CACCIARI, MASSIMO OTTAVIANO AUGUSTO, L’UOMO CHE AMAVA LE DONNE
Meglio conosciuto come «Il Tombeur dell’Apocalisse». Il suo maggior vanto risiede nel fatto che ha potuto superare, sia a sinistra che a destra, le conquiste dello squisito e compianto Don Giovanni extraparlamentare Lucio Magri: non si contano più, infatti, le danarose e attempate carampane che lo vezzeggiano con mille premure, spettinandogli la formidabile chioma trattata, pare, con un anti-incanutente prodotto in un laboratorio segreto del San Raffaele. Di recente ha confessato di pensare sempre più spesso alla morte, ma soltanto alla guisa di Platone. Ci chiediamo, provando un brivido di assoluto, se, quando sarà giunto il socratico momento, intraprenderà anche lui, come il suo sempiterno rivale, l’estrema Gita a Chiasso. In molti si sono interrogati sull’origine della vertiginosa ebbrezza sprigionata dai suoi apollinei bigini. In principio pensavamo trattarsi di una sorta di estenuata traduzione – dall’«operaista dannunziano» al «nietzschiano postumo» – della prosa d’arte dei suoi mentori di gioventù, Antonio Negri, Mario Tronti e Alberto Asor Rosa. Studi più pertinenti ci indicano invece la diretta derivazione del suo verbigerante idioletto filosofico dalla «supercazzola pre-maturata» del conte Raffaello Mascetti alias Ugo Tognazzi. Ma tant’è. Nihilismus non facit saltus, e difatti l’ultimo dei philosophes, consapevole del suo ruolo di terminale profeta della civiltà veneziana, non si tira mai indietro, nemmeno in prima serata, esponendosi con sommo sprezzo del ridicolo al rischio di mietere il più spicciolo dei successi, dedicando le ultime energie della sua esistenza di intemperante conformista alla veneranda Favella.
KA-UND-KALASSO, ROBERT VON, L’UOMO CHE NON SAPEVA AMARE
È noto innanzitutto per essere stato il primo cuoco mitteleuropeo a ottenere – ai fornelli del suo ristorante, La Cripta dei Cappuccini, sito nelle labirintiche profondità della ridente cittadina di Tlön, non lontano dall’Engadina – l’ambito titolo di Geistarbeiter von nichts. Se la verità, nel crepuscolo degli idoli, è soltanto una forma di presentarla, il nostro l’ha messa a frutto con venusta sobrietà, deliziando intere generazioni di inappetenti gourmet grazie all’esclusiva distinzione dei suoi impiattamenti color pastello. Formatosi nelle serenissime cucine del rinomato chef Aldo Manuzio, il Ka-und-Kalasso è stato più volte elogiato dall’Enciclopedia Gastronomica Uqbar «per aver saputo destrutturare e decontestualizzare alcune delle ricette più rilevanti della tradizione in lingua tedesca, a partire dall’inattuale reinvenzione di un classico moderno come il SauerKraus». Il suo piatto più innovativo, quello che l’ha reso illustre in tutto l’orbe terracqueo, è forse La scaloppina di Kasch: «Prendete un pezzo di mitologia orientale, preferibilmente vedica, digrassatela, ma non del tutto, disossatela e bagnatela con abbondanti riferimenti alla filosofia, alla storia e alla letteratura universale. Poi tagliatela a bracioline, battetele, infarinatele e mettetele al forno con un pezzo proporzionato di aristocratico classismo. Infine conditele con spocchia a piacere. Servitele con altezzosi spicchi di paratesto a parte».
MAGRIS, CLAUDIO PROBIVIRO, L’UOMO CHE AMAVA TROPPO
Si era d’inverno, e la bora tormentava gli scuri dell’umile dimora di un’onesta famiglia italiana che stentava a sbarcare il lunario nella Venezia Giulia vilmente occupata dalle coorti di lanzichenecchi. Il piccolo scrivano triestino, chino sul sillabario, versava calde lacrime per la coatta lontananza dalla madrepatria: parole come Roma, Firenze, Vienna, Praga, Buda, Pest, Mompracem, Bombay ronzavano nostalgiche intorno al suo visetto ancora imberbe. Fu allora che il babbo gli dette, con gesto fermo e nel contempo rassicurante, il diario di un suo coetaneo, Enrico Bottini, pronunciando – severo, affettuoso e sincero – la frase che avrebbe segnato il destino del giovinetto: «tutto il mondo è paese». La lettura di quel primigenio Bildungsroman non contribuì solo a inaugurare un fertilissimo filone di ricerca, ma generò una specie di sensibilità diffusa, di moderata mitezza e modesto buon senso, dolorosamente incosciente dell’absburgica inettitudine a risolvere i mali del mondo. Sulla scia di quell’antica suggestione letteraria, sperimentata in carne viva (che scapaccioni dava Biagio Marin!), e del solidale esempio del suo compagno di banco alle elementari, l’istriano Garrone, Claudio non smise mai di amare e di raccontare, neppure quando gli fu conferita l’agognata cattedra universitaria: narrò e amò i mari e i monti, i caffè e le piole, le mule del Tergesteo e i monelli della via Pál, i microcosmici altipiani carsici e i generosi letti fluviali, la persuasione e la rettorica – sempre allegro ma non troppo –, le decadenti città portuali e le operose metropoli industriali, gli arcipelaghi dalmati, le snelle vedettes lombarde e i teneri scugnizzi napoletani. Le solite malelingue sostengono che, nonostante i molti ettari di foresta disboscati per fargli posto nella biblioteca di Babele, la sua opera migliore continua a essere la tesi di laurea che discusse a Torino nell’anno di grazia 1962 e che consacrò, natürlich, al mito dell’infanzia negletta.