Era stata qualche anno in America, dove aveva perso i sensi e si era fatta così triste che neanche si soffiava più il naso. Il figlio grande si dispiaceva a vederla ridotta in quello stato e l’accompagnò alla nave approfittando che partiva una cugina malata di nostalgia. L’americana perse il ricordo del figlio in tutto quel mare: il suo nome se lo mangiarono i pesci, e venne a stare a Potenza, in casa di un fratello. Lui si chiamava Angelo, teneva una stanza all’estramurale e non si era mai sposato, aveva la forza di un bue e detestava i bambini, che gli erano più estranei dell’alfabeto, dell’elettricità e della luna. Quando si addormentava, con le spalle poggiate alle latrine, guardava storto pure il sonno. Neanche con il sole sembrava mai farsi compagnia; non faceva amicizia neanche con il pane ; beveva, in cantina, ma non aveva mai la faccia di chi pensa al vino con tenerezza; forse tornava in un gesto dell’infanzia quando pisciava nel barattolo grande, dietro la tenda. L’americana era piccola, secca e gli si era seccata pure la memoria; andava a servizio da una signora; il figlio, non lo nominava. Usciva la mattina presto, in sottana, e raccoglieva una paletta di brace dal fuoco che accendevamo ogni sera, sullo spiazzo, noi bambini. Un giorno la vedemmo, dritta, su una sedia, nel momento che il fratello le dava uno schiaffo, e sembrava una pietra in faccia. Invece di lamentarsi, si mise a cantare in una lingua senza capo né coda, uno stridore infantile, e tremava, come un uccello impaurito dal sentirsi addosso una forma umana. Ma non scendeva dalla sedia. Il fratello, lo chiamavano quando c’erano cose pesanti e scomode da trasportare, vecchi armadi, letti di ferro, tavoli che parevano case. Teneva una parlata che era un rumore infelice anche quando rideva. Il giorno che morì la sorella, cercò una vestina, tra quelle che si era portata dall’America, gliela infilò, senza farsi aiutare da nessuno, tirò la tenda per farle prendere un po’ di sole.
Giocavamo là vicino e la palla finì in casa, sotto il letto dove era stesa l’americana. Il fratello era calato a sonno sul gradino, ma nessuno voleva avventurarsi in quella stanza, per paura della morta, e perché il sonno di quell’uomo era una trave che poteva caderci sulla testa. La gente che passava, si faceva il segno della croce e cercava, con gli occhi, il letto, che non compariva, per il buio che c’era in quella casa. Qualcuno entrava, si piegava sulla vecchia per un bacio, almeno così pareva, e veniva voglia di chiedergli se si curvava un altro poco e ci tirava la palla da là sotto. Ma ci mancava il coraggio. C’era gente che si fermava davanti alla porta e toglieva il sole al fratello, che apriva gli occhi un momento, per il fastidio di non sentire più quel tepore, ma non si arrabbiava; e questo fatto era una meraviglia. La sorte decise che dovevo essere io a infilarmi sotto il letto, e feci una corsa, con le mani per terra, chiudendo gli occhi, subito dopo la soglia, un momento che il fratello dormiva. Mi ritrovai sotto il letto: tastai l’aria con il cuore che mi usciva dal petto e acchiappai il pisciaturo, che teneva il manico gelato e mi sembrava di aver toccato l’angelo del catafalco. Sentivo sopra di me i mari che mi aveva raccontato mia madre, i laghi dove passeggiava Gesù, sfioravo barche celesti, reti con i pesci delle catacombe, stracariche delle risate dei Santi. La morta si divertiva a gelarmi le orecchie con le sue gambe di bambina felice, che fingeva un corpo di vecchia sfatta come ultimo gioco della terra. Urtai la palla e quella finì chissà dove; sentivo gli angeli saltimbanchi con le loro scarpine di seta sulle mie spalle, giravo attorno a me stesso come un topo capitato nella luce di mezzogiorno. La palla era in cielo o in terra? Finalmente la sentii sotto le dita; riuscii ad abbrancarla con tutte e due le mani, me la infilai nel petto, aprii gli occhi, mi girai, e via, a quattro zampe, di corsa, dove mi aspettavano i compagni per finire la partita.