E come a messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio s’affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi obliando d’ire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo simigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
Tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
(Dante, Purgatorio, II, vv. 70-81)
Quante volte Dante cerca di abbracciare qualche cara ombra nel regno dei morti. È un gioco del pieno e del vuoto, una ripetuta sottolineatura gestuale dell’eccezionalità del suo viaggio, ma anche una profonda pena. Il poeta ci ricorda una cosa banale e fondamentale insieme: c’è bisogno d’un corpo per poter dare un abbraccio. La profonda pena della differenza si dà nel vivo che tenta di stringere a sé il morto, perché questi non può tornare a noi. E quante scene melodrammatiche da film quando l’amico ferito in combattimento o la donna amata stanno ormai morenti tra le braccia del protagonista; la vita scivola letteralmente via con la ferita sanguinante. Un fluido che rende anguillesco il corpo: la terra, il sottoterra l’attirano. Inutile dire quanto, in questi mesi, vivi e morti siano sottratti all’abbraccio.
E tanto, mentre ancora incerto tra vita e morte scivola e sfugge, tanto, appena compiuta la transizione, il corpo s’irrigidisce, frammento inorganico restituito legittimamente alla terra. Stringere la terra, l’inanimato, la bambola fa prorompere automatico l’urlo, nel cattivo cinema, certificazione che la stretta sull’estremamente rigido equivale all’abbraccio della vanitas in Dante. Lì però le ombre ancora parlano, nella civiltà contemporanea il corpo morto è sordo. Un prototipo visivo La pietà di Michelangelo, nel quale l’abbraccio è lasco, s’è sciolto nella deposizione, rassegnato e dolce d’accettazione. Si torna alla fluidità tepida che per paradossale contrasto il marmo freddo, compatto e liscio evoca; il marmo vivo dell’antichità.
Il Purgatorio, la cantica crepuscolare dell’amicizia, in particolare spinge al tentativo dell’abbraccio che si deve al riconoscimento. Ritrovare e stringere dopo lo stacco del tempo: qualcosa come il ritornello che ricattura la nostra attenzione dopo una pausa voluta dal compositore o creata dal caso in noi, di nuovo attivi dopo l’oblio. E magari, potendolo, rinverdire, stando a braccetto, il passeggio e le conversazioni d’amore e d’arte con i sodali di poesia e di musica, come nel brano riportato sopra e relativo a Casella. Malinconico è il ricordo di qualcosa che non si può rinnovare e ritorna soltanto con le apparenze della vita, il sembiante della persona amata.
La forma circolare dell’abbraccio si chiude allora su se stessi come una trappola scattata a vuoto. “Le mani avvinsi […] mi tornai con esse al petto” dice Dante con la consueta, mirabile esattezza e sintesi del dettaglio. Al modo del cinema muto il ladro sfugge alla presa del poliziotto e con involontaria, tragica comicità la palla dalle braccia del portiere; tutti fantasmi negativi, simili ad Ariel per altrettanti Calibani dagli avambracci scimmieschi, che inerti battono sui fianchi mentre un’espressione stolida si dipinge sul volto. Eppure non è poca cosa l’incontro con la prima, unica e residua cosa, il proprio corpo. Per Dante diviene certezza di esistenza in una distesa di parvenze. Allora quando si resta soli, miseri e sconfitti, nudi, quello è un dato.
Abbracciare se stessi per costretto solipsismo, in un’estrema difesa che comincia, e a volte è forzata a limitarsi, a constatare di esserci ancora. A tastoni si verificano i propri limiti; lo spazio occupato nel mondo con le braccia avvinte alle costole come a un tronco d’albero scortecciato. Oppure accoccolati in uno spazio ristretto dal dolore, come la foglia che si accartoccia per il fuoco, il bruco che fa di sé un verde anellino a proteggersi il molle. Abbracciarsi le ginocchia rattrappendosi nell’angolo per sfuggire l’occhio del nemico in una stanza di clinica psichiatrica, in un laboratorio burroghsiano per redimere dalla tossicodipendenza, burgessiano per le devianze sociali, in un corridoio di Bolzaneto, carcere militare sudamericano, farsi ombra semivivente in un campo per la rieducazione al bolscevismo ortodosso. Un deportato a cui hanno tolto oggetti, vestiti e scarpe, rasato il capo, il pube, le ascelle, che nulla capisce e a cui, trasparente, nessuno vuol rispondere; un sopravvissuto a mesi di terapia intensiva. E dopo ogni prova dimostrare a se stessi che si può stringere un corpo, quasi a fatica convincendosi che si tratti del proprio. Scarnificati e tendinei i lunghi torsi di Schiele sono toccati dalle proprie braccia disarticolate di marionetta sonnambula, rotta e incredula.
Nella luce tenue e ansiosa del Purgatorio l’anima del bonario motteggiatore Belacqua è fissata nella posizione sfiduciata descritta sopra. Il pentimento tardivo costringe il personaggio a restare fuori dalla porta del secondo regno, posto diversi gradoni più su nella montagna, per tanto tempo quanto ha indugiato a liberarsi dal peccato. Meno aspra di altri penitenti è dunque la sua sorte: s’abbraccia perché non sa che fare del proprio corpo ancora neghittoso, travagliato adesso da un’accidia che si vorrebbe sbrigliare verso un obiettivo finalmente chiaro. Ora bisogna soltanto pazientare, ingannando il tempo, punti dalla noia al modo dei ragazzi che tra sé si prendono in giro. Ancora adolescente ci appare Belacqua a fronte del cammino fatale dell’amico d’un tempo che di lui un poco sorride; ma verrà comunque anche per lui il momento di compiersi nella forma definitiva, sciogliendo l’abbraccio narcisistico in più larga e alta accoglienza:
Al suon di lei ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,
del quale né io né ei prima s’accorse.
Là ci traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a l’ombra dietro al sasso,
come l’uom per negghienza a star si pone.
E un di lor, che mi sembiava lasso,
sedeva ed abbracciava le ginocchia,
tenendo il viso giù tra esse basso.
(Dante, Purgatorio, IV, vv. 101-9)