Si svegliò di soprassalto, madido, impaurito, con un tremore nelle braccia, il cuore che impazziva, come se un demone lo avesse visitato in sogno, come se una visione terribile gli avesse alterato il senno.
Si sedette sul giaciglio. Stranito. Frastornato. Con lo sguardo spalancato dentro il vuoto.
Aveva visto tutto in un istante.
Nell’istante di un sogno aveva visto l’opera compiuta, il mosaico che non aveva ancora cominciato, che da anni e anni pensava, ripensava, lo aveva visto tutto dentro il sogno. Sontuoso. Magnifico. Perfetto.
Uscì dalla cella.
Cercò di evitare i confratelli.
Sulla soglia l’abate gli chiese del mosaico.
Glielo chiedeva ogni mattina prima che scendesse a Otranto.
Glielo chiedeva ogni sera quando risaliva. Come a ricordargli che per quell’opera di bellezza e di passione, di misericordia e di magia, lo aveva dispensato da ogni altro uffizio.
Pantaleone rispose che gli serviva tempo ancora.
L’abate lo guardò, perplesso, sospettoso. Gli chiese quanto tempo ancora gli serviva.
Pantaleone rispose che non lo sapeva. Tempo, disse, tempo. Il disegno era squilibrato, approssimativo.
Così rispose. Poi s’avviò per il sentiero.
Cresceva un’alba cremisi nell’afa densa e greve del giorno di mezzo agosto, nell’aria soffocata dall’ odore di mortella, straziata dallo stridio delle cicale.
Mentre scendeva si voltò a guardare l’abbazia.
S’era fatto monaco lì, a San Nicola di Càsole.
In quel luogo di preghiera e di sapienza.
Lì, tra i volumi di ogni genere della biblioteca, si era figurato le immagini del mosaico, le forme, le storie, i simboli, gli enigmi.
Entrò nella cattedrale già inondata dalla luce del mattino acerbo.
Scese nella cripta. Prese il foglio riposto dietro una colonna, lo dispiegò per terra. Lo fermò con le pietre agli angoli.
All’abate aveva mentito. Per questo avrebbe fatto penitenza, si disse.
Il disegno era pronto, definito nel suo complesso, nei particolari.
Guardò l’Albero della vita. Le figure di Adamo e di Eva, del serpente. Il Leviatano che inghiotte la lepre, l’antilope, il centauro, l’unicorno, re Salomone, la Regina di Saba, il leopardo, l’ariete, la sirena, l’asino che suona la lira, Sansone che lotta contro un leone, il drago alato che stritola un cervo, re Artù a cavallo di un caprone, il Diluvio Universale, la Torre di Babele, Alessandro Magno portato in cielo dai grifoni, e poi figure d’uomo e d’animale, e poi le Erinni, Satana, Caronte.
Era tutto lì, in quel disegno, in quel delirio sapiente di forme.
Non era giovane più, non era ancora vecchio, Pantaleone.
Aveva quell’età che è un confine che si oltrepassa in fretta, quella che a volte si ripiega come un albero quando i rami sono carichi di neve.
Non si sentiva il vigore per cominciare quell’impresa.
Quanto tempo ci sarebbe voluto, si chiedeva.
Si chiedeva se quel tempo gli sarebbe stato dato. Non voleva lasciare ad altri quell’idea.
Il disegno era solo superficie. Sotto il disegno c’era tutta la sua vita. Le notti insonni, gli studi, l’ossessione silenziosa per l’armonia di una sintesi fra il pensiero d’Oriente e d’Occidente, fra la storia e la leggenda, la fantasia e il rigore, il visibile e l’invisibile, l’eterno e il transeunte, il mistero e la rivelazione, il noto e l’ignoto, la geometria e la fede, il sublime, il profetico, il mostruoso.
Guardò il disegno. Lo riguardò. Verificò ogni prospettiva, ogni proporzione. Analizzò ogni particolare.
Tornò all’abbazia che era già scurito.
L’abate non gli chiese nulla quella sera.
Mangiò la zuppa di legumi in fretta. Poi si ritirò nella cella.
Dalla feritoia guardò la distesa di stelle e gli venne il desiderio di piangere.
Pensava che sarebbe stato meglio abbandonare. Vivere come gli altri confratelli, alla giornata.
In fondo il mosaico che aveva disegnato, che avrebbe voluto comporre pietra per pietra, non avrebbe cambiato il suo destino. Non avrebbe cambiato il destino di nessuno.
Così pensava.
Ma poi considerava che non poteva soffocare quell’idea, che non poteva cedere allo sconforto, alla stanchezza insidiosa delle membra, della mente.
Cercava di pregare e non riusciva.
Cercò di dormire. Inutilmente.
Le immagini del mosaico gli vorticavano nel pensiero. Si formavano, si scioglievano, apparivano, scomparivano, poi riapparivano, si dilatavano, si restringevano, si sovrapponevano.
Si stringeva le spalle con le braccia per cercare di placare il capogiro.
Passò la notte così, nella vertigine.
Quando uscì non era ancora l’alba.
Un alito di vento che gli parve un’illusione gli passò sopra il volto, tra i capelli radi.
Scese il sentiero e non si voltò a guardare.
Quando arrivò a Otranto si sentiva spossato.
Pensò ancora che non poteva cominciare quell’impresa. Non ce l’avrebbe fatta. Non più a quell’età. A quell’età non poteva.
Entrò nella cattedrale.
Una luce nitida, brillante, cominciava ad insinuarsi a fiotti dal portale, si raggomitolava agli angoli, scivolava ai piedi dell’altare, si avvolgeva alle colonne, galleggiava nella navata.
Pantaleone strinse gli occhi. Si passò le dita sulle palpebre. Come per abituare le pupille a quella luce. Come per liberarle dal buiore.
Scese nella cripta. Dispiegò il disegno.
Ebbe una palpitazione, un trasalimento.
Tra i rami dell’Albero della vita mancavano due arcangeli.
Che li avesse disegnati era sicuro.
Era sicuro che li avesse visti il giorno prima.
Due arcangeli che si riguardavano.
Che avesse disegnato Raziele era sicuro. L’arcangelo dei misteri. Colui che è a sentinella delle idee e della conoscenza.
Era sicuro che avesse disegnato Auriele, signore della notte e dell’inverno, che consente di contemplare l’avvenire.
Tra i rami dell’albero della vita, Raziele e Auriele non c’erano più.
Pantaleone si sentì smarrito.
Pensò che l’assillo per quell’opera gli avesse stravolto il pensiero. Ormai era convinto che doveva rinunciare.
Troppo grande per un uomo dell’ età che aveva.
Troppo grande per un uomo di qualsiasi età.
Risalì nella cattedrale.
Quello che vide nella cattedrale lo sbigottì.
Si aggrappò alla colonna.
Guardò il tabernacolo sull’altare.
Si fece il segno della croce.
Due giovani uomini con una tunica bianca avevano messo mano al mosaico.
Sotto le loro mani si componevano le figure che aveva pensato, disegnato.
Il suo mosaico prendeva forma, si dispiegava sul pavimento, generato da tessere di pietra di innumerabili colori.
L’Albero della vita cresceva sotto i suoi occhi.
Quasi nascosto in un angolo, Pantaleone assisteva al miracolo del mosaico che aveva sognato.
Pensò che avrebbe potuto finalmente dire all’abate che la sua opera era compiuta.
Sì, avrebbe detto così: la sua opera.
Mentendo. Peccando.
Ma non mentendo completamente. Non completamente peccando.
Perché quel mosaico era la sua opera, e se gli mancava la forza delle braccia, non dipendeva certo dalla sua intenzione, non dipendeva dal suo pensiero.
Poi non gli importava di mentire.
Non gli importava nemmeno di peccare.
Guardava i due giovani uomini che producevano le scene dell’inferno e del paradiso.
La luce cominciava a ritirarsi.
I due giovani vestiti di bianco alzarono la testa, guardarono Pantaleone, senza dire niente.
Pantaleone li guardò, nella penombra.
Si somigliavano. Straordinariamente. Sembravano un uomo solo.
Li guardò ancora e lo stravolse uno stupore fino a fargli sentire un mancamento.
Avevano il suo volto.
Avevano il volto che aveva lui a vent’anni.
Si tenne ancora più forte alla colonna per non cadere.
Si era fatto buio nella cattedrale.
Passò la notte rannicchiato nell’angolo dal quale aveva osservato i due giovani che componevano il mosaico.
Non sentì i dolori nelle ossa delle mani, dei ginocchi, quella notte. Non aveva affanno e i pensieri erano lievi. Rivide sua madre che gli accarezzava la fronte. Rivide suo padre portare al pascolo le capre. Si rivide mentre cercava di capire dov’è il punto in cui finisce il mare.
Quando si fece l’alba nuova, Pantaleone cercò con lo sguardo i giovani e non li vide. Non li vide più.
Poi osservò il mosaico.
Raziele e Auriele erano nel punto esatto in cui lui li aveva disegnati.
Con il volto dei due giovani dalla tunica bianca.
Con il suo volto al tempo dei vent’anni.
[Pubblicato in www.iuncturae.eu del 23 giugno 2017]