIMO F.D.C.V.: “E la coscienza” SECONDO F.D.C.V.: “Anche quella, certo” PRIMO F.D.C.V.: “E per vederci no?” SECONDO F.D.C.V.: “Certo anche per vederci, non provochi, veda, quello che intendo è che potrei starmene seduto in poltrona, tranquillo tranquillo a casa mia con il cucchiaino nell’uovo alla coque” FIGLIA D.C.V.: “Che immagine tenera” PRIMO F.D.C.V.: “Dolcissima, la vedo già, nella sua poltrona a fiori, con un accappatoio di spugna, tutto spettinato, con gli occhi da gatto spaventato” FIGLIA D.C.V.: “Ah è anche lui in via di beatificazione? Sant’Ovetto da Coque” SECONDO F.D.C.V.: “Amen. Ego te absolvo. Anzi ve absolvo a tutt’e due. Lo dico perché il cucchiaino mi farebbe da antenna, no?” FIGLIA e PRIMO F.D.C.V.: “Aaah!…” FIGLIA D.C.V.: “L’albume come catalizzatore e la materia grigia” PRIMO F.D.C.V.: “Ove presente nella confezione” FIGLIA D.C.V.: “E la materia grigia… spiritoso come materiale emittente, e intervenire così in trasmissione, come una voce disincarnata, parole che arrivano da talmente lontano da sembrare ricordi” PRIMO F.D.C.V.: “Sa che mi piace?” FIGLIA D.C.V.: “Vedo che anche i tecnici annuiscono; mi sa che la vogliono silurare” PRIMO F.D.C.V.: “Ma non crede che in questo modo rischierebbe di essere intercettato spontaneamente anche da altre trasmissioni?” FIGLIA D.C.V.: “Già, questo non penso proprio che possa essere previsto dal contratto” PRIMO F.D.C.V.: “Già, magari dagli amici del radiogiornale, se lo immagina il caos che provocherebbero i suoi ricordi—” FIGLIA D.C.V.: “La voce come un ricordo” PRIMO F.D.C.V.: “Quel che è. Se l’immagina il caos in un notiziario?” FIGLIA D.C.V.: “O nelle radio della polizia” SECONDO F.D.C.V.: “Va bene, ho capito. Giuro che non mangerò mai più un uovo alla coque in vita mia.” PRIMO F.D.C.V.: “Si consoli, che sode sono anche più buone. E non servono le mani” FIGLIA D.C.V.: “Vorrà dire i cucchiaini” PRIMO F.D.C.V.: “Quello che è”]; forse il pazzo aveva una placca metallica in testa (una cosa da reduci, questa della placca metallica, da film del terrore; in questo momento – anche se non saprei dire di quale momento si tratti, ed è precisamente in questo che consiste la sofferenza procurata dall’imbottitura, per dir così – mi viene in mente che a uno degli amici del nonno era stata appunto innestata una placca metallica nel cranio, oltre a altre protesi in altri punti del corpo, dopo che da giovane, per dimostrare ai propri amici il proprio ardimento, era salito a cavalcioni di un ordigno inesploso e in un accesso di incosciente ardimento aveva colpito ripetutamente l’ordigno con le mani fino a farlo esplodere), il che avrebbe ulteriormente spiegato l’evidente (c’era la voce che continuava a gracchiare nelle casse impolverate del giradischi) fenomeno di intercettazione spontanea di cui lui (il nonno di mia moglie) era involontario, fortunato (da un punto di vista scientifico) e sempre più allarmato e arrabbiato (da un punto di vista di pater cioè avus familias) testimone, senza contare che la placca metallica avrebbe potuto spiegare in due e la pazzia dello sconosciuto e la trasmissione radio, e del resto era noto (rifletteva il nonno, amleticamente baroccheggiando i suoi propositi di intervento nei confronti del pazzo presunto) era ben noto che i Romani, gli antichi Romani, erano per l’appunto impazziti in blocco per un’intossicazione da piombo provocata dalla presenza di quel tossico elemento nelle tubature dei loro acquedotti, né era da escludere che quella stessa intossicazione avesse provocato, magari proprio vicino a piante di tiglio, magari tra centurioni bardati di tutto punto di potenzialmente trasmittenti corazze metalliche, fenomeni di trasmissione radio spontanea, che ai tempi saranno stati interpretati come voci divine o voci dei morti o voci di ninfe (quantunque borbottanti) e chi più ne ha più ne metta, così pensava il nonno scuotendo mentalmente la testa, senza togliere lo sguardo dal pazzo sotto il tiglio.”
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Dialogo fra la Luce e i Colori: Decomposizione e/o scomposizione quali, secondo la fortunata formula di A. Favori (nel quale il ramo diciamo complottista della critica ha creduto e crede di riconoscere una maschera dello stesso Sommariva, che quindi sarebbe critico di se stesso sebbene – pudica astuzia di un’anima vanitosa? puro e semplice abbaglio del ramo complottista? – un critico tutt’altro che tenero e affezionato), “demoni tutelari” dell’opera di Sommariva, non potevano mancare in quello che doveva essere, almeno nel di lui progetto, il suo capolavoro. La scomposizione della Luce nei Colori, per noi istantanea, viene inscenata nell’incommensurabile tempo della Luce quale lentissima eviscerazione del bianco, “variopinto squartamento fermentante”. Si deve a una occasionale osservazione di S. Celibidache la corretta interpretazione delle parole polacche powoli bardzo (“molto lentamente”) con cui la Luce dà avvio al dialogo (unanimi qui critica complottista e critica accademica – questa in genere quantomai aliena al complottismo, aliena a un livello che di tanto in tanto, lo si conceda, rasenta la dabbenaggine – nell’osservare come le Operette di carattere scientifico abbiano l’impronta di dia-(/mono-)loghi tra una certa entità e quelli che potremmo definire i suoi stessi riflessi, il che – si intromette qui il ramo psicanalitico dei sommarivisti – sarebbe facilmente riconducibile a quella sorta di – benefico? la questione resta aperta – transfert ondulatorio sintomo-opera che scandisce i tormentati anni di malattia nel villaggio di Bristol) con i Colori. Powoli bardzo (nel Dialogo implorazione della Luce a un invisibile ma “lardosamente onnipresente” Tempo) era infatti la raccomandazione che F. Chopin ripeteva instancabilmente ai propri allievi, promettendo loro, se avessero appunto persistito nello studio a velocità il più lenta possibile dei brani da eseguire, di un “piccolo tesoro”: e appunto “piccolo tesoro” sono le parole conclusive del Dialogo, con le quali il Giallo si congeda dagli altri Colori e dalla Luce.
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“Uccisela e poi clonolla, hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi hi!”
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“9 marzo. E insomma il nonno di mia moglie (dato che a quanto pare è ormai definitivamente stabilito che la donna che è con me nella città del nord è mia moglie, e che il vecchio che sta raccogliendo le ultime forze e motivazioni necessarie per scendere le scale e aggredire il pazzo che sotto il tiglio con ogni evidenza complotta tra sé e sé progettando di amareggiare con le sue follie la sua (del vecchio) famiglia, quel vecchio è suo nonno, ormai posso una volta per tutte chiamarlo mio nonno o più semplicemente il nonno) il nonno tra intercettazioni, placche metalliche, reduci impazziti, ordigni inesplosi e acquedotti romani si stava alla fin fine divertendo un mondo e adesso si voltava, con quei rigidi passetti sul posto che fanno i vecchi per voltarsi, si voltava dalle casse dello stereo all’uomo che parlava al lampione, il solito pazzo ubriaco da Settimana Enigmistica che la notte parla ai lampioni e che rincasando trova la moglie ancora alzata che brandisce un mattarello o un battipanni (ricordo che nel paese in cui sono nato ce n’era uno, un alcolizzato più che un pazzo, che dava il vino al lampione, con gesti cerimoniosi e solenni, e quando se ne andava era come se qualcuno avesse pisciato sangue sul lampione), sempre più divertito ed eccitato e pronto ad entrare in azione, il nonno stava quasi per chiamare in salotto anche la nonna, ma si era come pietrificato così, il braccio debolmente alzato verso la cucina dove di solito stava la nonna, un’espressione di rammarico misto a divertimento, e il rammarico era perché il nonno era consapevole che la nonna era destinata a perdersi tutta la scenetta.
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Dialogo tra lo Spazio e il Tempo: Tra i risultati estremi della prosa di Sommariva. A intervalli che eccedono di gran lunga l’età stimata dell’Universo, vi si vuole che Spazio e Tempo diano vita a una privata conversazione. Per poter fare ciò, tuttavia, sono costretti a separarsi l’uno dall’altro, con sconvolgimenti apocalittici (ovvero, data la loro periodicità, ecpirotici) nell’intero cosmo (e che qualsiasi dialogo sia dopotutto un momento di completa devastazione è un altro dei fondamenti del cosiddetto pensiero di Sommariva). Orfani l’uno dell’altro, Spazio e Tempo sono a loro volta oggetto di radicali sconvolgimenti: nel corso del Dialogo lo Spazio attraversa di continuo (anche dal punto di vista dell’espressione linguistica, e anche all’interno di una singola battuta), “in avanti e in indietro”, tutte le età, dalla prenatale (né è mancato chi ha voluto riconoscervi un larvato e obliquo omaggio al feto kubrickiano) all’ultracentenaria, passando dal vagito dell’infante al gorgoglìo del vecchio rimbambito (“estremi ecpirotici del Verbo?” chiosava, un tantino irritato, Favori), mentre dal canto suo il Tempo passa “in insù e in ingiù” dalle dimensioni di un atomo dalla voce talmente ridotta da poter essere scambiata per una vibrazione dell’aria a quelle di un colosso la cui voce è nuovamente e inversamente talmente vasta da poter essere scambiata per una vibrazione dell’aria, “Augmentatio per diminutionem, per augmentationem diminutio”: talché la gran parte del brevissimo dialogo consiste di battute in cui uno dei due interlocutori chiede all’altro di ripetere quello che ha appena detto, usando parole che per l’altro sono del resto quasi del tutto incomprensibili. “Stravolti esattamente come lo sono sempre nelle pagine di un libro” (citiamo qui gli appunti preparatori di Sommariva al Dialogo in esame) “nella pagina, e si intende in qualsiasi pagina, i due gemelli siamesi [i.e. il Tempo e lo Spazio, n.d.r.] vengono reciprocamente amputati l’uno dell’altro e con ciò sottoposti alle più crudeli e istantanee deformazioni: tempo e spazio, con crudelissima disinvoltura, vengono orribilmente dilatati e contratti: tutti i libri, e segnatamente i romanzi, sono l’inferno del Tempo e dello Spazio ovvero l’apocalisse del Cosmo: e perciò l’unici <sic> veri libri non possono e non debbono che essere Apocalissi: nessun libro può davvero aspirare a dirsi tale se come minimo non cerca di mettere in atto l’incenerimento di tutto ciò che esiste, e quindi anche di se stesso.”
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(Quando sarà ormai troppo tardi, Sarahs rivelerà a Milos di aver visto le streghe anche lei.) Come se la latta dell’architetto avesse impiastricciato tutto, e adesso non è più possibile capire cos’è mio e cosa no, tutto è stato rimescolato e rivoltato come un guanto, ora le ossa sono all’esterno e la pelle è all’interno, non era l’architetto che diceva questo essere l’ordine naturale? carne dentro e ossa fuori? forse è successo così a tutto quanto, tutto ha ripreso il suo ordine naturale da quando sono entrato nella cassa dell’architetto e mi sono risvegliato sul treno con il cuore tutto accartocciato, tutto accartocciato, tutto accartocciato, è a questo che alla fin fine servono le macchine e la latta dell’architetto, ad accartocciare la carne in modo che possa stare dentro le ossa, tutto accartocciato e polverizzato e farsato, farsato cioè versato dentro la colonna vertebrale, la corolla vertebrale, la clonolla verdemare.
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E ora siamo come enormi bruchi bianchi incartapecoriti, cioè io sarò così e non mi sembrerà naturale per niente, anche se è l’ordine giusto per me non sarà naturale, ma indietro non si torna, ovvero, indietro probabilmente è ancora peggio, ovvero, ancora più naturale, più una cosa è naturale più è terrificante, questo ho imparato dall’architetto: come tutto ciò che si impara dal presidente, un insegnamento che si vorrebbe dimenticare non appena lo si riceve.
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Poiché più una cosa è naturale più è terrificante, e gli unici libri che davvero esistono sono le Apocalissi. Che la storia dunque si decomponga in mille lacerti melmosi, uncini nella fanfara del tempo. Gli unici libri che possono definirsi tali sono quelli che aspirano a incenerire tutto, compresi se stessi. La luce c’è perché qualcosa, lontano quanto si voglia, sta bruciando.
(Ma qui ci fermiamo, giacché della sciagurata infatuazione di Sommariva per gli incenerimenti avremo in seguito fin troppo modo di parlare…)
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Piccolo tesoro.
[continua l’11 giugno]