E quando, più normalmente, ci sarà un altro corpo da abbracciare, di congiunti, affetti stabili ed amici? Il massimo contatto della più estesa superficie possibile che aderisce. Quando l’abbraccio è reciproco un otto si disegna, mai perfetto perché ogni corpo è diverso e diversamente irregolare, ma quasi un’intersezione tra i due circoli. Spesso le braccia femminili tendono l’anello verso l’alto, quelle maschili verso il basso dell’ultima vertebra, a volte le rispettive mani, anch’esse intrecciate, replicano in piccolo la saldatura. Una specie di doppio nodo regolato dallo sguardo, che però, quando di più ci si stringe, proietta la faccia oltre l’abbracciato enfatizzando il contatto: il petto, la pancia dell’altro sono molli, ci si affonda dentro. Oppure, con l’avvicinamento frontale, lo sguardo si sfoca e s’azzera, in direzione del bacio di Klimt cui si passano pareti di mucose, sciogliendosi in un arcobaleno di sostanze allo stato liquido.
Se lo sguardo è il regolatore dell’abbraccio, bisogna convenire che non sempre lo sguardo è benevolo. Vigilante della sua linea e quasi ostile quello del portiere verso la palla, avido d’encomi quello della guardia per il ladro, pronto a inserire tra i corpi la piccola sineddoche della manetta, piccolo otto d’acciaio. Nemmeno quello degli amanti è sempre benevolo: un mandrino che talvolta viene troppo girato, una chiave che non trova il musicale accordo. “Soffocante” è un aggettivo che non di rado si associa al sostantivo abbraccio, il quale poi può venire sostituito da “presa”, “stretta”. “Preso!” grida il poliziotto dei fumetti che placca il ladro in fuga abbracciandolo alla schiena. E la stretta di mano, gesto certo più formale dell’abbraccio, tutto distante per due braccia dritte, calorosa o meno, comporta sempre una leggera prova di forza. Una verifica dell’intensità altrui, brevissima, perché subito una specie d’allergia scosta i palmi. Un vecchio trucco dei venditori ambulanti era allungare la destra e quindi, avuta l’altrui, operare la stretta obbligando così alla fermata e all’ascolto della magnificazione della merce o soltanto, dopo un po’, della questua.
Dunque tanto più, l’abbraccio, trionfando nella sua forza fusionale trova anche la sua negazione. – Lasciami andare! – grida nelle cattive commedie la donna, facendo forza d’avambracci sul petto dell’uomo. L’abbraccio, come un nodo di congiunzione vaccaio, imprigiona l’un corpo con l’altro. Una mossa immobile che lega sempre gli amanti, i genitori e i figli, gli amici, i coniugi in un doppio ruolo bloccato. “Un abbraccio mortale” viene definito in politica il topos che conduce due alleati alla rovina sulla base di una condivisione; così quello di Mussolini con Hitler, secondo vulgata, lo portò a quattro gambe, goffamente, verso il baratro.
Quando è uno dei due ad abbracciare più forte, gli comunica “sei mio!”e cioè non te ne andrai fin quando questo nodo ci tiene, ti tiene, e questo nodo rimarrà fin quando durerà il mio amore, e il mio amore durerà in eterno. Incubo per donne recluse nella quarantena violenta. Di più l’abbraccio sembra un potentissimo agente scoagulatore e assimilatore. “Abbracciare con lo sguardo” qualcosa vuol dire ridurlo alla propria misura, rendendolo immediatamente un proprio possesso come fanno gli eroi standhaliani e balzacchiani con Parigi. Si rinviene tuttavia qualcosa di meschino in ciò; il paesaggio è immiserito a trompe-l’oeil, a murale da pizzeria, e gli oggetti per quanto enormi, perfetti, terribili – una Ferrari, una fabbrica – diventano balocchi d’un bambino capriccioso. L’abbraccio contiene tale sfumatura perché recinge e palpa la stoffa, la carne come l’avaro molieriano fa con il suo bene. La persona abbracciata potrebbe percepire la sensazione di essersi ristretta e materializzata, prezioso magari ma inerte e minerale per un Fagin o per un Gesualdo che antepone la roba in cui affondare le mani all’amore disinteressato. L’infinito ripugna a contenersi nella pupilla ed è piuttosto l’io che desiderando, “fingendo e mirando”, alla fine si sfa. L’oggetto del desiderio ha confini incerti e tremolanti d’orizzonte o di marina, si proietta su grande schermo bianco. E forse per molti è preferibile restare eterni oggetti del desiderio, secondo l’idea fondante dell’amore occidentale, piuttosto che di un solo, ipotecante abbraccio.
Certo, almeno fino a ieri, la retorica della libertà irriducibile, che si salda con l’ecolalia della soggettività sovrana, mostra orrore dell’abbraccio, esempio basico dei legami d’amore. In primo luogo perché ci dà il limite corporale di noi, poi in quanto sembra castigare la presunzione della nostra motilità inesausta, infine perché minaccia di assimilarci ad un altro, cosa che, in tempi di originalità di massa, non dev’essere giammai, poiché noi siamo sempre e soltanto noi. Di qui anche l’impossibilità odierna di un reale salto verso Dio. Ha allora un qualche significato per noi oggi cercare la più emblematica forma d’abbraccio inventata dalla letteratura? Quella più adatta al prossimo futuro?
Chiedersi quale delle strette rappresentate nella storia letteraria sia la più bella e significativa in assoluto è naturalmente ozioso, e insensato perché precipita nel totale soggettivismo. Tuttavia forse lo è meno porsi la domanda sulla stretta che è stata la più conforme al presente pre-pandemico. Per secoli i lettori avrebbero potuto indicare di primo acchito gli abbracci che Ulisse, tornato ad Itaca dopo le sue complesse peregrinazioni, scambia con i familiari. Il disperso si muove incognito nelle pieghe del tempo, camuffato da mendicante e da vecchio; anche quando mostra la sua forza d’arciere eliminando i Proci non riceve ancora dalla moglie il segno del pieno accoglimento. L’isola e la reggia sono spazi ancora troppo vasti per suggellare il ritorno nella forma dell’abbraccio. Telemaco rimprovera la freddezza della madre, la quale cerca invece un’ulteriore prova, più intima, che sola può aprire alla massima intimità dell’amplesso. Quando Ulisse, nel canto XXII di Omero, ricorderà il segreto del loro talamo nuziale, scolpito in un vivo legno d’ulivo, il periplo circolare del viandante si compie saldandosi nell’ultimo anello della stretta muliebre:
[…] e si sciolsero a lei le ginocchia
quando i segni conobbe che Ulisse mostrò
sicuri. Piangendo incontro gli corse, le braccia
avvolse al suo collo […] ( vv. 207-10)
A completare la ricongiunzione geografica con il luogo di nascita e quella temporale con le proprie origini familiari, Ulisse va alla ricerca del padre Laerte. Egli, come una divinità primordiale, si dedica ai lavori agricoli, e proprio nei campi il figlio, per ora non riconosciuto, lo trova e avvia la conversazione. Non resiste però a lungo nel celarsi e compie quindi la fusione finale con gli avi e con la terra: “[…] Si gonfiò il cuore del figlio, le nari gli punse / un’acuta voglia di pianto, guardando suo padre. / Si lanciò ad abbracciarlo, e lo baciò dicendo: / – Padre son io, io che cerchi […]” (XXIV, vv. 320-23). Chi oggi, nell’epoca del lavoro e delle relazioni liquide, delle migrazioni di massa e delle società multietniche, potrebbe riconoscersi in pieno, come invece è avvenuto per secoli, con tale modello che abbraccia luoghi e persone in modo stabile e definitivo?
Forse la versione dantesca di Ulisse, fatte salve le aspirazioni individuali di sempre, ci pare oggi più moderna. È molto fugace il resoconto che il personaggio fa a Dante sul momento del reimbarco (“né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né ‘l debito amore / lo qual dovea Penelope far lieta” Inferno, XXVI, vv. 94-6). Ciò da una parte segnala che il centro bruciante dell’interesse è il viaggio, dall’altra tocca esattamente i tre abbracci e li discioglie con una semplice parola. D’altro canto il profondo valore prometeico del desiderio, che sprona il canuto Ulisse a diventare “esperto del mondo”, non pare il più adatto a caratterizzare il nostro tempo. Pertanto l’abbraccio che immaginiamo tra i familiari e che segna il reciproco distacco, si distende da quella pietrosa spiaggia mediterranea fino a tutte le passate ed odierne partenze di bastimenti e barconi di migranti o di flotte di combattenti. E vale anche come ultimo saluto per diverse occasioni della separazione, prima fra tutte la forma amorosa dell’addio. Certo l’abbraccio romantico, poi del melodramma, spesso mescolato alla morte, e ancora cinematografico del Bogart di Casablanca, struggente e passionale, resta oggi soltanto quale mito che s’incarna nella cronaca più mortifera: fidanzati ripudiati, mariti divorziati, compagni abbandonati che perdono il lume di ragione, e insensati come un Carlo Moor, il masnadiere, infieriscono sulla donna di turno. Se no, in tempi tanto cauti ed incerti, la stretta sarà rapida, preferibilmente di mano, un po’ viscida come quando al momento del sì l’anello nuziale sfugge dal dito, rimbalza e rotola in qualche recesso oscuro e polveroso della chiesa, della sala comunale.