La speranza che mi portasse per mano, nei giorni dei fidanzamenti, dell’amore all’aperto, quando essere innamorati voleva dire, sopra tutto, aspettare di guardare e guardare. Sulla porta mi colpì la sua timidezza, lei, che aveva uno sguardo così vivo. Mi sembrò preoccupata e come in soggezione. Era una donna piena di acciacchi, ma ci teneva a mostrare una grande vitalità, ed era innamorata, più di tutto, di quel figlio. Facevano pensare a due amanti che non si rivolgono la parola davanti ad estranei, e tutti erano estranei al loro segreto, per non tradirsi, per non sciupare la tensione amorosa. Le avevo telefonato: – Sto scrivendo un libro sulle ragazze di una volta – . Invece che in cucina, dove di solito accompagnava gli ospiti, spinse la porta di una stanzetta, una specie di studio, un tavolo e due sedie, quasi l’avesse preparato per l’occasione; mi accostò un vassoio di cioccolatini, che lei non mangiava per il diabete: ne avrebbe divorati, e come, ma le piaceva tenerli dappertutto, dentro casa, e sospirarli. Tirai fuori un quaderno di appunti, le accennai a vecchi film d’amore e le chiesi se le ragazze si raccontavano quelle storie o se erano troppo spensierate, troppo pigre per farlo. Avevano forse pietà di quei fantasmi, che baciavano altri fantasmi? Dicevo cose un po’ strambe, nella speranza che, da un momento all’altro, per rimettere ordine e per chiarirmi le idee, prendesse, lei, il filo del racconto. Le parlai dei balli nelle case, dei corteggiamenti a sole aperto e sotto la neve, restando volutamente nel vago, anche quando pensavo di saperne abbastanza. Questo, per tirarla nel gioco, perché sentisse il desiderio di togliermi dei dubbi, di venirmi in aiuto. Ricordo che mi faceva male un dente, che avevo patito tutta la notte, ma non ce la feci a rifiutare un cioccolatino; né potevo infilarmelo in tasca, ché non sarebbe stato bello, così lo scartai e cominciai a masticarlo dalla parte buona della bocca; ma, come succede in questi casi, mi scordai il dente assassino finché non sentii una fitta. Abbozzai una smorfia di dolore e un sorriso più o meno stupido. Il dolore passò, ma ogni volta che accostavo la lingua al dente, per rassicurarmi che non facesse più male, vedevo le stelle. Cos’era l’amore?
C’erano ragazze che si lavavano la faccia nel bacile pieno di petali di ginestre: lo facevano i giorni di festa. Lei mi ascoltava senza fiatare; se ne stava lì, dall’altra parte del tavolo, con un sorriso incredulo, come scoprisse, solo allora, di essere stata anch’essa una ragazza. Quando le chiesi se fosse mai andata in bicicletta, arrossì. Leggevo delle poesie in dialetto, tutte storie più o meno cantate, sapendo che parlava quella lingua così come si cammina, si piange, si ride o ci si addormenta. Ma lei non aggiungeva nulla, raccolta, com’era, in uno stupore infantile. Con il passare del tempo, comparivano, nei suoi occhi, lampi di commozione, e come un’ombra di vergogna a starsene lì, seduta nella sua giovinezza, davanti all’amico del figlio. In altri momenti sembrava volesse dirmi: “È vero? È vero che avevo quindici anni? È vero che la città era bella? È vero che sono stata felice, prima ancora di avere dei figli?”. Ebbi l’impressione, a un certo punto, che ricordasse di avere avuto i capelli lunghi. La timidezza le impediva di cercare, nella mente, altri ricordi di sé, del suo corpo. In ogni caso, tutti gli sforzi sarebbero stati vani. Come mia madre e mille altre ragazze, aveva carezzato il suo uomo al buio, e mai, neanche con i propri occhi, aveva potuto guardarsi nuda, con la sola pelle addosso. Né era mai capitata davanti a uno specchio, piccolo o grande, se non vestita. Sapevo che portava la dentiera, ma non le avevo mai visto quel sorriso, in faccia, che ravvivava, adesso, i suoi denti finti. A un certo punto, mi chiese: “È vero? Quello che dici è vero?”. Avevo finito di scorrere i miei appunti, e lei non aveva ancora aperto bocca. Quando si accorse che il racconto era finito, cambiò faccia; in un momento, si fece seria, ansiosa, come se lì attorno fosse comparso il figlio e si fosse ingelosito a vederla tornare indietro nel tempo, quando lui ancora non c’era.