Il vento sparge un odore di lavanda. Attraversano un’invasione di Tulipa australis, il tulipano dei monti. Alti così erano saliti solo per sfuggire alle truppe di Murat, quelle accampate davanti all’isola.
Strana gente abita queste praterie, pastori, cacciatori specializzati in trappole, gli sguardi bassi e torvi di chi tiene costantemente d’occhio il pericolo, occhi poco abituati alle intrusioni.
Un acquazzone li ha sorpresi nel bosco, meno male che trovano un mezzo riparo. Le caselle, così le chiamano gli indigeni, sono buie, tutte pietra e tufo, e ci si sta a malapena in tre; sono luoghi che attirano malcapitati e ronde, e l’acqua alla lunga vi penetra comunque.
Quando cessa è sera tardi, crolla sulla valle un’esplosione di luna, e si rimettono in cammino.
Lemoine ha fin da subito qualche difficoltà nell’orientarsi, studia i bivi, imbocca un sentiero, poi se ne pente e li fa tornare indietro. Cosa sta cercando?
L’alba li trova al limite della vegetazione. Un volo di gheppi sorveglia i prati. Finalmente, prima di addormentarsi tra gli scogli, possono togliersi i vestiti e farli asciugare.
Dumont ha chiesto spiegazioni. Rimprovera a Lemoine il fatto di averli costretti a lasciare le vallate sul mare, visto che, a quanto pare, dalla valle di Diano alla baia di Port Maurice li separava un solo sperone di roccia e pini.
Anche oggi è risuccesso qualcosa di piuttosto strano. È giorno, pioviggina, e hanno deciso di proseguire, non si vede anima viva, non ci sono rotabili, nemmeno terreni coltivati, e d’un tratto, strada facendo, Lemoine si è fermato e ha fatto ruotare gli occhi sui ghiaioni come se avesse percepito un pericolo.
«Cosa c’è?»
«Una tana, da qualche parte, una slabbratura da attraversare di sghembo, di quelle che raccolgono gli inghiottitoi delle montagne».
Ha puntato senza convinzione il cannocchiale sulle pareti lontane, erose e nere.
«È così difficile orientarsi dopo tanto tempo.»
«Lo dici sempre.»
Si sono fermati più avanti.
«E qui, ti orienti qui?»
«Era inverno, avevamo messo su l’accampamento… Un giorno, inseguendo un capriolo, abbiamo scoperto un passaggio segreto. Dalla guida siamo venuti a sapere che era la “Tana degli Alberibelli”, un corridoio, con tutto un traffico di alabastro che mena dentro…»
Non si dicono altro.
E ora che ha smesso e si sono sdraiati mezzi nudi in una crepa, non si tornano più a dire nulla. Il sole ventoso asciugherebbe in fretta i vestiti, ma la stesa darebbe nell’occhio da lontano, e allora posano le cose tra le scogliere, ci metteranno un po’ di più a seccare, tutto lì.
Stanno come in una specie di trincea. Anche nelle dune lungo il Maryut si stava nascosti così. Il silenzio lo rompono i corvi, le poiane, poi la notte, i lupi. A breve resteranno senza greggi e diverranno pericolosi.
Dumont tocca i vestiti. Bagnati. E fa freddo.
Dopo le piogge sono nati i funghi, ma Lemoine consiglia di non fidarsi. Riconoscerebbero solo le coulemelles, in italiano sono le mazze di tamburo, ha detto. Peraltro non ne hanno ancora trovato. Sono funghi alti, crescono solo nei prati e si noterebbero a una certa distanza, se i falciatori non avessero spellato ogni forma di vita commestibile fino all’argilla.
Dumont si è di nuovo alzato a girare la stesa dei vestiti.
Il vento li aveva spostati, è un vento che si infila e trascina le cose anche all’interno delle aperture. Posa sui capi una pietra, poi torna a seppellirsi nella trincea. Si abbraccia, si rannicchia. Lo fanno anche loro.
Tira vento fino all’alba, s’intrufola nella ramaglia e sibila come le sartie sul Carriere.
«Li sentite?» ha chiesto Dumont.
Non rispondono.
Ora i lupi si sentono bene, relativamente distanti.
Qualcuno dovrebbe stare di guardia, ma Dumont non ne vede la necessità. Urruti non replica e si volta dall’altra parte.
Ben dopo l’alba Dumont sbarra gli occhi. L’ha svegliato un incrocio di correnti, come un allarme, di colpo è aumentato e dopo un po’, così come aveva sbattuto la vegetazione del costone, si è calmato. Somigliava all’avvicinarsi di un carro, alla corsa di un cavallo su un tappeto di canne. Ma dev’essersene accorto solo lui, perché il capitano e Urruti (non ce l’hanno fatta ad aspettare e nella notte si sono coperti coi vestiti ancora umidi) non battono ciglio.
Esce dal riparo e si guarda attorno in un’impressione di essere giunto alla fine del viaggio.
La fonte attribuisce a quel giorno uno degli incontri più strani con la popolazione indigena.
Dumont ha svegliato Urruti per dirgli che va a dare un’occhiata in giro. Di giorno, dall’area in cui si trovano, non si sposteranno e allora occorre farsi un’idea su come stanno le cose. Urruti tira giusto fuori la testa e la rimette sotto la coperta.
Il greto del torrente è di quel verde pietroso delle montagne liguri. In primavera, autunno e inverno si rifornisce, ma ora tra gli scogli lisci e tondi scorrono giusto quattro bracciate d’acqua. Sui fianchi, abeti radi e arbusti aggrappati alla ghiaia, e casupole dalla copertura di lastre di pietra verde. Da lontano si scambiano per tetti coperti di muschio.
Baracche di legno rovinate dalle intemperie. Devono essere ripari utilizzati dai pastori dediti alla transumanza. Un filo di fumo, dal quale conviene star lontano.
Delle voci, e un sospetto… Sono voci di bambini. Che ci fanno dei bambini in un posto così scorticato e fuori del mondo? Aggira la rupe, senza esporsi. Un falò, un altro paio di casolari, e una piccola catasta di legna, capre nel recinto. E qualche donna e uomo dall’aria malconcia, un paio hanno mani e i volti deformi. Un lebbrosario? Dove si sono infilati?
Arriva un forte odore, nauseabondo, un odore aspro quale può giungere solo da un distillato. Una giovane donna, energica per come si muove, china su un malato… Ma cosa fa? Non pensava di rivedere una scena simile. A Castaner-le-Haut era la frizione che usata sui malati di colera… Un odore insopportabile, nell’aria pungente…
Un bambino, giunto da qualche corsa per i ghiaioni, si ferma alle sue spalle, e si mette a strillare. Dumont gli fa segno di tacere. Non serve.
L’infermiera rialza il tronco e vedendolo si mette a urlare anche lei. Devono essere ordini, perché il bambino sparisce, e i malati, e anche quelli all’apparenza sani, l’intera popolazione del lebbrosario, vecchi, bambini, donne, cani compresi, si addossa alle pareti dei casolari, come se là, contro le pietre, si sapessero al sicuro.
La donna si è armata di roncola e gli viene incontro. Un piccolo crocifisso di legno le pende sul petto, ma non indossa abiti religiosi, la tunica, stracciata e lurida, è quella delle contadine infreddolite, il fazzoletto in testa, le gambe nude. Si ferma accanto a un semenzaio. Ci crescono patate, cipolle, aglio, chi coltiva la terra ha costruito gallerie con la ramaglia per proteggere i virgulti. La donna si china e sradica una dopo l’altra una dozzina di carote, le scrolla, fin quando non si liberano dell’argilla e le posa accanto al solco. Poi allunga un passo e con la roncola taglia un po’ di lattuga. Scrolla anch’essa, è foglia gagliarda, nasce da un terreno ben drenato. Per ultimo dissotterra un gambo d’aglio, taglia la testa e il gambo le serve per avvolgere la lattuga, stringe e fa un nodo.
«Morbus» dice per avvisarlo.
Lui annuisce, e a quel punto la donna gli getta a due mani le carote e il cespo di lattuga. Dumont si china a raccogliere e nel mentre gli arriva in testa la capocchia di aglio. I bambini ridono. Anche la donna, e tutta quella gente sdentata, tutti quanti ridono di gusto.
La donna fa segno di aspettare, corre verso i casolari, come corrono le donne, tenendosi la gonna, e quando torna ha in mano tre enormi mazze da tamburo. Gliele getta una alla volta. Dumont ha posato in fretta le cose che aveva in mano. Raccoglie le mazze di tamburo, un gambo si stacca, gli cade di mano, Dumont si china a raccoglierlo e in qualche modo deve arraffare anche cosa aveva posato per terra, facendo ricadere qualcosa, e tutti ridono.
Alla fine decide di risolvere diversamente: si toglie la giubba, la stende, aperta, e all’interno vi depone ogni ben di Dio. Poi la richiude. Saluta con un inchino e si allontana con il fagotto.
Aggirata la rupe, raggiunge il corso e si inginocchia a lavare le cose. I bambini lo seguono da lontano, ma poi si avvicinano e Dumont li ha mandati via. Anche la donna li richiama, non tutti i bambini ubbidiscono e Dumont insiste perché se ne vadano.
«Ha detto Morbus, ne sono certo, ma tolto quello che puzzava di unguenti, parevano infetti solo da lebbra…»
«Sicuro, lo fosse?» chiedono a bocca piena.
« Colera? Di quella roba me ne intendo.»
Meglio allora, sostiene Lemoine, un lazzaretto è il luogo più igienico di una giurisdizione.
Si alza dall’accampamento sotterraneo, si ripulisce, sbadiglia, si guarda attorno che non ci siano bambini e curiosi. Si mette il cannocchiale a tracolla e si allontana su per il ghiaione aggrappandosi a fatica agli arbusti.
«Dove va?»
«A guardare il lazzaretto.»
«Non credo. Dove va?»
«Ha un appuntamento… Ma non chiedermi altro.»
«Deve girare alla larga dai casolari, se i bambini lo vedono lo seguono e non se li toglie più dai piedi…» E dopo un po’:«Ci gioca l’imbarco?»
«Sull’imbarco non devi disperare.»
«Mi dispero per il resto… Ci stiamo allontanando dalla costa e secondo me la valle di Port Maurice l’abbiamo passata da un pezzo.»
«È possibile.»
Lemoine si rifà vivo qualche ora dopo, assetato e demoralizzato. Dalla larga fessura che accoglie Urruti e Dumont, lo vedono chinarsi sul corso e bere, sciacquarsi il collo, e asciugarsi con il suo straccetto incrostato di sangue che poi immerge e lava. E lo sentono urlare qualcosa ai bambini che l’hanno seguito… Quando raggiunge l’accampamento, si sistema nel punto più riparato dal vento, la coperta sulle spalle, mangia una carota in silenzio, poi si rivolge a Urruti.
«Li ho aspettati fino ad ora…»
Urruti non ha niente da dire.
Lemoine ha aggiunto: «Qualcosa dev’essere andato storto.»
Per la prima volta non si preoccupano che stia sentendo anche Dumont. Forse a quest’uomo è finalmente chiaro che tutti gli sforzi fatti per giungere fin lì non sono serviti a granché. E allora non ci devono essere più segreti.
Si è riposato un’ora, Urruti l’ha atteso sveglio. Poi incrociano lo sguardo, si alzano e si allontanano. Solo loro due, parlano, neanche troppo a lungo.
Alla fine Urruti si è incamminato su per i ghiaioni e Lemoine è tornato al giaciglio, si copre. Dopo un bel po’ la tosse torna a svegliarlo a scossoni, chiede dell’acqua. Non ce n’è più e Dumont va a cercarla al torrente.
Nel frattempo Lemoine s’è addormentato. Quando si sveglia trova la borraccia piena e ringrazia. Vuol sapere:
«È tornato?»
«Non ancora…»
[Le immagini che illustrano il testo sono di Simone Caridi]